Rivista Giuridica – ISSN 2784-8906
RICOSTRUZIONE STORICA DELL’EX ILVA DI TARANTO E DELL’OSPITANTE QUARTIERE TAMBURI. Giuseppina Ferrara Il presente contributo è animato dalla volontà di dimostrare come il quartiere Tamburi di Taranto, ospitante il polo siderurgico più grande d’Italia, sia […]
Diritto Ambientale Dottrina Fascicoli Fascicolo n.3/2022 Giurisprudenza Penale
RICOSTRUZIONE STORICA DELL’EX ILVA DI TARANTO E DELL’OSPITANTE QUARTIERE TAMBURI.
Giuseppina Ferrara
Il presente contributo è animato dalla volontà di dimostrare come il quartiere Tamburi di Taranto, ospitante il polo siderurgico più grande d’Italia, sia sorto antecedentemente la posa della prima pietra dell’impianto industriale oggi noto come ex Ilva. L’elaborato si pone come obiettivo, dunque, quello di opporre la realtà storica alla falsa impostazione diffusa fra alcuni per cui la popolazione della città dei due mari, ignara delle conseguenze dannose dettate dalla vicinanza delle proprie abitazioni all’industria, avesse costruito le stesse in un momento successivo l’attivazione dell’impianto.
Quanto palesato nel testo che segue è il frutto di una ricerca storica attuata presso l’Archivio di Stato di Taranto.
Lo stabilimento industriale Italsider nasce a Taranto nel 1960, di proprietà pubblica. Il colosso siderurgico venne costruito nel quartiere Tamburi; quest’ultimo, già esistente, si sviluppò ulteriormente anche alla luce dell’edilizia popolare intervenuta a favore degli operai dello stabilimento stesso. La decisione di costruire il polo siderurgico nella provincia jonica venne presa nel 1959 dopo un ampio dibattito che vide il coinvolgimento del Governo, dell’IRI e della Finsider. La scelta di far ricadere su Taranto ‘i benefici’ della costruzione del polo industriale rappresentò una vittoria per i rappresentanti politici del territorio, alla luce anche dei contributi statali per le politiche meridionalistiche. Infatti, fino a quel tempo, la grande industria nazionale era localizzata prevalentemente al nord del paese1. Era dunque necessario un investimento nelle aree in via di sviluppo. Il polo tarantino era, in ordine di tempo, il quarto centro siderurgico del paese (dopo quelli di Cornigliano, Piombino, Bagnoli) ma più grande di tutti.
Questo investimento assunse le sembianze del polo siderurgico sulla scorta della convinzione, diffusa fra molti economisti dell’epoca, che l’industria fosse il migliore investimento nel breve periodo, poiché quella più consona a promuovere gli effetti a monte ed a valle. Il siderurgico a ciclo integrale di Taranto si proponeva anche di soddisfare i bisogni frutto dei consumi interni sempre più crescenti. Infine, la scelta localizzativa tarantina si presentava florida in relazione ad alcune condizioni operative facilitate dalla morfologia del territorio; infatti, qui si presentavano: “vaste aree pianeggianti e vicine al mare, disponibilità di calcare in buona quantità, una rada ben protetta, un non difficile reperimento di manodopera con possibilità di un’idonea qualificazione”2. La costruzione del centro siderurgico venne avviata il 9 luglio del 1960, la posa della prima pietra avvenne alla presenza del Presidente Gronchi.
Nel 1961 le Acciaierie di Cornigliano si fondono con l’ILVA – Alti Forni e Acciaierie d’Italia, sviluppando l’Italsider – Alti Forni e Acciaierie Riunite ILVA e Cornigliano che risponderà al nome di Italsider nel 1964. Il primo reparto ad entrare in attività fu quello produttore di tubi nel 1961, dopodiché il primo altoforno entra in funzione il 21 ottobre 1964 ed il secondo il 29 gennaio 1965. L’inaugurazione si ebbe il 10 aprile 1965, data simbolo della vittoria della politica meridionalistica convinta di aver messo in moto un immobile mezzogiorno, limitando drasticamente il fenomeno dell’emigrazione e creando un volano per lo sviluppo tutto tondo della fascia jonica. Il fermento di una mutata realtà per il meridione portò, in fabbrica, rappresentanti d’ogni genere; infatti, furono il Presidente del Consiglio Moro, accompagnato dai Ministri Colombo, Pieraccini, Bo, Arnaldi, ad inaugurare il quarto polo siderurgico d’Italia. “La città dell’acciaio, grande quattro volte Taranto”3 accolse anche il Presidente della Repubblica Saragat e Papa Paolo VI, il quale qui celebrò la Santa Messa di mezzanotte del 24 dicembre 1968. Il Ministro per le Partecipazioni Statali, Bo, sottolineò che “con essa si è voluto compiere un atto politicamente lungimirante”4. Il polo siderurgico sotto la governance pubblica vivrà per un trentennio, ma fu la grande crisi degli anni ’80 a consacrare la volontà di privatizzare l’acciaieria più grande d’Europa. Tant’è che nel maggio del 1995 l’Italsider venne acquisita dal gruppo Riva5 e mutò di nomenclatura diventando l’Ilva6. Lo stabilimento industriale venne localizzato, come poc’anzi precisato, all’interno del quartiere Tamburi, rione nord-occidentale della città di Taranto, anche alla luce della vicinanza con il porto. Infatti, la localizzazione del centro siderurgico nei suoi pressi, avrebbe facilitato di gran lunga il trasporto e la spedizione del materiale finito. In aggiunta, l’area pianeggiante prossima alle sponde del Mar Jonio, avrebbe garantito l’approvvigionamento idrico dell’acciaieria7. L’analisi del territorio (finalizzata ad eleggere il luogo ove costruire il polo) si fermò a queste considerazioni, tralasciando del tutto la questione abitativa. Infatti, il rione Tamburi si presentava come una zona cittadina già abitata. A testimonianza di ciò vi sono documenti fotografici attestanti insediamenti abitativi fin dai primi anni del XX secolo. Il quartiere, poi, iniziò ad espandersi con i primi complessi abitativi sorti per soddisfare l’esigenza di residenza dei dipendenti dell’impianto ferroviario8 della città tarantina. Un altro elemento che dimostra la presenza di un quartiere abitato anteriormente la costruzione della fabbrica, è la struttura ospitante la scuola primaria e secondaria di primo grado, Egidio Giusti, localizzato in via Galeso: “l’edificio risale agli anni ’30 del secolo scorso, quando si decise di risolvere i problemi dei residenti nel rione Tamburi che, per far studiare i propri figli, erano costretti a mandarli nella città vecchia”9. Un ulteriore documento di convalida della preesistenza del quartiere è rappresentato dalle “richieste di contributi” da parte della scuola Giusti del rione Tamburi indirizzate, negli anni 1936/195410, al Comune di Taranto. Proseguendo lungo questo percorso, vi sono testimonianze documentali attinenti l’“edilizia scolastica del rione Tamburi” datati 1932/193911. Ancora, nel 1948 si certificarono i “danni bellici [al] rione Tamburi”12 con la conseguente “ricostruzione degli edifici popolari”13 nel quartiere stesso (annate 1936/1951). L’affermata esistenza di un quartiere abitato è, per giunta, affermata dalla “costruzione di case minime al rione” nel periodo compreso fra il 1941 ed il 194514. Dal 1948 al 1955 si assicurò la “fornitura di energia elettrica all’asilo di mendicità”15 ed “alle case popolari ed ina-casa”16 del quartiere in analisi. Per di più, dal 1952 al 1960 si attesta la “costruzione di abitazioni per dipendenti del Ministero [della] Difesa al rione Tamburi”17. Possiamo, proseguendo nell’indagine storica, notare che l’agglomerato urbano del quartiere Tamburi si è dotato di un “mercato rionale”18 negli anni 1955-1957. In più, nel periodo che va dal 1955 al 1958, sempre in relazione all’edilizia popolare, si intese dar applicazione alla Legge 64019 per “l’eliminazione delle case malsane”20; in riferimento a quest’ultima testimonianza, posiamo dedurre l’esistenza di unità abitative, elette come domicilio da una serie di inquilini, persone fisiche, da tempi remoti. Gli ultimi documenti di questa breve, ma assolutamente non esaustiva, rassegna di atti rimarcanti l’esistenza del rione Tamburi fin da decenni prima la decisione di calare in una fitta rete urbana l’acciaieria più grande d’Europa, si riferiscono alla “Pavimentazione della Piazza Orsini”21 ed alla “Costruzione [degli] alloggi Ina-Casa per dipendenti del Banco di Napoli e dell’INPS al rione Tamburi”22, datati rispettivamente 1958 e 1959. Appurata la preesistenza del quartiere Tamburi all’impianto siderurgico, possiamo fin da subito notare che la costruzione dello stesso venne attuata in piena violazione dell’art. 216 del Testo Unico delle Leggi Sanitarie23 che imponeva la costruzione di stabilimenti industriali al di fuori delle zone abitate. Non bastevole, negli anni successivi la messa in moto dell’impianto industriale, lo stesso quartiere Tamburi, già esistente (come abbiamo avuto modo di dimostrare) e già ospitante una fabbrica sproporzionata in termini di grandezza, venne eletto come destinatario di un’ulteriore e corposa opera di costruzioni destinate all’abitazione dei dipendenti del polo siderurgico. Si edificarono, con stanziamenti di fondi pubblici, scuole24, case popolari25 e mercati26. Il tutto a ridosso dell’impianto siderurgico più grande d’Europa.
1 Per un maggiore approfondimento si rimanda a E. CERRITO La politica dei poli di sviluppo nel Mezzogiorno. Elementi per una prospettiva storica, in Quaderni di Storia Economica, Banca d’Italia, giugno 2010 n. 3;
2 LEONE E. (1996, p. 456) Siderurgia meridionale, in D’ANTONE L. (a cura di), Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (Taormina, 18-19 novembre 1994), Roma: Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia;
3 Istituto Luce Cinecittà, La settimana Incom 02528, del 26/11/1964, rinvenibile al sito https://www.archivioluce.com;
4 Istituto Luce Cinecittà, La settimana Incom 02528, del 26/11/1964 https://www.archivioluce.com;
5 Gruppo industriale fondato dai fratelli Emilio ed Adriano Riva nel 1954;
6 Raffigura il nome antico dall’Isola d’Elba, situata nel Mar Tirreno. L’isola era chiamata “Aithàle” (dal significato di fuliggine) dagli Antichi Greci (che già estraevano il ferro dal sottosuolo elbano in quell’epoca) poi chiamata “Ilva” dai Romani (con riferimento alla popolazione locale degli Ilvati, appartenenti ai Liguri, il cui significato è “ferroso”) per diventare “Ilba” ed “Helba” nel Medioevo. L’origine del toponimo si ritiene essere etrusca. Il significato è la chiave del perché è stata battezzata così l’acciaieria: ilva significa ferro, materiale riccamente presente sull’isola toscana, dove le varie miniere sono oggigiorno in disuso;
7 Mediante il ricorso ad un dissalatore, l’acqua, attinta dal Sinni, dal Mar Piccolo, dal Tara e dal Fiumicello, viene impiegata in tutti i circuiti chiusi (nelle centrali termoelettriche e negli altiforni). Per il raffreddamento delle torri del reparto di cokeria e per altre funzionalità, l’acqua non viene trattata e trasformata ma direttamente impiegata.
8 La ferrovia Jonica, costruita dalla società Vittorio Emanuele, ultimò il tratto Taranto-Metaponto il 28 febbraio 1869, dopodiché vennero costruite abitazioni nel rione Tamburi per ospitare i lavoratori, un esempio è dato dal documento “Case per i ferrovieri in via Galeso” datato 1947/1959, rinvenibile nella Busta 186, Fascicolo 566, “Prefettura di Taranto”, serie II “affari speciali dei singoli
comuni”, comune di Taranto, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
9 vedi http://www.scuolagalilei.gov.it/wp/la-scuola/plessi/;
10 Busta 178, Fascicolo 525, “Prefettura di Taranto”, serie II “affari speciali dei singoli comuni”, comune di Taranto, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
11 Busta 559, Fascicolo del “Genio Civile anni 1897-1980”, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
12 Busta 368, Fascicolo del “Genio Civile anni 1897-1980”, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
13 Busta 1007, Fascicolo del “Genio Civile anni 1897-1980”, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
14 Busta 183, Fascicolo 550, “Prefettura di Taranto”, serie II “affari speciali dei singoli comuni”, comune di Taranto, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
15 Busta 169, Fascicolo 489, “Prefettura di Taranto”, serie II “affari speciali dei singoli comuni”, comune di Taranto, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
16 Busta 169, Fascicolo 490, “Prefettura di Taranto”, serie II “affari speciali dei singoli comuni”, comune di Taranto, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
17 Busta 190, Fascicolo 590, “Prefettura di Taranto”, serie II “affari speciali dei singoli comuni”, comune di Taranto, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
18 Busta 192, Fascicolo 603, “Prefettura di Taranto”, serie II “affari speciali dei singoli comuni”, comune di Taranto, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
19 Con la Legge 640 si fa riferimento alla Legge del 9 agosto 1954, n. 640 nomenclata “Provvedimenti per l’eliminazione delle abitazioni malsane”;
20 Busta 1317, Fascicolo del “Genio Civile anni 1897-1980”, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
21 Busta 208, Fascicolo 707, “Prefettura di Taranto”, serie II “affari speciali dei singoli comuni”, comune di Taranto, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
22 Busta 195, Fascicolo 635, “Prefettura di Taranto”, serie II “affari speciali dei singoli comuni”, comune di Taranto, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
23 Decreto Regio del 27 luglio del 1934 n. 1265;
24 Negli anni 1960/1963, documentazione rinvenibile nella Busta 197, Fascicolo 651, “Prefettura di Taranto”, serie II “affari speciali dei singoli comuni”, comune di Taranto, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
25 Nel 1962, documentazione rinvenibile nella Busta 199, Fascicolo 663, “Prefettura di Taranto”, serie II “affari speciali dei singoli comuni”, comune di Taranto, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
26 “Mercato ingrosso ortofrutticolo sulla via Orsini al Rione Tamburi” 1961/1975, documentazione rinvenibile nella Busta 199, Fascicolo 661, “Prefettura di Taranto”, serie II “affari speciali dei singoli comuni”, comune di Taranto, rinvenibile presso l’Archivio di Stato di Taranto;
I POTERI DI TUTELA DELL’ENTE LOCALE COMUNE. Gisella Ferrara ABSTRACT (italiano) L’elaborato in esame si occupa di analizzare le forme di tutela esperibili dall’Ente Locale Comune nella gestione del suo territorio. L’obiettivo di […]
Diritto Ambientale Diritto Amministrativo Diritto Sanitario Dottrina Enti Locali e P.A. Fascicoli Fascicolo n.3/2022
I POTERI DI TUTELA DELL’ENTE LOCALE COMUNE.
Gisella Ferrara
ABSTRACT (italiano) L’elaborato in esame si occupa di analizzare le forme di tutela esperibili dall’Ente Locale Comune nella gestione del suo territorio. L’obiettivo di questo studio è quello di determinare se questi mezzi giuridici di tutela esistano, quale sia la loro natura e se sia possibile un controllo giudiziario degli stessi. In questo senso, la domanda della ricerca è la seguente: un governo virtuoso del territorio che prevenga, al fine di evitare, rischi sanitari ed ambientali, è oggi giorno assistito da un concreato bagaglio di strumenti giuridici o solo un accorato auspicio? Sulla base del caso di studio preso in analisi (l’ordinanza contingibile ed urgente n.15 del 27 febbraio 2020 adottata dal Sindaco di Taranto), si evince chiaramente che i danni irreparabili arrecati alla salute dei consociati ed all’ambiente potrebbero essere meglio gestiti (ancora meglio, prevenuti) nell’ottica di azione locale, alla luce della prossimità dell’attività degli amministratori. Queste esigenze dimostrano che, in una società sempre più complessa come quella in cui viviamo, possa essere molto efficace riconoscere maggiori poteri in capo agli enti locali, rivisitando in chiave contemporanea il tradizionale principio di sussidiarietà.
ABSTRACT (inglese) This paper analyzes forms of protection that can be experienced by the Local Municipality in the management of its territory. The aim of this study is to determine whether these legal means of protection exist, what their nature is and whether a judicial control of them is possible. In this sense, the research question is the following: is nowadays a virtuous and preventing health and environmental risks government of the territory assisted by a concreated baggage of legal instruments or is it just a heartfelt wish? On the basis of the case study taken into consideration (the contingent and urgent ordinance n.15 of 27 February 2020 adopted by the Mayor of Taranto) it is clear that the irreparable damage caused to the health of the associates and to the environment could be better managed (and even better prevented) by a local approach considering a strong connection between municipal administrators and territorial issues. The result of this paper underlines that the complexity of a modern society requires many more powers in the hands of local authorities, in order to have a more efficient management. A sort of contemporary reinterpretation of the traditional principle of subsidiarity.
Sommario: 1. L’ordinanza contingibile e urgente n. 15 del 27 febbraio 2020 adottata dal Sindaco di Taranto. 1.1. Le funzioni amministrative e la tutela ambientale. 1.2. L’azione amministrativa precauzionale: le ordinanze sindacali. 1.3. Il procedimento amministrativo ed il sindacato del giudice. 2. La sentenza n.249 del 13 febbraio 2021 del T.A.R. Lecce–sez. prima. 3. La sentenza n.4802 del 23 giugno 2021 del Consiglio di Stato–sez. quarta. 3.1. AIA e danno sanitario. 4. Conclusioni.
L’Ordinanza contingibile ed urgente n. 15 del 27 febbraio 2020 adottata dal sindaco di Taranto
Il 27 febbraio 2020, il sindaco protempore del comune di Taranto ha emanato un’ordinanza sindacale in materia di competenza della direzione ambiente, salute e qualità della vita, decretante l’eliminazione del ponderoso rischio sanitario per l’intera comunità locale. Difatti, l’oggetto dell’ordinanza n.15 attestava il “rischio sanitario derivante dalla produzione dello stabilimento siderurgico ex Ilva – Arcelor Mittal di Taranto – emissioni in atmosfera dovute ad anomalie impiantistiche – ordinanza di eliminazione del rischio e, in via conseguente, di sospensione delle attività”1.
Nell’esercizio dei poteri conferitagli dagli articoli 502 e 543 dal testo unico degli enti locali (d’ora in avanti TUEL), il sindaco di Taranto ha ordinato alla società Arcelor Mittal ed all’Ilva s.p.a. in amministrazione straordinaria (ciascuno per quanto di competenza e di responsabilità) di individuare gli impianti responsabili di emissioni intollerabili, intimandone l’eliminazione delle anomalie entro 30 giorni dal ricevimento della stessa ordinanza. Ed ancora, che nella eventuale ipotesi di impossibilità di individuare le sezioni di impianto autrici di dette anomalie e di tutti gli impianti ed attività loro connessi, fosse disposta la procedura di sospensione/fermata delle attività entro 60 giorni dalla data della stessa ordinanza.
Infine, se fosse stato difficile, per le due destinatarie dell’atto amministrativo, l’individuazione delle sezioni di impianto danneggianti ovvero non fossero risolte le criticità, il primo cittadino ha loro proceduto ad individuare, in forma d’elencazione, quegli impianti che sicuramente urgeva bloccare (“sospendere/fermare”4); ovverosia: altiforni, cokeria, agglomerazione, acciaierie. Anche questo, nel termine massimo di 60 giorni dall’emanazione dell’atto sindacale.
Per quanto riguarda le tempistiche, convenzionalmente queste sono state apposte al fine di bilanciare i tempi tecnici strettamente necessari al blocco degli impianti succitati (e di quelli prodromici) con la sicurezza della comunità locale. Con la precisazione che “eventuali richieste di proroga dei termini innanzi stabiliti, potranno essere legate esclusivamente a ragioni di natura tecnico/impiantistica e di sicurezza nell’esecuzione delle procedure di fermata”5.
Come vedremo più specificamente in seguito, la legislazione italiana riconosce al Sindaco il potere di emettere delle ordinanze contingibili ed urgenti al fine di porre rimedio ad una situazione di grave rischio sanitario per la sua popolazione, sulla base di istruttorie e di atti presupposti che ne certifichino la contingenza e l’urgenza di cui sopra. In più, dette ordinanze sindacali, rappresentano, l’extrema ratio. Ovverosia, qualora non ci siano altri mezzi maggiormente idonei a garantire quel determinato risultato o non vi sia una competenza specifica, il primo cittadino può esercitare questi poteri che sono, nelle previsioni legislativi, residuali. Il perché del riconoscimento di questi poteri in capo al primo cittadino è ben diffuso e radicato negli articoli 50 e 54 del TUEL ed attiene al fatto che l’ente locale comune ed il gabinetto del sindaco sono le figure più prossime ai cittadini, alle comunità.
Sono loro, di fatto, a raccogliere le continue segnalazioni di mal funzionamento ed a misurarsi con il pressante allarme sociale fortemente percepito dagli abitanti del bacino territoriale.
Ricostruendo la storia di questa ordinanza, possiamo infatti notare come essa trae spunto, sul piano fattuale, dagli eventi di emissioni anomale che si sono verificate i giorni 5, 17, 18, 19 agosto 2019 relativamente al camino c.d. “e312” e dagli eventi emissivi odorigeni concretizzatisi dal 20 al 23 febbraio 2020. Nelle premesse dell’ordinanza sindacale possiamo leggere come “tali emissioni, percepite in città e oggetto di numerose segnalazioni, hanno procurato un forte odore diffuso in particolare nei quartieri Tamburi, Borgo, Città Vecchia. […] Le attuali e persistenti criticità di carattere emissivo, non escludono possibili conseguenze di natura sanitaria e producono sempre più insistentemente situazioni di estremo disagio sociale, oltre che diffusa preoccupazione ed esasperazione della popolazione che vede minacciata la propria salute specie delle fasce più deboli.”6 A questa ordinanza, non ha fatto seguito una adeguamento da parte delle destinatrici di quanto richiesto nel corpo della stessa e, dunque, di conseguenza, il comune di Taranto ha stilato la nota n. 173 del 29 marzo 2020, con la quale attestava l’inadempienza dei gestori del polo industriale. In più, “l’ente ha rilevato di non aver ricevuto alcuna comunicazione o informazione da parte del gestore o della struttura commissariale sulle criticità e/o anomalie rappresentate con l’ordinanza sindacale. Conseguentemente, ha comunicato l’inizio del decorso dell’ulteriore termine per l’effettuazione delle operazioni di fermata dell’area a caldo e degli impianti connessi. [In relazione a questa nota], le due imprese hanno proposto motivi aggiunti avverso la suddetta nota, deducendo vizi di illegittimità in via derivata, nonché vizi di illegittimità diretta”7.
Le funzioni amministrative e la tutela ambientale
La tutela dell’ambiente è una materia giovane nell’esperienza italiana, essa, infatti, si è presenta come oggetto di attenzione e di studio solo dagli anni 70 del Novecento. E tutt’oggi la sua tutela assurge a livello Costituzionale solo mediante una costruzione dottrinale che identifica l’ambiente in un rapporto di genus–species con il bene salute. Questo rapporto è dato dal fatto che l’ambiente è il palcoscenico su cui l’individuo esercita la sua vita e tutte le attività realizzatrici della sua persona. La salubrità dell’ambiente in quanto declinazione concettuale del bene salute è esso stesso un diritto assoluto8. Di fatti, la scienza giuridica ha inteso recepire un assioma della ecologia, branca della scienza esatta biologia, secondo cui “un organismo è indissolubilmente connesso, nel suo destino, al contesto nel quale vive”. Non si può, dunque, negare, che il contenimento dell’inquinamento (ai nostri fini, industriale) dell’ambiente rappresenta uno strumento necessario alla tutela della salute. Sempre ai nostri fini, è di primaria importanza l’insegnamento di Sacco9 secondo cui il bene salute non è inteso solamente come bene personale ma anche come bene dell’intera collettività che necessita della salute di tutti i suoi componenti per meglio crescere ed affermare i propri valori.
Crediamo sia sulla scorta di queste motivazioni che il giudice delle leggi abbia sottolineato come la tutela dell’ambiente sia una materia trasversale, e quindi che “non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell’art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come materie in senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie. In questo senso l’evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una materia in senso tecnico, qualificabile come tutela dell’ambiente [in quanto] essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze”10.
Alla luce di queste considerazioni, è innegabile che anche la funzione amministrativa dello Stato, sia conformata ed attivamente coinvolta nell’attuare una gestione orientata al rispetto dell’ambiente. A sostegno di questa competenza propria anche dell’amministrazione, si prende in considerazione l’art. 3ter del codice dell’ambiente11 secondo cui “la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione”. L’espletamento da parte della funzione amministrativa della tutela ambientale è lapidariamente giustificato dalla stessa Carta Fondamentale italiana. Infatti, “con riferimento all’attività amministrativa, l’art. 118 della Costituzione è al timone dell’attività di distribuzione delle funzioni tra il centro e la periferia: il principio di sussidiarietà ivi citato impone di attribuire le funzioni amministrative agli enti più vicini ai cittadini (i comuni), salvo che si renda necessaria la competenza di un livello superiore per associarne l’esercizio unitario. Dunque, la rigidità del riparto legislativo tra Stato e regioni viene mitigata intendendo l’articolo 117 Cost. non tanto come elenco di competenze insuscettibili di coordinarsi tra loro, ma come un complesso di competenze che, seppur distinte sul piano legislativo, si integrano sul piano dell’attuazione amministrativa in forza dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione tra Stato, regioni ed enti locali. […] Con precipuo riferimento alla materia ambientale, poi, il principio di leale collaborazione assurge a principio guida delle funzioni amministrative, con la conseguenza di favorire un assetto condiviso tra più soggetti della medesima funzione”12.
In relazione alla legittimazione dell’attività amministrativa atta a tutelare il bene ambiente e nello specifico alla tutela positiva posta in essere dagli enti locali in riferimento alla salubrità ambientale del territorio che governano, è dedicato il paragrafo che segue.
L’azione amministrativa precauzionale: le ordinanze sindacali
Oggigiorno è ben chiaro che i principi giuridici sono regole direttamente applicabili e che, in quanto tali, creano diritti ed obblighi. Anche l’azione amministrativa è informata ai principi comunitari ed internazionali. Anzi, è da sottolineare come sia stato, il diritto amministrativo, fra i primissimi filoni del diritto a dichiarare che la sua attività (amministrativa) fosse chiamata al perseguimento dei fini determinati dai principi dell’ordinamento comunitario e dalla legge13. Il primo articolo della legge sul procedimento amministrativo recepisce, dunque, come fautore dei propri fini, anche il principio di precauzione. La Corte europea dei diritti dell’uomo “ha indirizzato la propria attenzione sulla effettiva operatività e sugli effetti dello stesso, evidenziandone l’inscindibile collegamento con la necessità da parte delle pubbliche amministrazioni, di informare correttamente i soggetti esposti a possibili rischi scientificamente incerti, individuando, in caso di inadempimento, una responsabilità patrimoniale a carico dello Stato (Corte EDU, 5 dicembre 2013, ricorso n. 52809/09). Nel richiamare il proprio orientamento sul diritto al rispetto della vita privata, così come tutelato dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in base al quale lo Stato è obbligato ad assicurare informazioni dettagliate ad ogni individuo per una corretta valutazione dei rischi per la propria vita e la propria salute e a predisporre un efficiente assetto legislativo idoneo a scongiurare ogni minaccia a tale diritto, la Corte individua nell’inosservanza del principio di precauzione una causa di responsabilità di natura patrimoniale di diritto internazionale in capo alle amministrazioni pubbliche autonoma rispetto alle disposizioni nazionali (Corte EDU, 11 ottobre 2011, ricorso n. 5056/)”14.
È da ricordare come il principio obblighi le autorità competenti “ad adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici”15.
Tirando le redini del discorso fino ad ora presentato, possiamo notare come l’attività amministrativa possa declinare se stessa in termini precauzionali e rendere, quindi, un servizio di tutela al diritto fondamentale alla salute ai membri della comunità locale. Risulta certificabile come i diritti assoluti dei singoli possano essere, con una maggiore efficacia, tutelati (positivamente) a livello degli enti locali alla luce di quella prossimità di cui si parlava precedentemente. Ad avviso di chi scrive, uno strumento di estrema protezione del diritto fondamentale alla salute (e di tutte le sue declinazioni concettuali: dignità, ambiente salubre, lavoro) è rappresentato dall’inibizione (forse l’unica forma di tutela efficace) dell’attività dannosa/rischiosa/pericolosa attuato mediante l’ordinanza contingibile ed urgente, anche detta ordinanza sindacale. L’ente locale comune è la Repubblica italiana, e come tale è avvertito dai consociati. La prossimità, tanto nel rapporto con gli abitanti, quanto con l’oggetto del problema che di volta in volta si manifesta, è motivo di vantaggio nel gioco della gestione e risoluzione delle questioni territoriali. Lo sguardo politico-amministrativo privilegiato da detta prossimità, non è altro che il fulcro degli articoli 50 e 54 del TUEL Sono queste disposizioni legislative a riconoscere un potere di ordinanza (ben specificato nel suo oggetto e nei suoi limiti) in capo al primo cittadino. Nella trattazione a loro dedicata, è necessario sottolineare come queste possano dirsi validamente emanate solamente quando la necessità dettata dalla situazione fattuale richieda un intervento immediato e non sia possibile tutelare questi interessi pubblici mediante il ricorso agli strumenti ordinari. Nei fatti, “è sempre più frequente che le comunità locali esercitino una forte pressione sulle amministrazioni di riferimento affinché l’intervento a tutela degli interessi pubblici particolarmente qualificati, come la salute o l’ambiente, avvenga con prontezza ed immediatezza e, dunque, al di là ed a prescindere dai rigidi percorsi procedimentali tracciati dal legislatore per l’esercizio dei poteri ordinari dallo stesso assegnati alle pubbliche amministrazioni in vista del soddisfacimento dei medesimi interessi”16.
Quanto al contenuto dei requisiti che validano le ordinanze sindacali di cui agli articoli 50 e 54 TUEL, possiamo lapidariamente sancire che l’urgenza è giustificata dalla immediatezza del pericolo che deve essere fronteggiato prontamente mentre la contingibilità è soddisfatta dalla impossibilità di far fronte, con gli strumenti ordinari, ad una situazione non tipizzata dalla legge di un pericolo effettivo per l’incolumità pubblica. L’istruttoria fa da base e fornisce gli elementi necessari per attuare una valutazione preliminare circa l’esistenza o meno dei requisiti medesimi. Da ultimo, dunque, ci preme sottolineare come il potere sussidiario, il principio di precauzione ed il principio dell’azione preventiva, calati nell’esperienza della pubblica amministrazione, permettono anzitempo una efficiente e completa tutela ai consociati ed alla salubrità ambientale.
Il procedimento amministrativo ed il sindacato del giudice
Il procedimento amministrativo che si attua, con regole e tempistiche sui generis, nell’espletamento dell’azione amministrativa precauzionale non è, per usare un eufemismo, privo di incertezze. “È vero che il diritto chiamato a regolare situazioni connotate da un’elevata soglia di incertezza deve essere particolarmente flessibile al cospetto dell’orizzonte di possibilità realizzabili. In questo panorama, il ricorso a concetti giuridici aperti e indeterminabili si considera più che necessario. Questa incertezza, però, accentua le problematiche che da sempre insidiano lo studio dell’attività amministrativa, come il rapporto tra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica, e si riverbera, di riflesso, sul sindacato del giudice amministrativo inerente le decisioni precauzionali. Il carattere tecnico delle valutazioni interne ai procedimenti amministrativi culminanti nell’adozione di misure precauzionali sembrerebbe estraneo all’esercizio di un potere discrezionale e, come tale, non varrebbe ad escludere il sindacato del giudice amministrativo su tali provvedimenti quand’anche opinabile. Tutt’al più, l’indeterminatezza del criterio giuridico fondante l’approccio precauzionale dell’amministrazione e la peculiare incertezza tecnico-scientifica che costituisce il parametro concreto sul quale impostare una scelta di agire o di non agire sembrano plasmare la tutela giurisdizionale nelle forme del sindacato sulla discrezionalità amministrativa: se l’amministrazione ricorre a valori soggettivi per operare una scelta fra tutte le soluzioni tecnicamente possibili, il giudice può riesaminare l’apprezzamento effettuato guardando al sistema sociale di riferimento allo scopo di avere pieno accesso al fatto. In altri termini, poiché, il principio di precauzione è saldamente ancorato all’analisi del fatto, il giudice amministrativo è tenuto a controllare l’esercizio della discrezionalità amministrativa nel suo complesso, al fine di verificare il rispetto non formalistico del principio di legalità ovverosia operando il sindacato di ragionevolezza”.17
Le ordinanze contingibili ed urgenti, la cui analisi è oggetto del presente elaborato, hanno la natura (per buona parte della dottrina ed anche della giurisprudenza costituzionale18) di provvedimenti amministrativi.
Consci della loro natura, le caratteristiche di contingibilità ed urgenza rimarcano, comunque, l’aspetto di eccezionalità del potere conferito all’amministrazione di derogare alla disciplina di rango primario. Questo potere viene icasticamente definito “derogatorio”, proprio per sottolineare il peculiare tratto distintivo di esorbitare dalle regole che regolano l’ordinaria attività amministrativa.
I presupposti della necessità e dell’urgenza rappresentano, anche, dei “criteri di carattere logico adoperabili per lo scrutinio della legittimità in concreto del provvedimento: infatti, possono disvelare la sussistenza di eventuali vizi di eccesso di potere”19. Continuando, un ulteriore elemento loro caratterizzante è il loro dover essere emanate entro ragionevoli limiti temporali, se così non fosse, potrebbero utilizzarsi i rimedi ordinari (con le lungaggini temporali che questi portano con sé). Un’altra caratteristica dell’ordinanza sindacale è dettata dall’importanza che riveste nella sua formazione la fase che è propria del procedimento amministrativo; ovverosia: l’istruttoria.
Nel caso di studio, l’ordinanza contingibile ed urgente n. 15 del 27 febbraio 2020 del Comune di Taranto, è stata disposta sulla base di una corposa attività istruttoria disposta dalla direzione deputata. Il verificarsi ed il ripetersi degli eventi emissivi sono stati ampiamente e dettagliatamente documentati negli atti presentati nel corpo testuale del provvedimento sindacale nel premesso e nel considerato; come: “le note del Comune di Taranto prot. n. 28932 del 23.02.2020; n. 29308 del 24.02.2020; prot. n. 30850 del 26.02.2020; della nota di arpa puglia prot. n. 12389 del 24.02.2020; delle molteplici segnalazioni ai vigili del fuoco nelle date del 22 e 23 febbraio 2020; nonché della nota del predetto comando vv.f. prot. 2416 del 23 febbraio 2020 indirizzata ad arpa puglia con cui era stata confermata la presenza nell’aria di anomali effetti odorigini di gas, nonché, infine, la successiva relazione di Arpa Puglia del 24.02.2020 nella quale risultano evidenziati i parametri anomali di S02 (registrati sia dalla centralina meteo parchi della rete interna ami, sia presso la centralina rrqa di via Macchiavelli) evidenziandosi altresì anomale concentrazioni di H2S rilevate da entrambi i sistemi di monitoraggio (meteo parchi-ami e Archimede Tamburi e Orsini Tamburi/rrqa)”20.
Consci di una possibile insolente forzatura, vogliamo inoltrarci lungo la riflessione costruita dal Clarich in seno alla discrezionalità in astratto e vincolatezza in concreto, raccogliere il risultato raggiunto dal maestro e traslarlo sul nostro piano d’indagine. Assistendo così ad una progressiva riduzione della discrezionalità (se non ad una sua totale estinzione) quando, al termine dell’istruttoria, residuerebbe una unica possibile strada da seguire, una unica scelta possibile.
Nel nostro caso, alla sospensione/fermata delle attività inerenti i siti funzionalmente connessi agli impianti oggetto di anomalie.
La sentenza n. 249 del 13 febbraio 2021 del T.A.R. Lecce – sez. prima
L’ordinanza sindacale emanata al fine di porre rimedio ad una situazione di grave rischio sanitario ed ordinante, alle destinatarie locatrice e conduttrice, di individuare gli impianti interessati dalle anomalie e porvi termine ovvero di sospendere il funzionamento di alcuni siti ad alto rischio, elencati dallo scrivente, è stata prontamente impugnata.
Infatti, con ricorsi separati, Ilva s.p.a. in amministrazione straordinaria ed Arcelor Mittal Italia s.pa. (in qualità di gestore del polo siderurgico di Taranto alla luce del contratto d’affitto con obbligo di acquisto che questi hanno stipulato con Ilva s.p.a. in amministrazione straordinaria), hanno adito il giudice competente a valutare i loro motivi di ricorso. I quali, confluivano nella richiesta di annullamento dell’ordinanza contingibile ed urgente n. 15 del 27 febbraio 2020 e della nota n. 173 del 29 marzo 2020, ambedue del comune di Taranto.
Così, è stato intrapreso un giudizio innanzi la sezione prima della sede di Lecce del tribunale amministrativo regionale della Puglia. In particolare, le due ricorrenti hanno dedotto come motivi di censura la violazione e falsa applicazione degli articoli 50 e 54 del TUEL poiché ritenuta, l’ordinanza, in difetto dei presupposti dalla normativa prescritti affinché quest’atto amministrativo si potesse emanare; e dunque: difetto dei presupposti di urgenza, imprevedibilità e straordinarietà. In più, le ricorrenti hanno trovato motivo di doglianza nel difetto di istruttoria e di motivazione tanto in relazione ai termini temporali previsti per la risoluzione delle problematiche denunciate nell’ordinanza, quanto in relazione alla carenza istruttoria degli atti posti a fondamento del provvedimento stesso. Proseguendo, i motivi di censura hanno coperto anche la violazione del principio di proporzionalità e del principio di precauzione. In fine, sono state ragioni di ricorso: l’eccesso di potere per violazione del principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi, per sviamento, per contraddittorietà, travisamento in fatto e diritto, illogicità e irragionevolezza.
Il tribunale adito ha respinto tutti i motivi ritenendoli infondati e condannando le ricorrenti alle spese. La sentenza così pronunciata è entrata nel merito delle singole questioni con chiarezza e puntuale rigore. A parere di chi scrive, ogni questione ha trovato limpida ed indiscutibile esplicazione. Il collegio ha posto l’attenzione su alcuni aspetti di focale importanza nella gestione dei rischi connessi all’attività industriale pericolosa (definibile come tale alla luce dei mezzi impiegati e dell’attività svolta). Un argomento centrale che è stato analizzato è sicuramente l’autorizzazione integrata ambientale (in acronimo, d’ora in avanti, AIA) di cui, però, si parlerà nei paragrafi che seguono. Al momento, vorremmo soffermarci su alcuni dei passaggi contenuti nelle conclusioni che hanno argomentato puntualmente il rigetto di tutta quella serie di motivi sollevati con i due ricorsi. I giudici amministrativi lapidariamente sanciscono che il provvedimento impugnato “risponde perfettamente all’ipotesi di cui al d.lgs. 267/2000 art. 50 co. 5 [e che] risulta pertanto del tutto immune dai denunciati vizi”21. Infatti, gli episodi indicati nell’ordinanza sindacale “rappresentano mera occasione dell’adozione del provvedimento, e che gli stessi assumono rilevanza non già in sé considerati, bensì in quanto sintomatici di un incombente pericolo di reiterazione dei fenomeni emissivi. L’ordinanza contingibile e urgente impugnata, adottata ai sensi dell’articolo 50 TUEL, è volta a prevenire il ripetersi, via via più frequente, di immissioni in atmosfera in grado di determinare grave danno alla salute della popolazione residente, oltre che in considerazione dell’elevato allarme sociale che siffatti episodi emissivi determinano in una popolazione già assolutamente provata. Proprio tale situazione, da un lato, comprova la piena sussistenza, nella fattispecie in esame del presupposto grave pericolo per la salute e la vita dei cittadini, che – nel caso della città di Taranto deve ritenersi imminente e permanente”22. Proseguono, i giudici, sottolineando come “l’ordinanza contingibile e urgente impugnata costituisce peraltro applicazione del principio di precauzione, che risulta nella specie correttamente applicato e rispettoso del principio di proporzionalità, sia nella parte in cui ha ordinato alle ricorrenti un approfondimento istruttorio ulteriore (ordine rimasto privo di sostanziale riscontro), sia nella parte [in cui] ordina il procedersi all’avvio delle operazioni di spegnimento degli impianti dell’area a caldo del siderurgico”23. Coglie nel segno il richiamo, da parte dei giudici di primo grado, alla giurisprudenza del consiglio di stato nella parte in cui statuisce che “l’assoluta imprevedibilità del rischio non costituisce presupposto indefettibile per l’adozione delle ordinanze sindacali contingibili ed urgenti (CdS sez. V 3.6.2013 n. 3024). Parimenti la giurisprudenza del consiglio di Stato ha condivisibilmente ritenuto che il fatto che una situazione fonte di rischio sia protetta nel tempo non rende per questo illegittimo il provvedimento contingibile e urgente del sindaco, atteso che in determinate situazioni il trascorrere del tempo o lo stato di perdurante rischio non elimina da sé il pericolo per la salute dei cittadini potendo viceversa anzi aggravarlo (CdS sez. V 25.5.2012 n. 3077).”24
Per una più completa e chiara trattazione della vicenda, è necessario dar conto che la gestione della società non ha inteso sospendere l’attività così come ordinata con l’atto sindacale del febbraio 2020.
La sentenza n. 4802 del 23 giugno 2021 del consiglio di Stato – sez. quarta
La pronuncia del tar è stata prontamente impugnata dalle società gestori. Ambedue soccombenti, hanno visto respinti i loro motivi di ricorso. Così, ricorrendo ai giudici di palazzo spada, hanno chiesto che la sentenza fosse rivista dai consiglieri di Stato in sede, chiaramente, giurisdizionale.
“Il consiglio di Stato, all’esito della camera di consiglio dell’11 marzo 2021, ha disposto la sospensione della sentenza del tar Lecce n. 249/2021, con la conseguenza che Arcelor Mittal Italia non ha l’obbligo di avviare la fermata dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto e degli impianti connessi.
L’attività produttiva dello stabilimento può dunque proseguire regolarmente”
Così ha annunciato, in una nota a margine della pronuncia, la stessa azienda.
Arcelor Mittal Italia ed Ilva in amministrazione straordinaria. avevano, infatti, presentato una istanza ai giudici di palazzo spada con la quale chiedevano una misura monocratica cautelare che bloccasse gli effetti della sentenza di primo grado. La decisione sul punto è arrivata l’11 marzo 2021 ed ha anticipato il merito, giunto con la sentenza oggetto d’indagine nel presente paragrafo.
Il consiglio di Stato ha, con la pronuncia in questione, accolto l’appello principale proposto da Arcelor Mittal Italia spa e l’appello incidentale di Ilva spa in amministrazione straordinaria, annullando l’ordinanza contingibile ed urgente e la nota, rispettivamente del 27 febbraio e del 29 marzo 2020, emanate dal comune di Taranto. Così disponendo, ha riformato la sentenza di primo grado di cui sopra.
L’annullamento dell’atto sindacale è l’effetto della dichiarazione di illegittimità della stessa.
E, “poiché la decisione è già satisfattiva dell’interesse fatto valere in giudizio da Arcelor Mittal e da Ilva, va dichiarato l’assorbimento di tutti i motivi di appello [della prima] e dell’appello incidentale [della seconda] che non sono stati espressamente trattati”25 dai consiglieri di Stato. La presente dichiarazione di illegittimità è data dalla mancanza, a parere dei giudici di palazzo spada, di uno degli aspetti caratterizzanti le ordinanze sindacali; ovverosia: l’istruttoria. A detta del collegio decidente, “il potere di ordinanza non risulta suffragato da un’adeguata istruttoria e risulta, al contempo, viziato da intrinseca contraddittorietà e difetto di motivazione”26. Spingendosi, i giudici aditi, ad affermare che la nota dell’ARPA e le valutazioni dell’ASL di Taranto “non [constino di] un apporto di tipo istruttorio”27. Proseguendo, “si evince che il provvedimento risulta emesso senza che vi sia stata un’univoca individuazione delle cause del potenziale pericolo e senza che sia risultata acclarata sufficientemente la probabilità della loro ripetizione”28. Queste carenze istruttorie, secondo il consiglio di Stato, non potevano essere colmate neppure col riferimento al principio di precauzione, poiché “l’individuazione dei tratti giuridici del principio viene sviluppata lungo un percorso esegetico fondato sul binario analisi dei rischi-carattere necessario delle misure adottate; le misure precauzionali, infatti, presuppongono che la valutazione dei rischi di cui dispongono le autorità rilevi indizi specifici i quali, senza escludere l’incertezza scientifica, permettano ragionevolmente di concludere, sulla base dei dati disponibili che risultano maggiormente affidabili e dei risultati più recenti della ricerca internazionale, che l’attuazione di tali misure è necessaria al fine di evitare pregiudizi all’ambiente o alla salute; si rifiuta un approccio puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente”29. Citando se stesso, il consiglio di Stato si rifà ad una pronuncia del 2019 riportando come l’applicazione delle misure fondate sul principio di precauzione “presuppone l’esistenza di un rischio specifico all’esito di una valutazione quanto più possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura”30.
Facendo applicazione di quanto tracciato “al caso di specie, è conseguenziale rilevare come sia mancata una previa valutazione scientifica del rischio direttamente riconnesso agli eventi emissivi di cui si teme la ripetizione”31.
Ad avviso di chi scrive, il passaggio della sentenza concettualmente più irritante è quello in cui apertis verbis si certifica che non “risulta parimenti accertata la sussistenza di un possibile rischio che non risulti fronteggiabile con gli strumenti tipici predisposti della disciplina cui si è fatto più volte menzione”32.
Perpetrando, i consiglieri scrivono che “nel caso di specie, l’istruttoria è carente nell’individuazione delle cause che hanno comportato gli eventi emissivi presi in considerazione e che, secondo la tesi del comune, potrebbero comportare la loro ripetizione”33. Questa ulteriore presa di posizione, in piena antitesi con le tesi del comune, si è posta sulla scia dell’orientamento giurisprudenziale consolidato a palazzo Spada per cui l’esercizio del potere di ordinanza contingibile ed urgente richiede “il rigoroso svolgimento di una compiuta e mirata istruttoria volta a riscontrare, attraverso una indagine che faccia emergere e sia adeguatamente conto della situazione di fatto da regolare, l’effettiva sussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza cui si correla una situazione di effettivo e concreto pericolo per la integrità dei beni tutelati, la quale non sia fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva”34. In chiusura, i giudici attestano come “nessuna delle criticità evidenziate […] viene causalmente correlata agli eventi occorsi o al rischio della loro possibile ripetizione”35. Le criticità a cui si fa riferimento sono quelle contenute nella relazione arpa, atto presupposto dell’ordinanza sindacale.
AIA e danno sanitario
Un aspetto peculiare di questo procedimento giudiziario, è rappresentato dal continuo riferimento all’AIA36 benché l’oggetto della questione attenga alla tutela del bene salute, unico fra i diritti costituzionalmente tutelati ad essere definito fondamentale. E dunque, abbiamo assistito (ed assistiamo, spoiler!) allo spettacolo d’arte varia in cui un provvedimento amministrativo sancisce (e nella sostanza dispone) dell’interesse principale dell’uomo. Rappresenta un leit motiv (per utilizzare una terminologia adoperata dai giudici del tar) della linea difensiva delle ricorrenti, l’ equivoco convincimento, delle stesse, per cui il rispetto dei parametri emissivi sanciti nell’AIA comporti de plano l’esclusione del rischio (prodromico l’ordinanza sindacale) o del danno sanitario (che, ahinoi, nel contesto del polo siderurgico tarantino, con buona pace del principio di precauzione, è più consono indagare con lo strumento del principio di prevenzione). Questa nostra presa di posizione è corroborata dall’evidenza scientifica di molteplici fattori presi in esame. Tutti fattori, questi, presenti nella esasperata vicenda tarantina, del polo siderurgico. “In particolare, con riferimento al siderurgico di Taranto, la speciale normativa di cui alla citata legge del 2012 e il DPCM 2017 sostitutivo37 dell’AIA, come peraltro accertato anche a seguito dell’istruttoria disposta dal collegio, non prevede alcuna preventiva valutazione sanitaria”38. In relazione alle censure poste dai gestori del polo e fatte proprie dal consiglio di Stato, c’è da sottolineare che la ratio sottesa all’ordinanza sindacale era una palese richiesta di riesame dell’AIA. stessa e non un tentativo di imporre obblighi non previsti dalla stessa autorizzazione, in capo ai gestori. Proseguendo su questa (errata) linea di pensiero è stato facile liquidare l’ordinanza in esame come, per l’appunto, illegittima.
In verità e ad ironia della sorte, la volontà del comune aderiva a quella famosa pronuncia (abbastanza sgradevole per i tarantini ed i costituzionalisti) della Corte Costituzionale del 201339 con la quale si stabilì che “le prescrizioni e [le] misure contenute nell’AIA possono rilevarsi inefficaci, sia per responsabilità dei gestori, sia indipendentemente da ogni responsabilità soggettiva. In tal caso trova applicazione la disciplina contenuta nell’art. 20octies, co. 4 del codice dell’ambiente, che impone all’amministrazione di aprire il procedimento di riesame”. Questa esigenza è concretamente sentita dalla comunità tarantina poiché, nell’ultima AIA del 2014 (così come modificata dal DPCM 29.9.17 in occasione della cessione della gestione ad Arcelor Mittal), non risultano prese in esame né le ulteriori polveri sottili (pm10 e pm2,5) né il naftalene ed altri (come rame e mercurio). “Secondo la letteratura scientifica, la correlazione causale tra tali sostanze, (tra cui in particolare il pm2,5) e specifiche patologie, in particolare quelle oncologiche, per le quali nell’area interessata – e soprattutto nel rione Tamburi, Borgo e Città Vecchia (maggiormente esposti agli inquinanti dell’acciaieria) è stata accertata una incidenza percentuale in eccesso in danno della popolazione residente, con una elevatissima percentuale di casi oncologici in soggetti in età pediatrica e infantile”40. Peraltro, è la stessa perizia di parte in primo grado del 04.12.2020 depositata dalla ricorrente Ilva in amministrazione straordinaria a sottolineare come “l’analisi complessiva delle misure consiglia di considerare come indicatori dell’esposizione complessiva da porre in relazione con i danni alla salute umana il pm10 ed il pm2,5” (!). Ad avviso di chi scrive, è necessario conoscere e diffondere le risultanze scientifiche che il consiglio di Stato, nella pronuncia qui analizzata, non ha raccolto, bollando l’ordinanza sindacale come non provata.
Nell’istruttoria, al contrario di quanto trapelato da palazzo spada, è ben provato il rischio sanitario (già apprezzabile e, ahinoi, perennemente cogente).
A dimostrazione di quanto appena sostenuto, riportiamo una parte della ricerca IESIT41 condotta congiuntamente da ARPA Puglia, AReSS ed ASL di Taranto e poi implementata ed aggiornata dalla ASL di Taranto in collaborazione con l’Università degli Studi di Bari, Cattedra di Statistica Medica, dell’Osservatorio Epidemiologico Regionale e con AReSS Puglia, sempre con riferimento al periodo 2006-2015 per la mortalità e dal 2006-2017 inerentemente l’ospedalizzazione.
Nell’appena menzionato studio, leggiamo di un eccesso di patologie oncologiche rispetto l’incidenza media delle stesse su base regionale. In particolare, si evidenzia che nella comunità tarantina “sono stati registrati 173 casi di tumori maligni nel complesso delle età considerate (0-23 anni), dei quali 39 in età pediatrica e 5 nel primo anno di vita. In età pediatrica si osserva un numero di casi di tumori del sistema linfoemopoietico totale in eccesso rispetto all’atteso, al quale contribuisce sostanzialmente un eccesso del 90% nel rischio di linfomi, e in particolare [quello di] NonHodgkin; si sottolinea inoltre che dei 22 casi di tumori del linfoemopoietico totale in età pediatrica 11 sono stati diagnosticati in età 5-9 anni […], in età giovanile (20-29 anni) si evidenzia un eccesso del 70%di incidenza dei tumori della tiroide. [Ancora], i nati da madri residenti nel periodo 2002-2015 sono stati 25.853; nello stesso periodo sono stati osservati 600 casi di Malformazione Congenita, con una prevalenza superiore all’atteso calcolato su base regionale”.
Conclusioni
In conclusione, riteniamo che questa sia l’ennesima dimostrazione della incapacità nella gestione della vicenda ex Ilva. Un affare arzigogolato che è giunto a rinchiude i diritti primari della persona nella morsa di interessi finanziari. Sfiancare una comunità e farle pagare il prezzo di una cieca gestione, pare l’unica via che chi governa ha deciso debba essere percorsa. La scenografia da teatro dell’assurdo crediamo sia la vera marcia dell’ordinanza sindacale che avremmo preferito non fosse annullata. Siamo consci, allo stesso tempo, che quell’atto non rappresentasse altro che non un’àncora, una estrema protezione da quella che possiamo serenamente definire una gestione malsana, febbricitante ed incongruente del polo siderurgico. In una lungimirante politica legislativa, gli strumenti amministrativi in mano a chi governa il territorio e vive la realtà fattuale in estrema prossimità, dovrebbero abbondare ed essere riconosciuti con la natura di fonti ordinarie, abbandonando quella veste di poteri di deroga, così instabili perché facilmente giustiziabili.
L’ultima questione sulla quale ci preme accendere i riflettori, è l’implementazione del limite di produzione a 6 milioni di tonnellate annue così come è stato previsto dal DPCM 2017. Il passaggio logico successivo la lettura di questo dato ci porta a pensare come questa implementazione di produzione non possa non incidere, potenziandolo, sull’indice di mortalità per esposizione alla polvere sottile PM2,5 a carico, particolarmente, degli abitanti del Quartiere Tamburi.
Concludendo, non possiamo ignorare gli ultimi dati che emergono dallo studio42 condotto dalla rivista scientifica britannica “Nature” datata 10 maggio 2021. Essa
“certifica gli effetti neurotossici sinergici di piombo e arsenico sui bambini di Taranto residenti nei quartieri vicini al polo industriale. […] In questa ricerca trasversale, gli scienziati hanno valutato l’effetto neurocomportamentale dell’esposizione a oligoelementi tra cui piombo, mercurio, cadmio, manganese, arsenico e selenio e le loro interazioni tra 299 scolari residenti nell’area fortemente inquinata di Taranto in Italia. Sangue intero, urina e capelli sono stati raccolti per le analisi dei metalli, mentre la Child Behavior Checklist e la Social Responsiveness Scale, sono state somministrate all’insegnante principale e alle madri: i due testi sono stati considerati per identificare i problemi comportamentali nei bambini. […] Il piombo sanguigno ha influenzato principalmente i problemi sociali, il comportamento aggressivo, l’esternalizzazione e i problemi totali. L’arsenico urinario ha mostrato un impatto su ansia e depressione, problemi somatici, problemi di attenzione e comportamento di violazione delle regole.
È stata osservata una significativa interazione tra piombo e arsenico, con un effetto sinergico dei due metalli che aumenta il rischio di problemi di attenzione, comportamento aggressivo, problemi di esternalizzazione e problemi totali.
Nel complesso, gli studiosi sono stati in grado di testare che il piombo sanguigno più elevato, le concentrazioni di arsenico urinario e la loro interazione aumentano il rischio di problemi neuro-comportamentali”43. Chiudendo, ci chiediamo (ça va sans dire, ironicamente) se la sopravvenuta ricerca scientifica appena menzionata sarebbe meritevole di soddisfare un’istruttoria amministrativa.
Bibliografia
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MISSERINI G., Il carattere residuale dei poteri cautelari in materia ambientale (nota a TAR Liguria, sez. 2, 26 Novembre 2019, n. 901), in Diritto Ambientale – Profili Amministrativi, Civili e Penali – Il caso Taranto, a cura di Laura Di Santo e Gianmichele Pavone, edito da AmbienteDiritto, pag. 92
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STICCHI DAMIANI A., Principi di Diritto Ambientale, in Diritto Ambientale – Profili Amministrativi, Civili e Penali – Il caso Taranto, a cura di Laura Di Santo e Gianmichele Pavone, edito da AmbienteDiritto, pag. 37 e 38
Ordinanza Sindacale n. 15 del 27.02.2020 del Comune di Taranto rinvenibile al sito https://veraleaks.org/wp-content/uploads/2021/02/Ordinanza-Melucci-ArcelorMittal.pdf
Sentenza Corte Costituzionale, 4 gennaio 1977, n. 4
Sentenza Corte Costituzionale, 30 dicembre 1987, n. 641
Sentenza Corte Costituzionale, 14 aprile 1995, n. 127
Sentenza Corte Costituzionale, 26 luglio 2002, n. 407
Sentenza Corte Costituzionale, 9 maggio 2013, n. 85
Sentenza Consiglio di Stato sez. III, del 03 ottobre 2019, n. 6655
Sentenza Consiglio di Stato sez. III, del 19 gennaio 2021, n. 571
Sentenza Consiglio di Stato sez. IV, del 23 giugno 2021, n. 4802
Sentenza TAR Lecce sez. I, del 13 febbraio 2021, n. 249
Tribunale C.E., 26 novembre 2002, cause riunite T-74/00 e altre, Artegodan, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comparato (2004), pag. 632
Ricerca IESIT rinvenibile al sito https://www.sanita.puglia.it/ricerca_det/-/journal_content/56/36136/studi-collaborativi-regiona-1
Ricerca Nature rinvenibile al sito https://www.nature.com/articles/s41598-021-88969-z
Note
1 N. 15 Reg. Ordinanza del 27.02.2020 del Comune di Taranto rinvenibile al sito https://veraleaks.org/wp-content/uploads/2021/02/Ordinanza-Melucci-ArcelorMittal.pdf.
2 Il comma 5 dell’art. 50 T.U.E.L. recita: “In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale”.
3 Il comma 4 dell’art. 54 T.U.E.L. recita: “Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
4 Cit. pag. 6 ordinanza sindacale n. 15 del 27/02/2020.
5 Cit. pag. 6 ordinanza sindacale n. 15 del 27/02/2020.
6 Cit. pag. 3 ordinanza sindacale n. 15 del 27/02/2020.
7 Consiglio di Stato sez. IV, 23 giugno 2021, n. 4802, pag. 14.
8 V. Sent. Corte Cost. n. 641 del 1987.
9 SACCO R., Art. 32 della Costituzione Italiana: diritto alla salute, su Centro studi diritto sanitario, www.dirittosanitario.net.
10 Sent. Corte Cost. n. 407 del 2002.
11 D.Lgs. n. 152 del 2006.
12 STICCHI DAMIANI A., Principi di Diritto Ambientale, in Diritto Ambientale – Profili Amministrativi, Civili e Penali – Il caso Taranto, a cura di Laura Di Santo e Gianmichele Pavone, edito da AmbienteDiritto, pag. 37 e 38.
13 L’art. 1 della Legge n. 241 del 1990 così come modificata dalla Legge n. 15 del 2005 sancisce: “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge […] nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”.
14 Sentenze rinvenibili al sito www.echr.coe.int così come riportate da NAPOLITANO A., L’evoluzione del principio di precauzione nel panorama giuridico nazionale ed europeo, in De Iustitia, n. 1 (2019) pag. 75.
15 Tribunale C.E., 26 novembre 2002, cause riunite T-74/00 e altre, Artegodan, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comparato (2004), pag. 632.
16 MISSERINI G., Il carattere residuale dei poteri cautelari in materia ambientale (nota a TAR Liguria, sez. 2, 26 Novembre 2019, n. 901), in Diritto Ambientale – Profili Amministrativi, Civili e Penali – Il caso Taranto, a cura di Laura Di Santo e Gianmichele Pavone, edito da AmbienteDiritto, pag. 92.
17 STICCHI DAMIANI A., Principi di Diritto Ambientale, in Diritto Ambientale – Profili Amministrativi, Civili e Penali – Il caso Taranto, a cura di Laura Di Santo e Gianmichele Pavone, edito da AmbienteDiritto, pag. 35.
18 V. Sent. Corte Cost. n. 4 del 1977, Sent. Corte Cost. n. 127 del 1995.
19 V. Massime della Sent. Consiglio di Stato sez. IV, 23 giugno 2021, n. 4802.
20 Così come riportati dalla Sent. T.A.R. Lecce sez. I, 13 febbraio 2021, n. 249, pag. 23 e 24.
21 Sent. TAR Lecce sez. I, del 13 febbraio 2021, n. 249, pag. 52.
22 Sent. TAR Lecce sez. I, del 13 febbraio 2021, n. 249, pag. 48.
23 Sent. TAR Lecce sez. I, del 13 febbraio 2021, n. 249, pag. 52.
24 Sent. TAR Lecce sez. I, del 13 febbraio 2021, n. 249, pag. 53.
25 Sent. Consiglio di Stato sez. IV, del 23 giugno 2021, n. 4802, pag. 48.
26 Sent. Consiglio di Stato sez. IV, 23 giugno 2021, n. 4802, pag. 48.
27 Sent. Consiglio di Stato sez. IV, 23 giugno 2021, n. 4802, pag. 45.
28 Sent. Consiglio di Stato sez. IV, 23 giugno 2021, n. 4802, pag. 45.
29 Sent. Consiglio di Stato sez. IV, 23 giugno 2021, n. 4802, pag. 46.
30 Sent. Consiglio di Stato sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655.
31 Sent. Consiglio di Stato sez. IV, 23 giugno 2021, n. 4802, pag. 47.
32 Sent. Consiglio di Stato sez. IV, 23 giugno 2021, n. 4802, pag. 47.
33 Sent. Consiglio di Stato sez. IV, 23 giugno 2021, n. 4802, pag. 44.
34 Sent. Consiglio di Stato sez. III, 19 gennaio 2021, n. 571.
35 Sent. Consiglio di Stato sez. IV, 23 giugno 2021, n. 4802, pag. 44.
36 L’Autorizzazione Integrata Ambientale è prevista dal Titolo III-bis del Codice Ambientale (d.lgs. 152/2006) dagli articoli che vanno dal 29bis al 29quattuordecies). Essa si occupa della “prevenzione e della riduzione integrate dell’inquinamento proveniente dalle attività di cui all’allegato VIII e prevede misure intese a evitare, ove possibile, o a ridurre le emissioni nell’aria, nell’acqua e nel suolo, comprese le misure relative ai rifiuti, per conseguire un livello elevato di protezione dell’ambiente salve le disposizioni sulla valutazione di impatto ambientale”.
37 Dopo il riesame dell’AIA del 2011, avvenuto nel 2012 (in concomitanza della individuazione del sito come “impianto di interesse strategico nazionale”) è intervenuto un nuovo riesame nel 2014 e, da ultime, alcune modifiche sono state apportate nel 2017 (in occasione della cessione della gestione dell’azienda ad Arcelor Mittal) benché confermato il piano inerente le attività legate alla tutela ambientale;
38 Sent. TAR Lecce sez. I, del 13 febbraio 2021, n. 249, pag. 29.
39 Sent. Corte Costituzionale, 9 maggio 2013, n. 85 nella quale si bilanciò il diritto alla salute con l’interesse al mantenimento delle soglie di occupazione, definendo il primo “tiranno”.
40 Sent. TAR Lecce sez. I, 13 febbraio 2021, pag. 43.
41 Rinvenibile al sito: https://www.sanita.puglia.it/ricerca_det/-/journal_content/56/36136/studi-collaborativi-regiona-1.
42 Ricerca rinvenibile al sito: https://www.nature.com/articles/s41598-021-88969-z.
43 CORVINO V., Nature: arsenico e piombo responsabili di ansia e depressione nei bambini di Taranto, 21 giugno 2021, rinvenibile al sito: https://ilsalvagente.it/2021/06/21/125186/.
LE CONSEGUENZE DELLA LESIONE DI DIRITTI FRA INDENNIZZO E RISARCIMENTO NELLO SVOLGIMENTO DI ATTIVITÀ INQUINANTI. Nota a Cass., sez. III, 2 luglio 2021, n. 18810 Gisella Ferrara Con questa decisione, i giudici della […]
Fascicoli Fascicolo n.3/2022 Giurisprudenza Penale
LE CONSEGUENZE DELLA LESIONE DI DIRITTI FRA INDENNIZZO E RISARCIMENTO NELLO SVOLGIMENTO DI ATTIVITÀ INQUINANTI.
Nota a Cass., sez. III, 2 luglio 2021, n. 18810
Gisella Ferrara
Con questa decisione, i giudici della Suprema Corte hanno valutato corretta l’interpretazione effettuata dai giudici di primo e secondo grado. Infatti, con detta pronuncia si è inteso rigettare integralmente il ricorso di Ilva S.p.a. in amministrazione straordinaria avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, n. 45/2018. Quest’ultima, aveva a sua volta confermato la decisione di primo grado che aveva condannato l’Ilva S.p.a. al risarcimento dei danni causati dalla “compressione del diritto di proprietà [inteso come] diritto a godere in modo pieno ed esclusivo di un bene” 1. Così decidendo, venne liquidato un danno in via equitativa nella misura del 20% del valore dei beni all’atto dell’esperimento dell’azione processuale.
La ricorrente lamentava (col terzo motivo di ricorso) la violazione dell’art. 2043 c.c. in relazione al riconoscimento del danno alla proprietà2 in quanto ritenuto risarcibile autonomamente a prescindere dalla sussistenza di un danno patrimoniale o non patrimoniale.
La ricorrente Ilva S.p.a. in amministrazione straordinaria in particolare si doleva perché i giudici di merito avevano “riconosciuto la risarcibilità tout court, ex art. 2043 c.c., di una asserita compromissione del diritto dominicale degli attori a prescindere dalla sussistenza (la quale è stata, anzi, esclusa) sia di danni materiali agli edifici, sia di danni da deprezzamento commerciale, sia di danni alla salute o morali e esistenziali, così finendo, in buona sostanza, per riconoscere la risarcibilità di meri fastidi o disagi non degni di assurgere ad un vero danno patrimoniale o non patrimoniale”3. Pertanto secondo la società Ilva S.p.a. in amministrazione straordinaria la Corte d’Appello avrebbe commesso “una grave violazione dei principi in materia di responsabilità extracontrattuale, in quanto, come costantemente sostenuto dalla giurisprudenza anche di legittimità, ai fini del risarcimento del danno da immissioni intollerabili è necessaria la prova della sussistenza di un effettivo danno alla salute (o quantomeno, di un effettivo danno morale o esistenziale, che deve essere ovviamente specificamente allegato e provato), di un danno materiale o da deprezzamento commerciale”4.
Ma per rafforzare il proprio ragionamento, la società ricorrente sottolineava come di “compressione” o “limitazione” del diritto di proprietà si potesse discorrere solo nel caso di mero indennizzo e non già quando si avanzino pretese risarcitorie.
Secondo la ricorrente, pertanto, i giudici di merito avrebbero potuto valutare la mera compressione o limitazione del diritto di proprietà, esclusivamente nel caso di controversia avente ad oggetto una pretesa indennitaria (e non già risarcitoria). Non troppo velatamente, dunque, Ilva S.p.a. ha tentato, anche in sede di legittimità, di presentare la sua attività come lecita.
Questa deduzione è tuttavia fondata sulla distinzione concettuale fra risarcimento ed indennizzo. Secondo tale concezione, infatti, l’azione risarcitoria è lo strumento primario e pacificamente esperibile in sede di giudizio qualora le immissioni inquinanti siano considerate illecite. Ciò comporta che nel medesimo giudizio sia definita la tipologia di danno extracontrattuale per il quale si chiede risarcimento. Qualora, invero, le immissioni inquinanti per le quali si procede, siano comunque dannose ma pur sempre lecite, coloro i quali vengano raggiunti dalle stesse nel proprio domicilio, potranno ricorrere non già per ottenere il risarcimento pieno ma solo per il c.d. indennizzo. Fuori d’ossimoro, le immissioni dannose ma lecite sono quella figura di immissioni che vengono riconosciute come dannose poiché superanti la soglia della normale tollerabilità benché si tratti di attività autorizzata dall’ordinamento (e quindi resa lecita). La causa giustificatrice di detta categoria di immissioni è dunque l’esercizio di un’attività produttiva autorizzata dall’ordinamento.
Dunque, la ragione del rilievo è che attribuire un “risarcimento” avrebbe invece assunto il significato di riconoscere l’esistenza di un danno ingiusto e dunque altresì riconoscere che esso può determinarsi anche quale conseguenza di un’attività considerata lecita.
La tesi è criticabile.
Che da un danno “ingiusto” (e pertanto risarcibile ex art. 2043 c.c.) possa essere cagionato anche da un’attività lecita e che dunque sia insostenibile la contrapposizione fra indennizzo (conseguente ad attività lecita) e risarcimento (nel presupposto dell’illecito) è peraltro un dato acquisito nella dottrina civilistica5.
Per tanto, alla luce di queste osservazioni della dottrina, non è rilevante che si tratti di attività lecite o illecite ma di attività dannose, cioè di attività che, più specificamente, provocano danni “ingiusti” (in quanto lesivi di interessi giuridicamente tutelati), e tale elemento abilita i destinatari delle immissioni inquinanti alla pretesa risarcitoria.
Si è anche ritenuto che, nell’ambito della “soluzione indennitaria, la legittimazione attiva spetta a tutti i titolari di diritti reali di godimento sul fondo che subisce le immissioni; qualora su di uno stesso fondo coesistono più diritti reali, la legittimazione attiva spetta anche a coloro che sono titolari di una situazione soggettiva di godimento ancorché di natura non proprietaria o reale. Riguardo alla legittimazione passiva, essa è posta in capo all’autore delle immissioni, il quale, dopo essere stato chiamato in giudizio, potrà eccepire il proprio diritto a compiere le immissioni sulla base dei criteri previsti dall’art. 844 c.c.”6.
Invece, secondo la tesi che contrappone indennizzo a risarcimento, il primo avrebbe la finalità di riparare un danno giusto e dunque sensibilmente differirebbe dalla soluzione risarcitoria che invece si riferisce a un danno ingiusto.
Il riferimento all’annosa contrapposizione fra risarcimento ed indennizzo offre lo spunto per fornire piena adesione all’opinione che sostiene che anche qualora si fosse in presenza di un atto lecito, quest’ultimo sia ben in grado di provocare un danno ingiusto ed in quanto tale passibile di essere risarcito. Si può quindi aderire alla più attenta dottrina civilistica che ormai configura una responsabilità da atto lecito e dunque, esprime consenso alla soluzione dei supremi giudici in considerazione della contrapposizione logica (prima ancora che giuridica) con quanto la ricorrente ha voluto prospettare (seppur velatamente) mediante il riferimento al mezzo indennitario (e dunque, sottolineando lo svolgimento di un’attività originaria di per sé astrattamente lecita).
E ciò è sostenibile nonostante le residue resistenze rappresentate dalla tendenza a collegare la “responsabilità risarcitoria al comportamento riprovevole di colui che ha causato il danno.
È di tutta evidenza invece come si possa aderire all’opinione che afferma che proprio sulla base del più recente orientamento in materia di responsabilità civile, si possa affermare “che, in realtà, gli atti leciti dannosi, di cui si discute, costituiscono una categoria generale, suscettibile di interpretazione analogica e la cui disciplina è, pertanto, applicabile alle fattispecie simili, nelle quali, cioè, ad un comportamento autorizzato dalla legge, quest’ultima ricollega conseguenze di natura risarcitoria. Invero, si è detto che spesso la responsabilità sorge indipendentemente dalla colpa del soggetto, per il solo fatto che un evento sia ad esso materialmente imputabile. La legge prevede, altresì, determinati criteri di collegamento che prescindono dalla derivazione materiale dell’evento stesso da colui che è obbligato a corrispondere il risarcimento. In questi casi, cioè, manca una condotta soggettivamente, o anche oggettivamente, imputabile e, tuttavia, è espressamente prevista un’obbligazione risarcitoria. Ciò che rileva, quindi, è la verificazione materiale del danno e del conseguente pregiudizio che viene arrecato”7.
Pertanto, pur nella consapevolezza della tradizionale distinzione fra risarcimento ed indennizzo, con riferimento alla specifica questione giuridica affrontata nella sentenza in commento, è possibile aderire in maniera ancora più convinta, alla posizione dottrinale che ritiene che anche un atto lecito possa causare un danno ingiusto.
In altri termini è proprio riflettendo sulla responsabilità oggettiva, sulla responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa e sulla responsabilità da atti leciti dannosi, che occorre ricercare, in relazione alle singole fattispecie, risposte alla diffusa esigenza di soluzioni adeguate nella gestione di quelle complesse situazioni coinvolgenti diritti anche inviolabili.
In conclusione, riguardo alle doglianze espresse nel terzo motivo, la Cassazione ha schiettamente eliminato ogni dubbio in seno al riconoscimento del danno alla proprietà risarcibile autonomamente, sostenendo che <<l’accertata limitazione delle facoltà di godimento è, infatti, indubitamente esso stesso un danno conseguenza, comportando una grave compromissione dei poteri (e correlativamente delle situazioni di vantaggio) che concretano il contenuto del diritto di proprietà>> e che <<si tratta poi, indubbiamente, di un pregiudizio di natura patrimoniale, in quanto suscettibile di valutazione economica. […] Nella specie [viene in rilievo] proprio la perdita delle oggettive potenzialità di godimento che, in mancanza delle immissioni illecite, gli immobili stessi per loro stessa destinazione sarebbero in grado di offrire>>8.
Note
1 Sent. n. 45 del 2018 Corte d’Appello di Lecce, sez. distaccata di Taranto
2 “Compressione del diritto di proprietà come diritto a godere in modo pieno ed esclusivo di un bene”, cit., Sent. n. 45 del 2018 Corte d’Appello di Lecce
3 Ricorso di Ilva S.p.a. in a.s. così citato dalla Sent. della Cass. 18810/2021, p. 19
4 Ricorso di Ilva S.p.a. in a.s. così citato dalla Sent. della Cass. 18810/2021, p. 19
5 P. Perlingieri, La responsabilità civile tra indennizzo e risarcimento, in Rass. dir. civ., 2004, p. 1065 segg.
6 PICARO R., Il divieto di immissioni tra relazioni economiche e bisogni esistenziali, Napoli, Novene, 2000, p. 359
7 G. GIACOBBE, Gli atti leciti dannosi nella teoria della Responsabilità Civile, in C. Scognamiglio, A. Figone, C. Cossu ,G. Giacobbe, P.G. Monateri, Illecito e Responsabilità Civile, G. Giappichelli Editore, cit. p. 100
8 Sent. della Cass. 18810/2021, p. 22/23.
MINISTERO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA DECRETO 1 giugno 2022 Determinazione dei criteri per la misurazione del rumore emesso dagli impianti eolici e per il contenimento del relativo inquinamento acustico. (22A03580) (GU n.139 del 16-6-2022) […]
Fascicoli Fascicolo n.3/2022 Nazionale Normativa
DECRETO 1 giugno 2022
Determinazione dei criteri per la misurazione del rumore emesso dagli impianti eolici e
per il contenimento del relativo inquinamento
acustico. (22A03580)
(GU n.139 del 16-6-2022)
IL MINISTRO
DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA
di concerto con
IL MINISTRO DELLA SALUTE
e
IL MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE
E DELLA MOBILITA' SOSTENIBILI
Vista la legge 8 luglio 1986, n. 349, che ha istituito il Ministero
dell'ambiente e ne ha definito le funzioni;
Visto il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300;
Visto il decreto-legge 1° marzo 2021, n. 22, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22 aprile 2021, n. 55, recante
«Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni dei
Ministeri» e, in particolare, l'art. 2, che ha istituito il Ministero
della transizione ecologica, affidandogli le funzioni e i compiti
dello Stato in materia di politica energetica gia' spettanti al
Ministero dello sviluppo economico, anche con riferimento all'energia
prodotta da impianti a fonti rinnovabili; Visto il decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri 29 luglio 2021, n. 128
recante «Regolamento di organizzazione del
Ministero della transizione ecologica»;
Vista la legge 26 ottobre 1995, n. 447, recante «Legge quadro
sull'inquinamento acustico» ed, in particolare, l'art. 3, comma 1,
lettera «m-bis)» che pone in capo allo Stato la competenza relativa
alla determinazione, con decreto del Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio e del mare, di concerto con i Ministri dello
sviluppo economico, della salute e delle infrastrutture e dei
trasporti, dei criteri per la misurazione del rumore emesso dagli
impianti eolici e per il contenimento del relativo inquinamento
acustico;
Acquisito il parere positivo del Consiglio del sistema nazionale
per la protezione dell'ambiente ai sensi dell'art. 4, comma 3 e
dell'art. 13, comma 2, della legge 28 giugno 2016, n. 132;
Decreta:
Art. 1
Campo di applicazione
1. Il presente decreto determina i criteri per la misurazione del
rumore e per l'elaborazione dei dati finalizzati alla verifica, anche
in fase previsionale, del rispetto dei valori limite del rumore
prodotto da impianti mini e macro eolici come individuati dal
regolamento di cui all'art. 11, comma 1, della legge 26 ottobre 1995,
n. 447 nonche', nelle more dell'emanazione del regolamento di
esecuzione previsto dall'art. 11, comma 1, della legge citata, i
criteri di contenimento del relativo inquinamento acustico.
2. Per gli impianti micro eolici i criteri di misura, finalizzati
alla verifica del rispetto dei valori limite individuati dal
regolamento di cui all'art. 11, comma 1, della legge 26 ottobre 1995,
n. 447, sono quelli indicate all'Allegato B del decreto ministeriale
16 marzo 1998.
Art. 2
Definizioni
1. Ai fini dell'applicazione del presente decreto si definisce:
a. Impianto eolico: l'insieme di tutti gli aerogeneratori di un
sito eolico, interconnessi tra loro, di proprieta' di uno stesso
soggetto giuridico e oggetto della medesima autorizzazione;
b. Aerogeneratore: dispositivo per la conversione dell'energia
cinetica del vento in energia elettrica; puo' essere ad asse
verticale o orizzontale. Ogni aerogeneratore e' costituito, in
generale, da una torre di sostegno, un rotore (mozzo e pale), il
generatore elettrico, il sistema di controllo e in alcuni casi il
moltiplicatore di giri e/o l'inverter;
c. Distanza ricettore-aerogeneratore: lunghezza del segmento che
congiunge il punto di misura/valutazione (ricettore) e il mozzo
dell'aerogeneratore;
d. Aerogeneratore a vista: aerogeneratore il cui rotore non sia
totalmente schermato da rilievi del terreno lungo la linea retta
ricettore-aerogeneratore tracciata sul corrispondente profilo
altimetrico;
e. Aerogeneratore potenzialmente impattante: aerogeneratore di un
impianto eolico soggetto a valutazione; nel caso di un impianto
eolico con piu' aerogeneratori, aerogeneratore a vista con distanza
ricettore-aerogeneratore inferiore a 1,5 km oppure, qualora
Parte di provvedimento in formato grafico
dove r1 e' la distanza tra il ricettore e l'aerogeneratore piu'
vicino mentre D e' il diametro del rotore;
f. Dati di misura: l'insieme dei valori misurati secondo le
procedure del presente decreto riferiti ad un periodo di dieci
minuti;
g. Dato meteorologico: dato relativo alla velocita' e direzione
del vento al ricettore e agli aerogeneratori, presenza/assenza di
precipitazioni, tipo di precipitazione (pioggia, neve, grandine);
h. Dato utile: dato di misura rimanente dopo l'eliminazione degli
eventi anomali;
i. Evento anomalo: evento sonoro singolarmente identificabile,
non riconducibile al rumore eolico, di natura eccezionale rispetto
alla rumorosita' tipica della zona nel periodo temporale di
esecuzione delle misure/valutazioni (ad esempio: le sirene, gli
allarmi, gli spari, nonche' i rumori antropici, i rumori di animali,
i passaggi di mezzi di trasporto, purche' possano essere ritenuti
assolutamente estranei ai luoghi, vale a dire atipici per l'area in
esame, tenuto conto anche della stagionalita');
j. Intervallo di tempo minimo di misurazione: periodo temporale
di acquisizione dei dati meteo e fonometrici pari a dieci minuti;
k. Ricettore: qualsiasi edificio adibito ad ambiente abitativo
individuato dagli strumenti urbanistici comprese le relative aree
esterne di pertinenza, o ad attivita' lavorativa e ricreativa; aree
territoriali edificabili gia' individuate dagli strumenti urbanistici
e da loro varianti generali, vigenti alla data di entrata in vigore
del regolamento di cui all'art. 11, comma 1, della legge 26 ottobre
1995, n. 447 per gli impianti esistenti, ovvero vigenti al momento
del rilascio del provvedimento autorizzativo per gli impianti nuovi;
l. Ricettore sensibile: edificio adibito a scuola, ospedale, casa
di cura o casa di riposo;
m. Livello di immissione specifico dell'impianto eolico LE :
livello di rumore prodotto dall'impianto eolico in ambiente esterno,
in campo libero o in facciata ad un ricettore, espresso come livello
continuo equivalente di pressione sonora ponderato A nei due periodi
di riferimento, diurno (6,00-22,00) e notturno (22,00 - 6,00),
acquisito e valutato secondo i criteri di misura ed elaborazione
indicati dal presente decreto;
n. Livello di rumore residuo riferito alla sorgente eolica LR :
livello di rumore presente in ambiente esterno in assenza della
specifica sorgente impianto eolico ed espresso come livello continuo
equivalente di pressione sonora ponderato A nei due periodi di
riferimento diurno (6,00-22,00) e notturno (22,00 - 6,00), acquisito
e valutato secondo le tecniche di misura ed elaborazione indicate dal
presente decreto;
o. Livello di rumore ambientale LA : livello di rumore costituito
dall'insieme del rumore residuo e da quello prodotto dall'impianto
eolico nel punto di valutazione; e' espresso come livello continuo
equivalente di pressione sonora ponderato A nei due periodi di
riferimento diurno (6,00-22,00) e notturno (22,00 - 6,00) ed
acquisito secondo le tecniche di misura ed elaborazione indicate dal
presente decreto;
p. Velocita' media del vento al ricettore (Vr ): valore medio
della velocita' del vento misurata con apposito anemometro montato in
prossimita' del ricettore con le modalita' descritte nel presente
decreto;
q. Velocita' media del vento al mozzo (V): valore medio della
velocita' del vento misurata al mozzo per ogni aerogeneratore
potenzialmente impattante;
r. Direzione prevalente del vento al mozzo (Θ°): moda (valore in
gradi sessadecimali) della direzione del vento al mozzo per ogni
aerogeneratore potenzialmente impattante;
s. Condizioni di vento piu' gravose: condizioni di vento che
favoriscono la propagazione del rumore dall'aerogeneratore al
ricettore (condizione sottovento); in particolare, si devono
intendere tali tutte le condizioni in cui gli aerogeneratori sono
attivi a regimi massimi e la direzione del vento al mozzo e' compresa
entro un angolo di ± 45° rispetto alla proiezione al suolo della
congiungente aerogeneratore-ricettore;
t. Referente di impianto: soggetto indicato dal gestore a cui
l'autorita' di controllo puo' richiedere i dati di impianto necessari
all'elaborazione delle misure e lo spegnimento degli aerogeneratori
potenzialmente impattanti per la durata delle misurazioni finalizzate
alla valutazione del livello residuo.
Art. 3
Generalita'
1. I criteri di misura tengono conto della peculiarita' della
sorgente indagata che richiede tempi di misura sufficientemente
lunghi, viste le sue caratteristiche di variabilita' nel tempo al
variare delle condizioni meteorologiche. In particolare, i criteri
richiedono l'esecuzione simultanea di rilevamenti in continuo dei
livelli di rumore e dei parametri meteorologici, per tutto il tempo
di misura.
2. Le rilevazioni devono permettere di valutare i vari livelli
sonori al ricettore nelle condizioni di vento piu' gravose.
3. Precedentemente alla campagna di misura, deve essere
effettuata/acquisita (anche con il supporto del gestore
dell'impianto) la caratterizzazione anemologica del sito, attraverso
lo studio della rosa dei venti e delle distribuzioni di Weibull della
velocita' del vento al mozzo, al fine di determinare, per quanto
possibile, i periodi piu' opportuni per eseguire le misurazioni.
Art. 4
Criteri e modalita' di misura del rumore eolico
1. La procedura per l'esecuzione delle misure e per la
determinazione dei livelli di rumore e' riportata negli allegati al
presente decreto. Negli allegati sono specificati:
a) le caratteristiche della strumentazione di misura;
b) i parametri da acquisire con la strumentazione;
c) i dati da richiedere al gestore dell'impianto eolico;
d) le postazioni di misura;
e) i tempi di misura;
f) le condizioni di misura;
g) la valutazione dei dati;
h) l'elaborazione dei dati per la valutazione dei livelli da
confrontare con i limiti.
2. L'Allegato 1 «Norme tecniche per l'esecuzione delle misure»,
l'Allegato 2 «Procedura che prevede lo spegnimento degli
aerogeneratori potenzialmente impattanti» e l'Allegato 3 «Procedura
che non prevede lo spegnimento degli aerogeneratori potenzialmente
impattanti» sono parte integrante del presente decreto.
3. Le integrazioni e le modifiche agli allegati di cui al comma 2,
sono apportate con decreto del Ministro della transizione ecologica,
di concerto con il Ministro della salute e il Ministro delle
infrastrutture e della mobilita' sostenibili.
Art. 5
Criteri di contenimento del rumore eolico
1. Nelle more dell'emanazione del regolamento di esecuzione
previsto dall'art. 11, comma 1, della legge 26 ottobre 1995, n. 447,
per la disciplina dell'inquinamento acustico avente origine dagli
impianti eolici attuata attraverso la definizione di specifici valori
limite di immissione e di adeguate modalita' di mitigazione acustica,
con la previsione della delimitazione di fasce di pertinenza
acustiche, si applicano i seguenti criteri generali:
a) ai sensi dell'art. 2, comma 1, lettera c), della legge 26
ottobre 1995, n. 447, gli impianti eolici sono classificati quali
sorgenti fisse di rumore e, pertanto, soggetti al rispetto dei limiti
determinati dai comuni con la classificazione in zone del proprio
territorio sulla base del decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri 14 novembre 1997;
b) agli impianti eolici si applica il disposto di cui all'art. 4
del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 14 novembre
1997, recante valori limite differenziali di immissione. In deroga
alla richiamata disposizione, nel caso del rumore eolico le
valutazioni vengono eseguite unicamente in facciata agli edifici e,
pertanto, non trovano applicazione al verificarsi della sola
condizione contenuta nella lettera a) del comma 2 dello stesso;
c) i valori misurati con i criteri di cui all'art. 4 da
utilizzarsi per le verifiche del rispetto dei valori limite di cui
alle lettere a) e b) sono quelli connessi alle condizioni di massima
rumorosita' dell'impianto;
d) nel caso di superamenti dei valori limite di cui alle lettere
a) e b), gli interventi finalizzati all'attivita' di risanamento
acustico per il rispetto degli stessi valori limite devono essere
effettuati secondo la seguente scala di priorita':
1. interventi sulla sorgente rumorosa;
2. interventi lungo la via di propagazione del rumore dalla
sorgente al ricettore;
3. interventi diretti al ricettore;
e) gli interventi diretti al ricettore di cui alla lettera d),
punto 3 sono adottati qualora mediante le altre tipologie di
intervento non sia tecnicamente conseguibile il raggiungimento dei
valori limite di cui alle lettere a) e b), oppure qualora lo
impongano valutazioni tecniche, economiche o di carattere ambientale;
f) a seguito dell'accertamento da parte degli organi di controllo
individuati dall'art. 14 della legge 26 ottobre 1995, n. 447 del
superamento dei valori limite di cui alle lettere a) e b), il gestore
dell'impianto pone in essere le azioni di competenza previste della
stessa legge.
2. Il regolamento di esecuzione previsto dall'art. 11, comma 1,
della legge 26 ottobre 1995, n. 447, terra' conto anche delle
indicazioni contenute nelle linee guida sul rumore ambientale
(Environmental Noise Guidelines for the European Region)
dell'Organizzazione mondiale della sanita' del 2018 e successive
integrazioni e modifiche.
Il presente decreto sara' pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica italiana.
Roma, 1° giugno 2022
Il Ministro della transizione ecologica
Cingolani
Il Ministro della salute
Speranza
Il Ministro delle infrastrutture
e della mobilita' sostenibili
Giovannini
Allegato 1
Norme tecniche per l'esecuzione delle misure
Parte di provvedimento in formato grafico
Allegato 2
Procedura che prevede lo spegnimento degli aerogeneratori
potenzialmente impattanti
Parte di provvedimento in formato grafico
Allegato 3
Procedura che non prevede lo spegnimento degli aerogeneratori
potenzialmente impattanti
Parte di provvedimento in formato grafico
CORTE COSTITUZIONALE 27 aprile – 14 giugno 2022 SENTENZA N. 146 Giudizio di legittimita’ costituzionale in via incidentale. Processo penale – Dibattimento – Contestazione suppletiva di un reato connesso – Facolta’ dell’imputato di richiedere la […]
Costituzionale Fascicoli Fascicolo n.3/2022 GiurisprudenzaCORTE COSTITUZIONALE 27 aprile – 14 giugno 2022 SENTENZA N. 146
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Processo penale - Dibattimento - Contestazione suppletiva di un reato connesso - Facolta' dell'imputato di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova - Omessa previsione - Disparita' di trattamento e lesione del diritto di difesa - Illegittimita' costituzionale in parte qua. - Codice di procedura penale, art. 517. - Costituzione, artt. 3 e 24.
(GU n.24 del 15-6-2022 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente:Giuliano AMATO; Giudici :Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 517 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Palermo nel procedimento penale a carico di D. L.P. con ordinanza del 25 marzo 2021, iscritta al n. 85 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell'anno 2021. Udito nella camera di consiglio del 27 aprile 2022 il Giudice relatore Francesco Vigano'; deliberato nella camera di consiglio del 27 aprile 2022. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 25 marzo 2021, il Tribunale ordinario di Palermo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facolta' dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova, relativamente al reato concorrente oggetto di nuova contestazione. 1.1.- Il giudizio a quo e' stato instaurato mediante decreto di citazione diretta a giudizio nei confronti di D. L.P., chiamata a rispondere del reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera b), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)». Successivamente all'apertura del dibattimento e a seguito dell'escussione di un testimone della lista del pubblico ministero, quest'ultimo ha proceduto, ai sensi dell'art. 517 cod. proc. pen., alla contestazione di ulteriori reati - connessi al primo ai sensi dell'art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. - di cui agli artt. 71 e 95 del d.P.R. n. 380 del 2001, per la violazione, rispettivamente, degli artt. 64, 65 e 93 del medesimo d.P.R., avvinti dal nesso della continuazione ex art. 81, secondo comma, del codice penale. A seguito della nuova contestazione, il difensore dell'imputata, munito di procura speciale, ha presentato istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova, rispetto alla quale e' stato acquisito un programma di trattamento da parte dell'ufficio di esecuzione penale esterna. 1.2.- Chiamato a decidere su tale istanza, il rimettente osserva che l'art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen. prevede che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova puo' essere formulata solo fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, cosi' escludendo implicitamente che la relativa istanza possa essere avanzata a seguito di una nuova contestazione ai sensi dell'art. 517 cod. proc. pen. Dal che la rilevanza della questione. 1.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva anzitutto che i rapporti tra le nuove contestazioni dibattimentali e il recupero da parte dell'imputato della facolta' di chiedere l'applicazione di riti alternativi sono stati interessati da plurimi interventi di questa Corte, caratterizzati da una tendenziale e graduale apertura verso l'esercizio di prerogative che risulterebbero altrimenti precluse. I prospettati dubbi di legittimita' costituzionale assumerebbero consistenza se vagliati alla luce del «progressivo percorso di riallineamento costituzionale» della disciplina codicistica, i cui snodi essenziali vengono analiticamente ripercorsi dal rimettente, che evidenzia in particolare il passaggio da un atteggiamento di iniziale chiusura (sono citate le sentenze n. 129 del 1993, n. 316 del 1992, n. 277 e n. 593 del 1990, nonche' l'ordinanza n. 213 del 1992), al riconoscimento della possibilita' di un recupero dei riti alternativi nel caso di contestazioni dibattimentali cosiddette "patologiche" (sono citate le sentenze n. 139 del 2015, n. 184 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 265 del 1994), e infine all'estensione di tale recupero anche nelle ipotesi di nuove contestazioni cosiddette "fisiologiche" (sono citate le sentenze n. 141 del 2018, n. 206 del 2017, n. 273 del 2014, n. 237 del 2012 e n. 530 del 1995). Ad avviso del rimettente, posto che la richiesta di accesso ai riti alternativi costituisce una delle modalita' piu' qualificanti di esercizio del diritto di difesa (sono citate le sentenze di questa Corte n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993), si creerebbe una ingiustificata disparita' di trattamento se, al ricorrere di situazioni processuali analoghe, la facolta' di chiederli fosse diversamente disciplinata; ne' tantomeno si spiegherebbe la previsione dell'avviso rivolto all'imputato, nei vari atti con i quali si dispone il giudizio in mancanza di udienza preliminare, circa la facolta' di accedere ai riti alternativi, la cui omissione e' sanzionata con la nullita'. Tale previsione verrebbe «sostanzialmente elusa, nelle ipotesi in cui i contorni dell'accusa - oggetto e termine di riferimento delle "scelte" difensive dell'imputato - subiscano in dibattimento ("fisiologicamente" o meno) un significativo e qualificato mutamento contenutistico, senza offrire una possibilita' di "rinnovare" quelle scelte in rapporto alla "novazione" della accusa». Assume, quindi, il rimettente che la facolta' di richiedere riti alternativi «si salda a doppio filo al diritto di difesa - in particolare, al diritto di scegliere il modello processuale piu' congeniale all'esercizio di quel diritto -» e che, di riflesso, risulterebbe di dubbia coerenza qualsiasi preclusione che ne limiti l'esercizio concreto, allorquando il sistema consenta una mutatio libelli in sede dibattimentale. Conclusivamente, il rimettente asserisce che le argomentazioni svolte da questa Corte nella sentenza n. 141 del 2018 risulterebbero perfettamente pertinenti e sovrapponibili alla fattispecie al suo esame, da cui origina l'odierna questione di legittimita' costituzionale, della richiesta da parte dell'imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova con riferimento ai reati concorrenti oggetto di nuova contestazione. 2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non e' intervenuto in giudizio, ne' si e' costituita l'imputata nel giudizio a quo. Considerato in diritto 1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Palermo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facolta' dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova, relativamente al reato concorrente oggetto di nuova contestazione. 1.1.- La disposizione censurata consente al pubblico ministero di procedere, durante il dibattimento, a contestazioni suppletive che possono consistere nell'aggiunta di un'aggravante, ovvero - come nel caso verificatosi nel giudizio a quo - nell'addebito di uno o piu' reati connessi a quello originariamente indicato nell'imputazione ai sensi dell'art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., e cioe' commessi con la medesima azione od omissione, ovvero con condotte diverse, ma in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Nel momento della nuova contestazione dibattimentale, il termine per avanzare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova di cui all'art. 168-bis del codice penale e' sempre gia' spirato. Tale istanza, infatti, deve essere di regola formulata prima dell'apertura del dibattimento di primo grado (art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen.). Secondo il rimettente, tuttavia, precludere l'accesso alla messa alla prova a seguito della contestazione suppletiva di reati connessi violerebbe: - l'art. 24 Cost., in quanto la richiesta di riti alternativi, tra cui va annoverata anche la sospensione del procedimento con messa alla prova, costituirebbe una tra le piu' qualificanti modalita' con le quali si esplica l'esercizio del diritto di difesa; - e l'art 3 Cost., perche' l'imputato verrebbe irragionevolmente discriminato, ai fini dell'accesso ai procedimenti speciali, in conseguenza della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione circa le risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero, e perche' sarebbe irragionevole non equiparare questa ipotesi a quelle nelle quali oggi risulta possibile - a seguito di numerose pronunce di questa Corte - accedere a riti alternativi, compresa la messa alla prova, a seguito di nuove contestazioni ai sensi degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. 2.- Le questioni sono fondate. 2.1.- Una fitta serie di pronunce di questa Corte ha adeguato il principio di fluidita' dell'imputazione, che costituisce un dato caratterizzante del nostro sistema processuale anche in sede dibattimentale, al diritto di difesa presidiato dall'art. 24 Cost. quale «principio supremo» dell'ordinamento costituzionale» (sentenze n. 18 del 2022, n. 238 del 2014, n. 232 del 1989 e n. 18 del 1982). In particolare, tali pronunce hanno dichiarato l'illegittimita' costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. nella parte in cui non consentono all'imputato l'accesso a riti alternativi nell'ipotesi di nuove contestazioni, progressivamente superando - come ben sottolinea il rimettente - l'originaria distinzione tra nuove contestazioni dibattimentali cosiddette "patologiche" e nuove contestazioni "fisiologiche" (sul punto, si veda in particolare la ricapitolazione svolta dalla sentenza n. 141 del 2018). Cio' in omaggio a una duplice esigenza: salvaguardare la pienezza del diritto di difesa dell'imputato, che comprende il diritto di optare per il rito alternativo alle condizioni stabilite dal legislatore, ed evitare l'irragionevole disparita' di trattamento tra l'imputato che abbia potuto confrontarsi con una imputazione completa prima dell'inizio del dibattimento e quello rispetto al quale l'imputazione sia stata precisata o integrata soltanto nel corso del dibattimento, quando il termine per la scelta del rito alternativo e' ormai scaduto. La scelta del rito deve, in effetti, poter essere effettuata dall'imputato - assistito dal proprio difensore - con piena consapevolezza delle possibili conseguenze sul piano sanzionatorio connesse all'uno o all'altro rito, in relazione ai reati contestati dal pubblico ministero; sicche', di fronte a un mutamento dell'imputazione, ragioni di tutela del suo diritto di difesa e del principio di eguaglianza impongono che sia sempre consentito all'imputato rivalutare la propria scelta alla luce delle nuove contestazioni. Cosi', il patteggiamento puo' oggi essere richiesto a fronte della nuova contestazione di un fatto diverso ex art. 516 cod. proc. pen. (sentenze n. 265 del 1994 e n. 206 del 2017), di una circostanza aggravante ex art. 517 cod. proc pen. (sentenza n. 184 del 2014) o di reati connessi ex art. 517 cod. proc pen. (sentenze n. 265 del 1994 e n. 82 del 2019); e il giudizio abbreviato puo' essere richiesto a fronte della nuova contestazione di un fatto diverso ex art. 516 cod. proc. pen. (sentenze n. 333 del 2009 e n. 273 del 2014), di una circostanza aggravante ex art. 517 cod. proc pen. (sentenza n. 139 del 2015) o di reati connessi ex art. 517 cod. proc pen. (sentenza n. 333 del 2009). Quanto alla sospensione del procedimento con messa alla prova, che viene in considerazione nel giudizio a quo, essa puo' essere richiesta a fronte della nuova contestazione di un fatto diverso ex art. 516 cod. proc. pen. (sentenza n. 14 del 2020) e di una circostanza aggravante ex art. 517 cod. proc pen. (sentenza n. 141 del 2018). Nulla ha ancora la Corte deciso in relazione alla nuova contestazione in dibattimento di reati connessi ex art. 517 cod. proc pen.; e proprio di quest'ultima superstite preclusione si duole il rimettente. 2.2.- I principi espressi nelle pronunce menzionate impongono che anche tale residua preclusione sia rimossa, con conseguente restituzione dell'imputato nel diritto di esercitare le proprie scelte difensive - ivi compresa la richiesta di messa alla prova - anche nell'ipotesi oggetto delle odierne censure. Invero, come ha osservato questa Corte nella sentenza n. 82 del 2019, «[f]atto diverso e reato connesso, entrambi emersi per la prima volta in dibattimento, integrano [...] evenienze processuali che, sul versante dell'accesso ai riti alternativi, non possono non rappresentare situazioni fra loro del tutto analoghe». Pertanto, anche rispetto all'ipotesi di nuove contestazioni di reati connessi ex art. 517 cod. proc. pen., dovra' riconoscersi all'imputato la facolta' di chiedere la messa alla prova, che la sentenza n. 14 del 2020 ha gia' esteso all'ipotesi di contestazione di un fatto diverso. 2.3.- Non osta a tale conclusione la circostanza che la messa alla prova verrebbe in questo caso - a differenza delle ipotesi oggetto delle sentenze n. 141 del 2018 e n. 14 del 2020 - ad essere concessa non in relazione a un unico reato, bensi' a piu' reati in concorso fra loro. La previsione di cui all'art. 168-bis, quarto comma, cod. pen. - secondo cui la sospensione del procedimento «non puo' essere concessa piu' di una volta» - non esclude infatti la concedibilita' della messa alla prova ogniqualvolta venga contestato piu' di un reato, quando - come nella fattispecie del giudizio a quo - per ciascuno dei reati in concorso sia astrattamente applicabile l'istituto della messa alla prova (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 12 marzo 2015, n. 14112). 2.4.- Le peculiarita' della sospensione del procedimento con messa alla prova imporranno piuttosto all'imputato, in tal caso, di scegliere se chiedere di essere sottoposto alla messa alla prova, ovvero se proseguire il processo nelle forme ordinarie, rispetto a tutti i reati contestati, compresi quelli oggetto dell'imputazione originaria. La ratio dell'istituto impone, in effetti, di distinguere la situazione all'esame da quella relativa al recupero del rito abbreviato, decisa dalla sentenza n. 237 del 2012, in cui questa Corte aveva ritenuto che la richiesta del rito dovesse in tal caso riferirsi ai soli reati oggetto di nuove contestazioni dibattimentali, senza che «l'imputato possa recuperare, a dibattimento inoltrato, gli effetti premiali del rito alternativo anche in rapporto all'intera platea delle imputazioni originarie, rispetto alle quali ha consapevolmente lasciato spirare il termine utile per la richiesta». Diversamente da quanto accade nel rito abbreviato, nella messa alla prova convivono un'anima processuale e una sostanziale. Da un lato, l'istituto e' uno strumento di definizione alternativa del procedimento, che si inquadra a buon diritto tra i riti alternativi (sentenze n. 14 del 2020, n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015); al contempo, esso disegna un percorso rieducativo e riparativo, alternativo al processo e alla pena, ma con innegabili connotazioni sanzionatorie (sentenza n. 68 del 2019), che conduce, in caso di esito positivo, all'estinzione del reato. Proprio tale accentuata vocazione risocializzante, come ha giustamente evidenziato la giurisprudenza di legittimita', si oppone alla possibilita' di una messa alla prova "parziale", ossia relativa ad alcuni soltanto dei reati contestati (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 12 aprile 2021, n. 24707; Corte di cassazione, sentenza n. 14112 del 2015). Piuttosto, l'imputato dovra' essere rimesso in condizione di optare per la messa alla prova anche con riferimento alle imputazioni originarie, intraprendendo cosi' quel percorso al quale avrebbe potuto orientarsi sin dall'inizio, ove si fosse confrontato con la totalita' dei fatti via via contestatigli dal pubblico ministero. Una tale scelta dell'imputato non esclude d'altronde che l'istituto conservi la propria fisiologica funzione deflattiva anche in questa ipotesi, determinando comunque l'interruzione del processo e l'estinzione del reato nel caso di esito positivo della messa alla prova. Il che consente sia di evitare lo svolgimento di ulteriore attivita' istruttoria, sia di eliminare ogni altro contenzioso legato all'impugnazione della sentenza di primo grado. 2.5.- L'art. 517 cod. proc. pen. va dunque dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede, in seguito alla contestazione di reati connessi a norma dell'art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., la facolta' dell'imputato di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, con riferimento a tutti i reati contestatigli.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede, in seguito alla contestazione di reati connessi a norma dell'art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., la facolta' dell'imputato di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, con riferimento a tutti i reati contestatigli. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 aprile 2022. F.to: Giuliano AMATO, Presidente Francesco VIGANO', Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 14 giugno 2022. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA
LA PROPOSTA DI UNA PROCURA NAZIONALE DEL LAVORO E IL POSSIBILE RUOLO DELLA MEDICINA LEGALE “INFORTUNISTICA” DELL’ISTITUTO NAZIONALE ASSICURAZIONE INFORTUNI SUL LAVORO. Patrizio Rossi, Lucia Broccoli Sovrintendenza sanitaria centrale – Inail Abstract [ITA]: Secondo […]
Diritto del Lavoro Dottrina Fascicoli Fascicolo n.3/2022 NotizieLA PROPOSTA DI UNA PROCURA NAZIONALE DEL LAVORO E IL POSSIBILE RUOLO DELLA MEDICINA LEGALE “INFORTUNISTICA” DELL’ISTITUTO NAZIONALE ASSICURAZIONE INFORTUNI SUL LAVORO.
Patrizio Rossi, Lucia Broccoli
Sovrintendenza sanitaria centrale – Inail
Abstract [ITA]: Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) ogni giorno 6.300 persone muoiono a causa di incidenti sul lavoro o malattie professionali, causando più di 2,2 milioni di morti all’anno. In Italia, i dati Inail indicano che le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Istituto nel 2020 sono state 1.538, in aumento di 333 casi rispetto ai 1.205 registrati nel 2019 (+27,6%). I dati europei e nazionali esposti testimoniano la contenuta efficacia degli interventi prevenzionali e normativi fino ad oggi attuati. Questa evidenza, unitamente alla considerazione in virtù della quale una modalità organizzativa che ha prodotto notevoli risultati consiste nella “distribuzione dei magistrati in pool specialistici, che assicurano le necessarie sinergie, l’uniformità dell’intervento nonché la possibilità di destinare risorse umane adeguate all’attività investigativa”, hanno portato alla presentazione di un disegno di legge (ddl n. 2052 Senato). Esso si propone una modifica delle vigenti disposizioni per la trattazione dei reati in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Gli Autori esaminano dli aspetti di interesse medico-legale della proposta di legge, proponendo una riflessione circa il possibile ruolo della medicina legale “infortunistica” Inail nel contribuire efficacemente all’operatività di questo unico organismo giudiziario nazionale e nel disseminare la “cultura della prevenzione”.
Abstract [ENG]: According to data provided by the International Labor Organization (ILO), 6,300 people die every day due accidents at work or occupational diseases, causing more than 2.2 million deaths a year. In Italy, INAIL data indicates that report for workplace accidents with fatal outcome presented to the Institute in 2020 has been 1,538, with an increase of 333 cases compared to the 1,205 recorded in 2019 (+ 27.6%). The European and national published data testify the limited effectiveness of the preventive and regulatory measures implemented since today. This evidence, combined with the consideration that an organizational method that has produced significant results consists in the “distribution of judges in specialist pools, which ensure the necessary synergies, uniformity of the intervention as well as the possibility of allocating adequate human resources to investigative activities ”, led to the presentation of a bill (legislative decree n. 2052 Senate). It is proposed as modification of the current provisions for the treatment of crimes relating to health and safety in the workplace. The authors examine the forensic medicine aspects of interest in the proposed law, proposing a discussion on the possible role of Inail “accident” forensic medicine to effectively contribute to the functioning of this single national legal body and spread the “culture of prevention”.
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le tutele giuridiche e normative vigenti per la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. – 3. Il ruolo Inail nel “sistema” della prevenzione. – 4. Il disegno di legge S. 2052 “Disposizioni in materia di coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati in materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro”. – 5. Il ruolo della medicina legale infortunistica Inail presso la prospettata Procura nazionale del Lavoro. – 6. Conclusioni.
Premessa
La crescita economica e industriale europea iniziata dal secondo dopoguerra, sebbene accompagnata da una coerente implementazione di progetti di prevenzione nel settore della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro non ha colmato lo spazio parallelo derivante dalle crescenti esigenze di salute e sicurezza. L’incremento di denunce del numero di infortuni e malattie professionali ha raggiunto un livello eticamente inaccettabile e, inoltre, incompatibile con gli elevati livelli di benessere e qualità della vita dei cittadini dell’Unione europea. Il numero delle morti sul lavoro – che non va confinato ai soli decessi per infortunio – continua ad essere significativo, con pesanti ricadute di carattere sociale, sanitario, economico e produttivo.
Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro1 (ILO) ogni giorno 6.300 persone muoiono a causa di incidenti sul lavoro o malattie professionali — causando più di 2,3 milioni di morti all’anno. In Italia, i dati Inail2 indicano che le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Istituto nel 2020 sono state 1.538, in aumento di 333 casi rispetto ai 1.205 registrati nel 2019 (+27,6%). La più recente pubblicazione Inail3, benché con dati non stabilizzati, evidenzia che le denunce presentate all’Istituto nel 2021 sono state complessivamente 1.221. Tuttavia, questa deflessione degli infortuni mortali rispetto all’anno precedente è solo apparente; infatti, se si contano gli infortuni al netto delle denunce per Covid-19, si rileva – per i casi mortali – addirittura una crescita (+22%).
I dati europei e nazionali testimoniano, quindi, la contenuta efficacia degli interventi prevenzionali e normativi fino ad oggi attuati; questa evidenza, unitamente alla considerazione in virtù della quale una modalità organizzativa che ha prodotto notevoli risultati consiste nella “distribuzione dei magistrati in pool specialistici, che assicurano le necessarie sinergie, l’uniformità dell’intervento nonché la possibilità di destinare risorse umane adeguate all’attività investigativa”, ha portato alla presentazione di un disegno di legge (ddl n. 2052 Senato). Esso si propone una modifica delle vigenti disposizioni per la trattazione dei reati in materia di salute e sicurezza sul lavoro nonché l’Istituzione di una Procura nazionale in materia di Lavoro. disamina della citata proposta di legge sono derivate le seguenti riflessioni sul possibile ruolo della medicina legale “infortunistica” Inail, che può contribuire efficacemente all’operatività di questo unico organismo giudiziario nazionale e a disseminare la “cultura della prevenzione”.
Le tutele giuridiche e normative vigenti per la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro
Nel nostro ordinamento la tutela contro gli infortuni sul lavoro si fonda su una serie di disposizioni costituzionali:
la tutela della salute, anche nei luoghi di lavoro (art. 324),
la tutela del lavoro (artt. 355, 36, 37),
la tutela del lavoratore in caso di infortunio o malattia (art. 386),
Inoltre, nella Carta costituzionale è sancito che l’iniziativa economica privata non deve arrecare, nel corso del suo svolgimento, danni alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana (art. 417) e che deve essere sottoposta a controlli che ne verifichino il corretto svolgimento.
I principi costituzionali sono stati recepiti e declinati in documenti di intesa, linee programmatiche e accordi tra l’establishment politico e le parti, nonché nelle normative in tema di sicurezza sul lavoro.
Il 31 maggio 2006 l’Organizzazione internazionale del Lavoro, di cui l’Italia è membro, ha ratificato la Convenzione quadro per la sicurezza e la salute sul lavoro8 con l’intento di incoraggiare i Governi a sviluppare strategie nazionali per promuovere la creazione di ambienti di lavoro più salubri e sicuri e ricordando che “i decessi riconducibili al lavoro hanno un effetto negativo sulla produttività e sullo sviluppo economico e sociale”. Gli elementi chiave di un sistema di salute e sicurezza sul lavoro9 (SSL), identificati dall’ILO, sono suddivisi in sei aree principali: “politiche e quadri normativi nazionali in materia di SSL; sistemi istituzionali nazionali in materia di SSL; servizi di salute sul lavoro; servizi di informazione, consulenza e formazione in materia di SSL; raccolta dati e ricerca sulla SSL; e meccanismi di rafforzamento dei sistemi di gestione della SSL a livello aziendale per prevenire ed affrontare i rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro”. Nel 2007, in occasione della giornata mondiale per la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro, l’ILO ha pubblicato un rapporto10 in cui è stato rimarcato lo stretto legame tra lavoro “dignitoso” e salute e sicurezza sul lavoro.
Un’accelerazione significativa nella gestione delle problematiche attinenti alla salute e sicurezza sul lavoro è avvenuta nell’agosto 2007, con la sottoscrizione del “Patto per la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” da parte di Governo, Regioni e Province autonome, promulgato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 7.1.200811. Nel “Patto” sono stati definiti gli strumenti strategici e le priorità di intervento per il miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Oltre alla predisposizione di azioni di prevenzione, omogenee a livello nazionale, tra cui la realizzazione di programmi di informazione per promuovere la cultura della sicurezza, è stata posta particolare attenzione alla ridefinizione dei ruoli e dei compiti del SSN e delle altre istituzioni coinvolte nel sistema della prevenzione, allo scopo di operare in una logica di “sistema”, all’interno del quale individuare le priorità di intervento, assicurando il reale coinvolgimento di tutti gli attori del sistema stesso. Inoltre, è stata decisa la riorganizzazione e armonizzazione delle normative vigenti in un unico corpus normativo, ovvero il nuovo “Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro” – promulgato nell’aprile del 200812 e integrato nel 200913– quale “strumento di indirizzo funzionale ad un disegno omogeneo del sistema della prevenzione e di quanto si muove al suo interno”.
Più recentemente, l’ILO ha richiamato ulteriormente l’attenzione sulla necessità che i Paesi membri si impegnino nella creazione e/o intensificazione di sistemi nazionali resilienti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fondamentali per far fronte a situazioni di crisi, come la pandemia di COVID-1914, che si verificano senza preavviso e creano nuovi rischi per la forza lavoro, aggravando al contempo quelli già esistenti.
Il ruolo Inail nel “sistema” della prevenzione
Per garantire il miglioramento delle condizioni di salute nei luoghi di lavoro è fondamentale che vengano attuate adeguate attività di prevenzione. Gli obiettivi generali di prevenzione vengono stabiliti dal Piano nazionale della prevenzione (PNP), definito dal Ministero della Salute con l’accordo delle Regioni e delle Province autonome; nel piano vengono anche specificati gli ambiti prioritari di intervento e programmate tutte le attività da attuare a livello locale da parte delle ASL, attraverso i piani regionali di prevenzione che individuano i settori a maggior rischio e declinano gli specifici interventi a favore della salute dei lavoratori. L’attuale PNP 2020-2025, adottato il 6 agosto 2020 con intesa in Conferenza Stato-Regioni15, rafforza una visione che considera la salute come risultato di uno sviluppo armonico e sostenibile dell’essere umano, della natura e dell’ambiente, secondo l’approccio “One Health”. Pertanto, riconoscendo che la salute delle persone, degli animali e degli ecosistemi sono interconnesse, promuove l’applicazione di un approccio multidisciplinare, intersettoriale e coordinato per affrontare i rischi potenziali o già esistenti che hanno origine dall’interfaccia tra ambiente-animali-ecosistemi, volgendo lo sguardo verso la versione più evoluta e globalizzata – come la pandemia Covid-19 ha insegnato – della Planetary Healt.
All’interno del PNP 2020-2025 viene altresì consolidata l’attenzione alla centralità della persona, tenendo conto che questa si esprime anche attraverso le azioni finalizzate a migliorare l’Health Literacy (alfabetizzazione sanitaria) e ad accrescere la capacità degli individui di interagire con il sistema sanitario (engagement), attraverso relazioni basate sulla fiducia, la consapevolezza e l’agire responsabile. Il PNP si articola in sei macro-obiettivi, tra i quali è enunciato quello di interesse nel presente contributo, relativo a “Infortuni e incidenti sul lavoro, malattie professionali”, orientato all’attuazione di efficaci politiche di prevenzione. Per raggiungere gli scopi del macro-obiettivo suindicato viene promosso il ricorso ad efficaci modelli di intervento, suggeriti dal Global Plan of action – WHO, piano che richiama la necessità di affrontare tutti gli aspetti della salute dei lavoratori attraverso l’Healthy Workplace Model. Tale approccio riprende le indicazioni già enunciate dal National Institute for Occupational Safety and Health (NIOSH) che, fin dal giugno 2011 ha lanciato il programma Total Worker Healt (TWH), finalizzato al raggiungimento del “benessere del lavoratore”, fondato su un lavoro sicuro, sano e gratificante.
Il PNP 2020-2025 prevede anche la necessità di agire sul sistema complesso dei diversi attori coinvolti nell’ambito prevenzionale, attraverso il rafforzamento dell’interazione tra le Istituzioni e il partenariato economico-sociale e tecnico-scientifico. In questo specifico scenario, l’Inail ha un ruolo centrale e nevralgico con la sua componente tecnica e scientifica, codificato dal protocollo d’intesa stipulato nel 2007 per la realizzazione di un Sistema informativo nazionale di prevenzione (SINP16) nei luoghi di lavoro, poi ratificato dall’art. 8 del D. lgs. n. 81/2008 e dai decreti del 25.5.201617 e 06.02.201818.
L’Inail partecipa anche con funzione consultiva al “Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro”, presso il Ministero della Salute, unitamente a rappresentanti dei Ministeri del Lavoro, dell’Interno, delle Infrastrutture e dei Trasporti e delle Regioni e Province autonome. Il Comitato ha tra i suoi compiti quello di stabilire le linee comuni delle politiche nazionali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, programmare il coordinamento delle attività di vigilanza sui luoghi di lavoro, garantire lo scambio di informazioni tra i soggetti istituzionali al fine di promuovere l’uniformità dell’applicazione della normativa vigente, individuare le priorità della ricerca in tema di prevenzione dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori. Le competenze dell’Istituto in materia di salute e sicurezza sul lavoro sono anche valorizzate all’interno della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, che è l’altro attore istituzionale previsto dall’articolo 6 del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81, che ha funzioni prevalentemente di valutazione e promozione delle attività in materia di salute e sicurezza del lavoro, nonché di esame dei problemi applicativi della normativa di settore.
Infine, sotto il profilo prettamente operativo del sistema prevenzionale, l’Inail è attuatore delle cosiddette “politiche premiali”, a vantaggio delle imprese che dimostrano di aver intrapreso efficaci piani di prevenzione, attraverso la predisposizione di appositi bandi per il finanziamento di investimenti in materia di salute e sicurezza che coinvolgano piccole – medie imprese e microimprese.
Come è evidente, le attività prevenzionali in cui l’Inail è attualmente coinvolto sono di tipo tecnico-scientifico o consultivo o di supporto economico, ma l’auspicio è che esse possano ampliarsi fino a ricomprendere anche le attività prevenzionali di natura sanitaria, al momento applicate in maniera non sistematica. La codifica normativa delle funzioni prevenzionali dei sanitari Inail, già attuate e rese manifeste durante la pandemia da Covid-19, corroborano il ruolo che la Sanità Inail svolge già in altri ambiti, in concorso con le funzioni e le attività del Servizio sanitario nazionale.
Il disegno di legge S. 2052 “Disposizioni in materia di coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati in materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro”
Il Testo unico sulla sicurezza 81/2008 ha concretamente avviato un percorso atto a disegnare un nuovo sistema fondato sullo sviluppo di una cultura della prevenzione che aumenta la percezione del rischio, della sua prevedibilità e prevenibilità e ha anche portato allo sviluppo della logica di “sistema e di compartecipazione” delle Istituzioni e delle parti sociali; tuttavia, la disapplicazione di alcune disposizioni normative in esso contenute è perdurante realtà, tanto che – malgrado la solerte attività svolta dal personale ispettivo dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro -, vengono rilevate spesso “gravi e reiterate19” violazioni della disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, spesso causa di infortuni mortali sul luogo di lavoro.
Questa consapevolezza, insieme alla constatazione che l’intervento dell’Autorità giudiziaria a tutela della sicurezza sul lavoro è talvolta tardivo rispetto agli eventi infortunio/malattia professionale che continuano a verificarsi, consente di accogliere con favore la presentazione di un disegno di legge presso il Senato della Repubblica (ddl S. 2052), assegnato alle commissioni riunite 2a (Giustizia) e 11a (Lavoro pubblico e privato) recante titolo: “Disposizioni in materia di coordinamento nei procedimenti per reati in materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro” 20, in corso di esame.
Il disegno di legge, già oggetto di apprezzamento da parte delle associazioni di categoria degli invalidi e mutilati del lavoro, propone l’istituzione di una Procura Nazionale in materia di lavoro, che funga da raccordo e riordino operativo per il perseguimento dei reati in tema di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro.
La proposta nasce dalla consolidata esperienza che la distribuzione di magistrati in pool specialistici di livello nazionale consente di realizzare sinergie efficaci ai fini dell’attività investigativa e di migliorare le competenze degli inquirenti attraverso la specializzazione/focalizzazione sulla materia dei reati in materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro. Nel disegno di legge in esame viene infatti esplicitato che alcuni Uffici giudiziari non sono in grado di occuparsi di ipotesi di reato in igiene e sicurezza del lavoro. Tale condizione non è determinata dalla cattiva volontà degli inquirenti, ma specialmente nei medi-piccoli uffici giudiziari21 distribuiti sul territorio nazionale, è legata ad altri fattori, quali la carenza di personale che rende difficile la creazione di gruppi di magistrati specializzati, l’assenza di casistica che non consente di assicurare agli inquirenti una valida esperienza in questa materia, la geografia giudiziaria che talvolta rende difficile avvalersi di nuclei investigativi specializzati.
L’istituzione di una Procura Nazionale del Lavoro consentirebbe invece di avere pubblici ministeri esperti in siffatto tipo di procedimenti penali e, al tempo stesso, professionisti in grado di elaborare azioni sistematiche e organiche di prevenzione in ordine ai problemi che maggiormente insidiano la sicurezza del lavoro in violazione delle norme vigenti e penalmente sanzionate.
I proponenti il disegno di legge ravvisano l’utilità di una Procura Nazionale del Lavoro anche per ottenere un generale ammodernamento delle strategie investigative di indagine, attraverso metodi più penetranti e diffusi anche nei Paesi europei (ad esempio mediante perquisizioni sistematiche dei supporti informatici o dei server delle sedi aziendali) per poter arrivare a capire la volontà dei decisori aziendali, che definiscono le politiche anche della sicurezza dei lavoratori (ipotesi di contestazione del dolo eventuale).
La costituzione della Procura Nazionale in materia di lavoro sarebbe inoltre risolutiva dell’attuale frammentazione delle indagini su situazioni analoghe, quando non identiche, che si verificano in diversi luoghi del territorio nazionale. Basti pensare che una stessa società o impresa che effettua la medesima lavorazione in stabilimenti diversi o distribuiti in sedi diverse del territorio nazionale, può subire valutazioni giudiziarie eterogenee per le stesse ipotesi di reato, potendo ottenere l’archiviazione del procedimento in una Procura e il rinvio a processo in un’altra Procura.
Nel disegno di legge in esame è esposta un’altra finalità del progetto giudiziario, ovvero quello di unificare le competenze in materia di reati in materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro, ossia la possibilità di perseguire ipotesi di reato, già previste dal codice penale del 1930 e fino ad oggi raramente contestate, perché il loro accertamento è particolarmente complesso e richiede tecniche investigative sofisticate. Si tratta della omissione dolosa di cautele antinfortunistiche e del reato di disastro: queste ipotesi di reato possono essere esaminate soltanto da un’organizzazione giudiziaria che disponga di adeguate risorse umane e materiali, ottenibili in una scelta di accentramento di funzioni e competenze.
Un aspetto ulteriore della proposta di novella legislativa che appare di grande interesse per l’Istituto che ha una distribuzione su tutto il territorio nazionale con coordinamento delle Strutture centrali è che la creazione di una Procura Nazionale del Lavoro creerebbe, parimenti, un unico riferimento giudiziario per i molteplici attori della vigilanza operanti in Italia (previsti dall’articolo 13, comma 1-bis, del d. lgs. 81/2008), nonché una più immediata interlocuzione anche con le autorità giudiziarie degli altri Paesi nei casi di infortuni che si verifichino in stabilimenti posti alle dipendenze di una società multinazionale connessi all’estero.
Un ulteriore significativo elemento introdotto nel disegno di legge a supporto della necessità dell’istituzione di una Procura Nazionale del lavoro consiste nella osservazione che verrebbe data piena applicazione all’articolo 61 del d.lgs. 81/2008 che prevede la notifica all’Inail da parte dell’Autorità giudiziaria che avvia l’azione penale, ai fini della costituzione di parte civile per l’esercizio dell’azione di regresso.
Tutti gli argomenti sopra esposti, che hanno motivato la presentazione della proposta di legge in esame al Senato, appaiono di pregnante significato nell’ottica della strategia di una prevenzione “globale” e “integrata” e sono pertanto pienamente condivisibili dal punto di vista della medicina legale “infortunistica” Inail. Il disegno di legge pare garantire la maggiore sicurezza possibile sui luoghi di lavoro, attraverso un sistematico, organizzato e ubiquitario perseguimento dei reati in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, realizzato da magistrati specializzati in tale ambito, che possano cooperare attraverso l’esercizio dell’azione giudiziaria in sede civile e penale allo sviluppo della cultura nazionale di prevenzione in materia di sicurezza e di salute sui luoghi di lavoro.
Il ruolo della medicina legale infortunistica Inail presso la prospettata Procura nazionale del Lavoro
La proposta legislativa in esame al Senato presenta un indubbio valore nel complesso panorama delle attività volte a ottenere il più alto livello di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Per le ragioni che andiamo a riassumere tale progetto legislativo dovrebbe ricomprendere un ruolo diretto e più attivo della medicina infortunistica Inail.
Nel sistema di prevenzione e sicurezza sul lavoro l’Inail svolge un ruolo centrale, come detto, attraverso le attività di studio, ricerca e trasferimento delle conoscenze in campo infortunistico attraverso campagne specifiche (ad esempio, modello ‘Sbagliando s’impara’ e applicazione del metodo dell’European Statistics on Accidents at Work), ma anche come Ente consultivo nelle strutture del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali.
Nell’ambito del disegno di legge che è volto alla costituzione di una Procura Nazione del Lavoro, la medicina infortunistica Inail si propone di essere elemento di valorizzazione del processo di omogeneizzazione ed efficacia dell’azione giudiziaria, potendo svolgere un pari ruolo di coordinamento e di impulso per le attività prettamente medico-legali e per le strategie di prevenzione sanitaria attraverso le competenze dei medici del lavoro e dei professionisti sanitari delle unità socio-sanitarie nelle sedi Inail.
Difatti, l’attività svolta dal personale medico Inail presente su tutto il territorio nazionale, nella trattazione di tutte le pratiche di infortunio e/o malattia professionale e, vieppiù, degli infortuni con esito mortale, si conforma ad indirizzi operativi univoci forniti dalla Sovrintendenza sanitaria centrale e dalle Direzioni centrali competenti.
L’attività sistematica del medico-legale Inail si dipana attraverso diversi livelli di indagine:
la codifica delle modalità di accadimento dell’evento infortunio/malattia professionale, anche attraverso la integrazione dei dati derivati dall’indagine ispettiva svolta dal funzionario di Istituto e attraverso la disamina del rischio lavorativo.
la ricostruzione della dinamica lesiva/letale, che è possibile in virtù delle specifiche competenze in tema di patologia forense, che consentono peraltro la valutazione delle attività svolte/omesse sul cadavere.
l’effettuazione dell’analisi dettagliata delle cause della morte, mediante la ricostruzione della storia clinica del soggetto attraverso la documentazione sanitaria già in atti o mediante l’acquisizione di ulteriore documentazione medica di strutture pubbliche.
la ponderazione delle situazioni al contorno, delle procedure organizzative in essere attraverso l’acquisizione e l’analisi del documento di valutazione dei rischi aziendale, esaminato alla luce delle precipue competenze di medicina del lavoro.
la possibilità di confronto nell’analisi dei fenomeni infortunistici con gli altri soggetti competenti, attraverso la abituale e codificata collaborazione tra molte aziende sanitarie locali e sedi territoriali dell’INAIL.
La metodologia operativa dei medici Inail sopra delineata e la possibilità di far convergere presso un’unica struttura centrale gli esiti delle attività svolte su tutto il territorio nazionale portano a ritenere che le unità socio-sanitarie Inail possano fungere come organo di integrazione e supporto alla Procura Nazionale del Lavoro, prospettata nel disegno di legge in esame, garantendo terzietà e affidabilità nell’interpretazione dei dati sanitari.
Al tempo stesso, la fattiva collaborazione con un organismo giudiziario nazionale consentirebbe di attuare una sistematica strategia di prevenzione terziaria propria della medicina legale Inail attraverso percorsi di formazione – informazione dei soggetti infortunati/tecnopatici. Tale processo, previsto dall’art. 30, lettera e, del TU 81/08 che muove dalla genesi dell’infortunio, è volto a portare in evidenza quale sia stato, se vi è stato, il comportamento errato della vittima, indi procedere ad una efficace e completa formazione sui rischi relativi alle mansioni da svolgere, ai ritmi di lavoro e alla organizzazione aziendale. Talvolta, infatti, la causa dell’infortunio può essere ricondotta anche alla mancata corretta valutazione della condizione di salute preesistente all’evento ovvero a quella riguardante lo stato psico-fisico in attualità di lavoro, circostanze che dovrebbero sempre affiancare l’analisi delle altre variabili infortunistiche (comportamento dannoso od omissivo di altri lavoratori, di dirigenti o preposti, dei datori di lavoro; altre volte può essere dovuto, anche se più raramente, a errori di progettisti, installatori e manutentori di macchine e impianti).
Procedendo ad una compiuta disamina dei rischi, per quanto di competenza sanitaria, potrà procedersi a dare l’informazione corretta all’infortunato circa i profili di rischio di comparto, con una descrizione di tutti i rischi connessi con ognuna delle fasi che costituiscono il ciclo lavorativo. Inoltre, presso l’unità socio-sanitaria Inail, il lavoratore infortunato potrà essere formato – informato sul corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (DPI), necessari nel caso in cui i rischi non possano essere eliminati o ridotti attraverso l’adozione di sistemi di prevenzione e protezione collettivi. Dalla conoscenza delle buone prassi per i diversi settori lavorativi e dalla disponibilità di linee guida relative a molteplici settori e attività, nelle unità socio-sanitarie Inail il lavoratore infortunato potrà conseguire adeguati livelli di consapevolezza sulla sicurezza del proprio posto di lavoro, limitando o annullando il “fattore umano” nella incidentalità sul luogo di lavoro. Il processo poc’anzi descritto porta a compimento le disposizioni dell’art. 30 lettera e) del d.lgs. 81/08, attraverso il coinvolgimento più diretto dei lavoratori nel sistema di gestione della sicurezza personale sul luogo di lavoro. Tale processo si propone di essere un momento altamente qualificato delle attività medico-legali presso le unità socio-sanitarie Inail ed esprime il significativo contributo che il personale socio-sanitario d’Istituto può dare alle strategie di prevenzione terziaria, attraverso una sistematica e costante disseminazione della cultura della prevenzione.
Conclusioni
Il grave problema degli infortuni/malattie sul lavoro necessita di investimenti continui su tre aspetti: la prevenzione, la valutazione dei rischi ed i controlli. Tuttavia, i dati relativi agli infortuni/malattie professionali mostra come le azioni intraprese fino ad oggi abbiano necessità di integrazione e riforma.
L’esame del disegno di legge recante titolo “disposizioni in materia di coordinamento nei procedimenti per reati in materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro”, in corso di esame in Commissione Giustizia e Lavoro, va nella direzione di centralizzare le funzioni della magistratura per quelle fattispecie di reati, allo scopo – tra gli altri di tipo più tecnico/giuridico – di arginare il problema della lentezza di questo tipo di procedimenti giudiziari e la conseguente possibile impunità dei responsabili di lesioni personali o di perdite vite umane sui luoghi di lavoro.
Il personale sanitario Inail, già organizzato in una struttura verticistica di coordinamento e governo, in virtù delle precipue competenze nella medicina infortunistica può concretamente contribuire alle attività che andranno ad essere svolte dalla ipotizzata Procura Nazionale del Lavoro, proponendosi come organo consultivo e come motore per una efficace prevenzione terziaria – propria della medicina legale Inail – sui lavoratori. L’attività del medico-legale Inail in sinergia con altri attori (Aziende sanitarie, Ispettorato nazionale del Lavoro) può integrare efficacemente le future azioni di promozione della salute sui luoghi di lavoro e di prevenzioni degli eventi, in particolare di quelli gravi o mortali. Diversi sono i livelli di azione della medicina infortunistica Inail (codifica delle modalità di accadimento dell’evento infortunio/malattia professionale, valutazione della congruità del rischio lavorativo performance ed adesione esigibile, ricostruzione della dinamica lesiva/letale per specifiche competenze in tema di patologia forense; valutazione delle attività svolte/omesse sul cadavere in tema delle cosiddette morti prevenibili; compiuta catalogazione delle cause della morte; analisi sanitaria degli aspetti ambientali, strutturali e organizzativi ove l’evento si è verificato; analisi e di confronto dei fenomeni infortunistici generali).
La metodologia operativa dei medici Inail sopra delineata e la possibilità di far convergere presso un’unica struttura centrale gli esiti delle attività svolte su tutto il territorio nazionale portano a ritenere che le unità socio-sanitarie Inail possano fungere come organo di integrazione e supporto alla Procura Nazionale del Lavoro, prospettata nel disegno di legge in esame, garantendo anche terzietà e incrementando l’affidabilità nell’interpretazione dei dati sanitari. Da ultimo, la fattiva collaborazione con un Organismo giudiziario nazionale consentirebbe di attuare una sistematica strategia di prevenzione terziaria propria della medicina legale Inail.
La possibile sinergia di competenze e attività tra una Autorità giudiziaria nazionale e la struttura sanitaria nazionale Inail, coordinata dalla Sovrintendenza sanitaria centrale, per tutte le ragioni richiamate è una condizione auspicabile in quanto reale valore aggiunto – in affiancamento e integrazione – per gli obiettivi che il disegno di legge si propone di ottenere, unitamente ad una più efficace diffusione della cultura della sicurezza e del lavoro dignitoso22.
1 L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) è l’Agenzia specializzata delle Nazioni Unite sui temi del lavoro e della politica sociale. Fondata nel 1919 come parte del Trattato di Versailles che pose fine alla Prima Guerra mondiale, conta 187 Paesi membri. L’OIL adotta norme internazionali del lavoro, promuove i principi fondamentali e i diritti sul lavoro, opportunità di lavoro dignitose, il rafforzamento della protezione sociale e il dialogo sociale sulle questioni inerenti al lavoro. Come Stato membro dell’OIL, l’Italia partecipa alle attività dell’Organizzazione e, attraverso i suoi rappresentanti tripartiti, prende parte alla Conferenza Internazionale del Lavoro che si si riunisce una volta l’anno per adottare le norme internazionali del lavoro e approvare il programma e il bilancio dell’OIL.
2 Dati Inail – Giugno – Luglio 2021, n. 6-7
3 Dati Inail – Gennaio 2022, n. 1
4 La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività […omissis…]
5 Art. 35: La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero. Art. 36: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. […Omissis…]. Art. 37: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore […Omissis…]. La Repubblica tutela il lavoro dei minori […Omissis…].
6 Art. 38: […Omissis…] I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria […Omissis…].
7 Art. 41: L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
8 Convenzione ILO n. 187/2006, recante titolo: “Convenzione sul quadro promozionale per la salute e la sicurezza sul lavoro”.
9 Convenzione ILO n. 187/2006 loc. ult. cit. art.1: l’espressione «sistema nazionale di salute e sicurezza sul lavoro» oppure «sistema nazionale» significa l’infrastruttura che costituisce il quadro principale per l’attuazione della politica nazionale e dei programmi nazionali di sicurezza e di salute sul lavoro.
10 International Labour Office: “Safe and healthy workplaces. Making decent work a reality”. The ILO Report for World Day for Safety and Health at Work, Ginevra 2007. ISBN 978-92-2-119812-3 (web pdf)
11 Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 17 Dicembre 2007 – Esecuzione dell’accordo del 1° agosto 2007, recante: “Patto per la tutela della salute e la prevenzione nei luoghi di lavoro”, in GU n. 3 del 4.1.2008.
12 D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in Gazzetta Ufficiale n. 101 del 30 aprile 2008 – Suppl. Ordinario n. 108.
13 D.lgs. 3 agosto 2009, n. 106, in Gazzetta Ufficiale n. 180 del 05 agosto 2009 – Suppl. Ordinario n. 142/L.
14 International Labour Office: “Anticipare ed essere pronti a rispondere alle crisi. Investire in sistemi resilienti di salute e sicurezza sul lavoro”. Sintesi dell’ILO Report for World Day for Safety and Health at Work, “Global dialogue on safety and health at work in response to emergencies and crises”, Ginevra 2021.
15 CSR 127 del 6 agosto 2020
16 Il SINP ha la finalità di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l’efficacia della attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, relativamente ai lavoratori iscritti e non iscritti agli enti assicurativi pubblici, e per indirizzare le attività di vigilanza, attraverso l’utilizzo integrato delle informazioni disponibili negli attuali sistemi informativi, anche tramite l’integrazione di specifici archivi e la creazione di banche dati unificate.
17 Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, n. 183 del 25.5.2016, recante: “Regolamento recante regole tecniche per la realizzazione e il funzionamento del SINP, nonché le regole per il trattamento dei dati, ai sensi dell’articolo 8, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”.
18 Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, n. 14 del 06.02.2018.
19 L. 217/2010: Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 novembre 2010, n. 187, recante misure urgenti in materia di sicurezza.
20 Atto Senato n. 2052 XVIII Legislatura – Presentato in data 17 dicembre 2020; annunciato nella seduta n. 284 del 17 dicembre 2020. Titolo breve: indagini reati igiene e sicurezza lavoro.
21 La geografia giudiziaria in Italia – Associazione Nazionale Magistrati (associazionemagistrati.it)
22 Città del Vaticano – Udienza generale Papa Francesco del 12.1.2022.
IL REGIME SANZIONATORIO PER IL CONCORSO DI ILLECITI AMMINISTRATIVI, COMMENTO AD ORDINANZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE N. 12208 DEL 14/04/2022. avv. Giovanni Gargiulo Abstract: In caso di concorso materiale di illeciti in materia di trasporto […]
Diritto Amministrativo Dottrina Enti Locali e P.A. Fascicoli Fascicolo n.3/2022IL REGIME SANZIONATORIO PER IL CONCORSO DI ILLECITI AMMINISTRATIVI,
COMMENTO AD ORDINANZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE N. 12208 DEL 14/04/2022.
avv. Giovanni Gargiulo
Abstract: In caso di concorso materiale di illeciti in materia di trasporto di rifiuti commessi in data antecedente alla riforma attuata con D.Lgs. 116/2020, non si applica il regime sanzionatorio del cumulo giuridico, bensì quello del cumulo materiale.
In the event of material concurrence of offenses relating to the transport of waste committed on a date prior to the regulatory reform implemented with D.Lgs. 116/2020, the sanctioning regime of legal accumulation does not apply, but that of material accumulation.
Sommario: 1. Il fatto storico – 2. Il regime sanzionatorio del concorso materiale in materia di trasporto di rifiuti – 3. L’inapplicabilità delle tutele previste dall’ordinamento penale, in ragione della natura amministrativa degli illeciti – 4. Lo jus superveniens.
Fatto storico
Un ente pubblico emetteva molteplici ordinanze ingiunzione con le quali comminava un consistente numero di sanzioni amministrative ai sensi e per gli effetti cui all’art. 258, co. 5, D.Lgs. 152/2006, dirette a punire numerose violazioni del precetto imposto dall’art. 193 D.Lgs. 152/2006, in quanto, in occasione di diversi trasporti di rifiuti speciali non pericolosi effettuati negli anni 2008 e 2009, era stato accertato che i relativi formulari non risultavano correttamente compilati, poiché nel “campo 9”, dedicato alla firma del produttore dei rifiuti, era stata invece apposta la firma di un dipendente della società destinataria dei rifiuti, frequentemente coincidente con l’autista del mezzo che di volta in volta si occupava materialmente del trasporto.
Avverso dette ordinanze proponevano un’opposizione congiunta ex artt. 22 L. 689/1981 e 6 D.Lgs. 150/2011 i vari soggetti passivi delle obbligazioni pecuniarie che, tra i diversi motivi di doglianza, contestavano l’applicazione da parte dell’ente del criterio del “cumulo materiale” delle sanzioni, in virtù del quale erano state applicate tante sanzioni quanti erano gli illeciti amministrativi accertati. I ricorrenti pretendevano, infatti, il ricorso al regime sanzionatorio del cd. “cumulo giuridico” cui all’art. 8 L. 689/1981, che prescriveva l’irrogazione della sanzione prevista per la violazione più grave aumentata sino al triplo.
Lo specifico motivo di ricorso (unitamente agli altri motivi di opposizione che esulano dalla presente disamina) veniva respinto in primo grado, ma accolto dinanzi al giudice di appello (che, però, respingeva ogni altro motivo d’impugnazione), con sentenza non definitiva n. 1466/2019 del 14/06/2019. Quindi, il giudice d’appello dichiarava applicabile la regola del cd. “cumulo giuridico”, in luogo del cd. “cumulo materiale” e rimetteva la causa sul ruolo per agevolare la nuova liquidazione delle sanzioni in funzione del mutato criterio di calcolo.
Successivamente, la Corte di Appello sospendeva il giudizio ai sensi e per gli effetti cui all’art. 279, co. 4, c.p.c., in virtù dell’istanza congiunta presentata dalle parti processuali, che palesavano la pendenza di un giudizio in Cassazione avente ad oggetto la predetta sentenza non definitiva.
Invero, in sede di giudizio di legittimità, l’ente pubblico aveva affidato a due diversi motivi l’impugnazione del solo capo della sentenza con il quale il giudice di appello aveva deciso di applicare la regola del cumulo giuridico ai fini della quantificazione delle sanzioni amministrative; mentre alcuni dei soggetti sanzionati avevano presentato un controricorso con il quale contestavano l’avversa domanda e, al contempo, propugnavano ricorso incidentale, attraverso il quale proponevano alla Corte di Cassazione le questioni giuridiche alla base delle doglianze che entrambi i giudici di merito avevano rigettato.
Con ordinanza n. 12208 del 16/03/2022, pubblicata in data 14/04/2022, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso incidentale ed accoglieva il ricorso principale, limitatamente al primo motivo (il secondo motivo risultava infatti assorbito), nella parte in cui veniva lamentata la violazione e falsa applicazione dell’art. 8, co. 2, L. 689/1981; per l’effetto, il Supremo Consesso cassava la sentenza impugnata con rinvio, per un nuovo esame, alla medesima Corte di Appello che, in differente composizione, avrebbe dovuto liquidare anche le spese del giudizio di legittimità.
L’ordinanza in commento restituisce un’interpretazione della norma contenuta nell’art. 8 L. 689/1981 che offre spunti di riflessione sotto diversi profili giuridici.
Il regime sanzionatorio del concorso materiale in materia di trasporto di rifiuti
Come noto, l’art. 8 L. 689/1981, rubricato: “Più violazioni di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative”, prescrive che: “Salvo che sia diversamente stabilito dalla legge, chi con un’azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative o commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione prevista per la violazione più grave, aumentata sino al triplo. Alla stessa sanzione prevista dal precedente comma soggiace anche chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno posto in essere in violazione di norme che stabiliscono sanzioni amministrative, commette, anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse norme di legge in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie …”.
Siffatta norma prevede dunque l’applicazione della regola del cumulo giuridico delle sanzioni (ovvero imposizione della sanzione amministrativa prevista per la violazione più grave, aumentata fino al triplo) in luogo del cd. cumulo materiale (che prevede l’applicazione di tante sanzioni quanti sono gli illeciti amministrativi commessi), anzitutto, nel caso in cui, con una sola azione od omissione, l’autore commetta una pluralità di violazioni sanzionate amministrativamente, distinguendo tra concorso formale omogeneo, che ricorre laddove le violazioni abbiano per oggetto la stessa disposizione, e concorso formale eterogeneo, che viceversa si registra nelle ipotesi in cui le violazioni riguardano disposizioni differenti.
Il secondo comma della richiamata norma estende la regola dal cumulo giuridico ai casi di continuazione di illeciti amministrativi, che si concretizzano quando violazioni (della stessa o di diverse disposizioni) siano state commesse con più azioni od omissioni, purché esecutive di un “medesimo disegno”.
La mitigazione del trattamento sanzionatorio attraverso l’applicazione della regola del cumulo giuridico, relativa alle ipotesi di concorso materiale da ultimo indicate, è stata tuttavia limitata alla sola materia dell’assistenza e previdenza obbligatorie.
Nonostante il tenore letterale della norma, il giudice di appello nella controversia in esame aveva riformato la sentenza di primo grado ritenendo che, attraverso “una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 8 L. 689/1981”, doveva applicarsi il regime sanzionatorio del cumulo giuridico, in luogo del cumulo materiale, in quanto tutte le condotte trasgressive accertate dall’ente pubblico erano caratterizzate da un comune disegno.
Come anticipato, la suesposta ricostruzione dommatica è stata smentita dal giudice di legittimità, laddove il Supremo Consesso ha ritenuto che l’istituto della continuazione in materia di violazioni amministrative si applica, in via generale, alla sola ipotesi in cui la pluralità di violazioni sia commessa con una sola azione od omissione, mentre nel caso esse siano commesse con più azioni od omissioni, detto istituto trova applicazione soltanto se si tratta di violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie1.
Con l’occasione, la Corte ha escluso che ricorresse una questione di legittimità costituzionale (sollevata dai soggetti passivi dell’obbligazione pecuniaria) dell’art. 8, co. 2, L. 689/1981 – nella parte in cui non prevede la possibilità del cumulo giuridico delle sanzioni anche per gli illeciti amministrativi diversi dalle violazioni di norme in materia previdenziale ed assistenziale – in riferimento all’art. 3, co. 1, cost.
Sul tema gli ermellini hanno ritenuto, per un verso, che dovesse escludersi una disparità di trattamento rispetto alle sanzioni penali, attesa la diversità dei due tipi di violazioni, assumendo, per altro verso, che il differente trattamento riservato alle violazioni in materia previdenziale ed assistenziale rientrasse nella discrezionalità del legislatore, senza implicare alcuna violazione del principio di uguaglianza2.
Sotto quest’ultimo profilo occorre rilevare come la discrezionalità del legislatore abbia costituito il chiaro limite giuridico al più volte auspicato intervento additivo della Corte Costituzionale, che ha ripetutamente sancito l’insindacabilità dell’opzione legislativa diretta alla differenziazione del trattamento giuridico sanzionatorio relativamente al concorso di illeciti amministrativi3.
Le richiamate pronunce giurisprudenziali sostengono, quindi, l’insindacabilità dell’opzione legislativa diretta alla differenziazione del trattamento giuridico sanzionatorio relativamente al concorso di illeciti amministrativi; tecnica, quest’ultima, che il legislatore ha utilizzato anche in altri settori giuridici, come quello relativo alla materia assicurativa, laddove l’art. 327 D.Lgs. 209/2005 (poi abrogato dal D.Lgs. 68/2018, emanato in attuazione della direttiva UE 2016/97) conferiva rilievo al cd. “illecito seriale”, costituito da “più violazioni della stessa disposizione del presente codice, o delle norme di attuazione, per le quali sia prevista l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie, attraverso una pluralità di azioni od omissioni la cui reiterazione sia dipesa dalla medesima disfunzione dell’organizzazione dell’impresa o dell’intermediario”.
L’inapplicabilità delle tutele previste dall’ordinamento penale, in ragione della natura amministrativa degli illeciti
Il reato continuato cui all’art. 81 c.p. rappresenta una particolare ipotesi di concorso materiale in cui i vari fatti illeciti posti in essere dal reo sono compresi in un medesimo ed unitario disegno criminoso.
Tale peculiarità comporta una minore severità in sede di applicazione della pena rispetto a quella prevista per il concorso materiale e ciò in quanto la struttura del reato dimostra una minore riprovevolezza in capo all’agente.
Nella fattispecie in esame, la Cassazione ha sostenuto come nella specifica materia del trasporto dei rifiuti non risulti applicabile in via analogica l’art. 81 c.p., in virtù della differenza morfologica tra illecito penale ed illecito amministrativo4.
Invero, siffatta diversità non consente che, attraverso un procedimento di interpretazione analogica, le norme di favore previste in materia penale vengano tout court estese alla materia degli illeciti amministrativi5.
Sotto diverso profilo, la Cassazione ha escluso che la fattispecie sanzionatoria prevista dall’art. 258, co. 5, D.Lgs. 152/2006 potesse essere assoggettata alla disciplina in materia di continuazione in ragione della sua natura sostanzialmente penale.
In proposito, il collegio ha infatti richiamato i principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria e, in particolare, i ccdd. criteri di Engel (1. qualificazione giuridica della sanzione nel sistema normativo nazionale; 2. natura della sanzione; 3. livello di afflittività della sanzione)6 con cui la Corte di Strasburgo ha più volte evidenziato l’esistenza di illeciti non formalmente qualificati come penali nell’ordinamento interno che però, di fatto, per il loro contenuto e la loro sanzione corrispondono a dei veri e propri illeciti penali, necessitando, pertanto, delle tutele previste dall’art. 6 e 7 della CEDU.
Per il caso che ci occupa, la Cassazione ha quindi sostenuto, in primis, che la disciplina nazionale deponesse inequivocabilmente per la qualificazione della natura delle sanzioni in esame come amministrative; quindi, in relazione al secondo dei criteri di Engel innanzi richiamati, ha osservato che pur essendo la sanzione posta a tutela di interessi generali (la piena tracciabilità dell’attività di smaltimento dei rifiuti speciali non pericolosi) essa sia destinata ad una ristretta platea di possibili destinatari (i soggetti che svolgono le attività di produzione, trasporto e smaltimento di rifiuti); infine, la Corte ha rilevato che il quantum debeatur imposto dalla norma, valutato contestualmente all’assenza di sanzioni accessorie, non potesse indurre a giudicare la sanzione come particolarmente afflittiva, rimarcando, per l’effetto, la natura amministrativa dell’illecito.
Lo jus superveniens
La Corte non ha potuto fare a meno di considerare l’evoluzione della disciplina sanzionatoria in relazione all’errata compilazione dei formulari per il trasporto dei rifiuti.
Invero, in attuazione della Direttiva (UE) 2018/851, il legislatore nazionale ha adottato il D.Lgs. 116/2020, il cui art. 4, co. 1, ha profondamente innovato la disciplina impressa nel previgente art. 258 D.Lgs. 152/2006.
Il nuovo testo estende la regola del cumulo giuridico anche alla continuazione di illeciti amministrativi esecutivi di un medesimo disegno in materia di rifiuti. In pratica, il legislatore ha previsto una nuova ipotesi di cumulo giuridico nei casi di concorso materiale di illeciti amministrativi, rispetto alla quale il soggetto agente soggiace alla sanzione amministrativa prevista per la violazione più grave aumentata sino al doppio (e non sino al triplo, come invece stabilito dal citato art. 8 L. 689/1981).
Per completezza di analisi occorre rilevare come il nuovo comma 13 dell’art. 258 D.Lgs. 152/2006 stabilisce che: “Le sanzioni di cui al presente articolo, conseguenti alla trasmissione o all’annotazione di dati incompleti o inesatti sono applicate solo nell’ipotesi in cui i dati siano rilevanti ai fini della tracciabilità, con esclusione degli errori materiali e violazioni formali. In caso di dati incompleti o inesatti rilevanti ai fini della tracciabilità di tipo seriale, si applica una sola sanzione aumentata fino al triplo”.
Lo jus superveniens prodotto dalla riferita riforma non è stato ritenuto applicabile al caso che interessa, in virtù dell’assenza di una disposizione normativa contenuta nel D.Lgs. 116/2020 che prevedesse espressamente l’applicazione retroattiva della nuova norma sanzionatoria.
Costituisce, infatti, dato pacifico che in tema di sanzioni amministrative vige il principio di legalità cui all’art. 1 L. 689/1981 che, tra i diversi corollari, postula il divieto di applicazione retroattiva delle norme sanzionatorie in materia di illeciti amministrativi. Si applica, quindi, il principio del tempus regit actum, che impone l’irrogazione della sanzione amministrativa vigente al momento in cui la condotta illecita è stata realizzata.
In tal senso depone la costante giurisprudenza della Suprema Corte, che ha stabilito come il principio del favor rei (di matrice penalistica) non si estende, in assenza di una specifica disposizione normativa, alla materia delle sanzioni amministrative che risponde, viceversa, al richiamato principio del tempus regit actum7.
In tal senso si è altresì espresso il giudice delle leggi, giudicando “manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale [dell’] art. 1, 2° comma, l. 24 novembre 1981 n. 689 (…) nella parte in cui non preved(e) che, se la legge in vigore al momento in cui fu commessa la violazione e quella posteriore stabiliscano sanzioni amministrative pecuniarie diverse, si applichi la legge più favorevole al responsabile”8.
Non incide sulla suesposta ricostruzione dommatica la recente pronuncia della Consulta (che riprende, tra l’altro, i principi espressi dalla Corte EDU nella sentenza del 04/03/2014 – caso Grande Stevens ed altri contro Italia), con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, co. 2, D.Lgs. 72/2015, in riferimento agli artt. 3 e 117, co. 1, cost., nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal terzo comma dello stesso articolo 6 alle sanzioni previste per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, ritenendo, pertanto, applicabile il principio di retroattività della disposizione più favorevole anche alle sanzioni amministrative9.
Invero, l’arresto da ultimo citato non si è occupato del sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, assumendo, invece, una portata limitata ai soli casi di matrice penale.
Nel caso che ci occupa, le sanzioni amministrative comminate dall’ente pubblico non assumono affatto quella natura “punitiva” richiesta ai fini dell’applicazione del principio della retroattività in mitius; conseguentemente, deve trovare conferma l’indirizzo tradizionale della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, in tema di sanzioni amministrative, i principi di legalità, irretroattività e di divieto di applicazione analogica di cui all’art. 1 L. 689/1981, comportano l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, sia che si tratti di illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione, sia che essi debbano considerarsi tali ab origine, senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’art. 2, co. 2 e 3, c.p. i quali, recando deroga alla regola generale dell’irretroattività della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente previsti dal legislatore10.
Poiché il D.Lgs. 116/2020 non ha espressamente sancito alcun effetto retroattivo della riforma dell’art. 258 D.Lgs. 152/2006, la Cassazione ha giustamente concluso per l’applicabilità al caso oggetto di esame della sanzione pecuniaria prevista nel testo vigente all’epoca in cui i fatti sono stati compiuti.
1 La Corte ha richiamato a tal proposito i precedenti costituiti da: Cass., 13/05/2019, n. 12659 e Cass., 16/12/2005, n. 27799:
2 Anche in tal caso sono stati richiamati alcuni precedenti: Cass., 07/05/2018, n. 10890 e Cass., 16/12/2014, n. 26434.
3 Corte cost., 12/07/2017, n. 171; Corte cost., 17/12/2015, n. 270; Corte cost., 30/06/1999, n. 280; Corte cost., 19/01/1995, n. 23; Corte cost., 27/07/1989, n. 468
4 Ex amplius: Cass., 03/05/2017, n. 10775; Cass., 13/10/2011, n. 21203; Cass., 06/10/2008, n. 24655.
5 Ad abundantiam: Cass., sez. un., 28/06/2016, n. 15669. In senso conforme, di recente: Cass., 17/06/2019, n. 16157; Cass., 26/09/2018, n. 22888; Cass., 11/09/2018, n. 22028.
6 Corte EDU, 8 giugno 1976 – caso Engel e altri contro Paesi Bassi.
7 Cass., 09/08/2018, n. 20697; Cass., 02/03/2016, n. 4114.
8 Corte Cost., 28/11/2002, n. 501.
9 Corte Cost., 21/03/2019, n. 63.
10 Cass., 18/02/2022, n. 5346.
Corte di Cassazione Civile, sez. II, 14/04/2022, Ordinanza n. 12208
Si vedano le massime su AmbienteDiritto.it
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. ROLFI Federico – Consigliere –
Dott. TRAPUZZANO Cesare – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 31008/2019 proposto da:
CITTA’ METROPOLITANA DI (Omissis), rappresentata e difesa dall’Avvocato STEFANIA GUALTIERI, per procura in calce al ricorso, ed, in seguito, anche dall’Avvocato ANNA LUCIA DE LUCA e dall’Avvocato GIOVANNI GARGIULO, come da procure agli atti;
– ricorrente –
CONTRO
V. LAVORI S.R.L. + ALTRI OMESSI, rappresentati e difesi dall’Avvocato MICHELE LAI, e dall’Avvocato TOMMASO ROLFO, per procura in calce al controricorso;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
nonché
CONSORZIO CAVET + ALTRI OMESSI;
– intimati –
avverso la sentenza non definitiva n. 1466/2019 della CORTE D’APPELLO DI FIRENZE, depositata il 14/6/2018;
udita la relazione della causa svolta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO nell’adunanza in Camera di consiglio del 16/3/2022.
FATTI DI CAUSA
1.1. La Provincia di Firenze ha emesso ordinanze con le quali ha ingiunto alla Varvarito Lavori s.r.l. ed altri, nella qualità di trasportatori ovvero di produttori di rifiuti speciali non pericolosi nonché alle società di appartenenza ed al destinatario dei rifiuti stessi, il pagamento delle sanzioni amministrative previste dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 258, comma 5, per aver violato la norma contenuta nel cit. D.Lgs. n. 152, art. 193, contestando agli stessi che i formulari dei trasporti non erano stati correttamente compilati sul rilievo che, nel campo 9, dedicato alla firma del produttore, e cioè il Consorzio Cavet, era stata invece apposta la firma di un dipendente (per lo più l’autista del mezzo di proprietà) della società Varvarito Lavori s.r.l., destinataria dei rifiuti.
1.2. La Varvarito Lavori s.r.l. e gli altri hanno proposto opposizione avverso le predette ordinanze ingiunzione che il tribunale di Firenze, con sentenza del 2017, ha respinto accertando, tra l’altro, che le violazioni erano state contestate dall’Arpat nel marzo del 2011 e che il termine di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 28, era stato interrotto.
1.3. Il Consorzio Cavet e gli altri hanno proposto appello avverso tale sentenza.
1.4. La Città Metropolitana di (Omissis) ha resistito al gravame chiedendone il rigetto.
2.1. La corte d’appello, con la sentenza non definitiva in epigrafe, ha, in parte, accolto l’appello proposto.
2.2. La corte, in particolare, per quanto rileva, ha ritenuto: – l’infondatezza dell’assunto secondo il quale le ordinanze ingiunzione non erano state notificate personalmente ai singoli ai trasgressori ma al difensore domiciliatario degli stessi: la notifica, infatti, è inesistente solo nel caso in cui “manchino del tutto i riferimenti alla persona cui effettuare la notificazione stessa, il che non è laddove essa venga effettuata presso il domiciliatario eletto dalla stessa parte”; – l’infondatezza dell’eccezione per cui i fatti contestati risalgono al 2009 mentre le ordinanze sono del luglio del 2015 sicché, in mancanza di atti interruttivi, è maturata la prescrizione quinquennale: la notificazione della contestazione della violazione costituisce un atto interruttivo della prescrizione; – l’infondatezza dell’eccezione di decadenza per decorso del termine perentorio di novanta giorni previsto dalla L. n. 241 del 1990, art. 2: tale norma, infatti, non può trovare a applicazione al procedimento previsto dalla L. n. 689 del 1981; – l’infondatezza dell’assunto per cui, a fronte di una delega scritta da parte del produttore, non sussiste la violazione contestata: la norma distingue nettamente le posizioni dei soggetti del trasporto dei rifiuti ed ognuna di esse ha compiti di controllo non delegabili ad altro soggetto del trasporto medesimo sicché, onde evitare il completo svuotamento del contenuto precettivo della norma, “al trasportatore non può essere delegato il compito proprio del produttore del rifiuto… senza considerare che la delega aveva ad oggetto la compilazione e non la sottoscrizione ed era conferita alla sola srl V. e non ai vari sottoscrittori che si sono succeduti, oltreché al presupposto indimostrato della assenza di personale Cavet al momento del trasporto…”; l’infondatezza dell’eccezione di mancanza di colpa per effetto di ignoranza scusabile: la specificità dell’attività svolta presuppone la conoscenza della normativa e l’esatta conoscenza delle relative disposizioni di legge; – la fondatezza dell’assunto secondo il quale deve trovare applicazione la L. n. 689 del 1981, art. 8 sul rilievo, per un verso, che l’interpretazione “costituzionalmente orientata dell’art. 8”, “imposta dalla similarità delle situazioni e dalla irragionevolezza dell’esito dell’applicazione delle plurime sanzioni in termini di afflittività eccessiva della condanna pecuniaria”, “… porta alla conseguenza che laddove, come nel caso di specie, le plurime sanzioni (rectius: violazioni) alla medesima disposizione di legge siano effettuate nell’ambito di una identica attività si applichi la unica sanzione aumentata al terzo” e, per altro verso, che “il medesimo disegno criminoso si rinviene nella unicità della attività in relazione alla estrazione e creazione di materiale di rifiuto effettuata dalla Cavet, e dalla esistenza della delega che conferisce alla pluralità di atti il conseguimento del medesimo fine…”.
2.3. La corte, pertanto, senza pronunciare definitivamente sull’appello, ha dichiarato l’applicabilità della L. n. 689 del 1981, art. 8, commi 1 e 2, rimettendo la causa sul ruolo per il calcolo delle sanzioni da applicarsi a ciascuno degli appellanti.
3.1. La Città Metropolitana di (Omissis), con ricorso notificato il 23/10/2019, ha chiesto, per due motivi, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente non notificata.
3.2. La V. Lavori s.r.l., + ALTRI OMESSI hanno resistito con controricorso notificato il 25/11/2019 con il quale hanno proposto, per tre motivi, ricorso incidentale.
3.3. La Città Metropolitana di (Omissis) ha resistito con controricorso notificato il 3/1/2020 con il quale ha eccepito l’inammissibilità del controricorso per mancanza di sottoscrizione dell’atto e della relativa procura difensiva.
3.4. Sono rimasti intimati il Consorzio Cavet, la xxx (più altri).
3.5. La ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
4.1. Con il primo motivo, la ricorrente principale, lamentando la violazione e la falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 8, comma 2, nella parte in cui limita l’applicazione del cumulo giuridico alle ipotesi di concorso materiale afferenti la materia dell’assistenza e della previdenza obbligatorie, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che l’interpretazione “costituzionalmente orientata dell’art. 8”, “imposta dalla similarità delle situazioni e dalla irragionevolezza dell’esito dell’applicazione delle plurime sanzioni in termini di afflittività eccessiva della condanna pecuniaria”, doveva portare “alla conseguenza che laddove, come nel caso di specie, le plurime sanzioni (violazioni) alla medesima disposizione di legge siano effettuate nell’ambito di una identica attività si applichi la unica sanzione aumentata al terzo”, senza, tuttavia, considerare che la mitigazione del trattamento sanzionatorio gravante sugli autori di plurime condotte attive o passive, in violazione di una o più norme caratterizzate da un medesimo disegno, sia stata limitata dalla legge, attraverso l’applicazione della regola del cumulo giuridico, alla sola materia dell’assistenza e previdenza obbligatorie e che il regime favorevole previsto dalla predetta norma non può essere esteso in via analogica, pur a fronte della sussistenza di un medesimo disegno criminoso tra le diverse violazioni, a materie diverse da quelle in essa espressamente considerate.
4.2. Il motivo è fondato.
Questa Corte, invero, ha ripetutamente affermato il principio per cui, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 8, “l’istituto della continuazione in materia di violazioni amministrative si applica, in via generale, alla sola ipotesi in cui la pluralità di violazioni sia commessa con una sola azione od omissione, mentre nel caso esse siano commesse con più azioni od omissioni, detto istituto trova applicazione soltanto se si tratta di violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria” (cfr. Cass. n. 27799 del 2005; Cass. n. 12659 del 2019). La L. n. 689 cit., art. 8, prevedendo l’applicabilità del cd. “cumulo giuridico” tra sanzioni nella sola ipotesi di concorso formale (omogeneo ed eterogeneo) tra le violazioni contestate, in cui con un’unica azione od omissione sono commesse violazioni plurime, non e’, dunque, invocabile con riferimento alla diversa ipotesi di “concorso materiale”, in cui una pluralità di violazioni è commessa con più azioni od omissioni. La norma, in effetti, prevede espressamente tale possibilità soltanto per le violazioni in materia di previdenza ed assistenza, né è applicabile in via analogica l’art. 81 c.p., stante la differenza morfologica tra illecito penale ed illecito amministrativo, anche alla luce del diverso atteggiarsi dei profili soggettivi relativi alle due patologie di illecito (Cass. n. 10775 del 2017; Cass. n. 21203 del 2011; Cass. n. 24655 del 2008). Questa Corte, del resto, ha ripetutamente affermato che, in tema di sanzioni amministrative, allorché siano poste in essere inequivocabilmente più condotte realizzatrici della medesima violazione, non è applicabile in via analogica l’istituto della continuazione di cui all’art. 81 c.p., comma 2, ma esclusivamente quello del concorso formale, in quanto espressamente previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 8, il quale richiede l’unicità dell’azione od omissione produttiva della pluralità di violazioni (Cass. n. 26434 del 2014; Cass. n. 10890 del 2018).
4.3. Ne’ appare seriamente prospettabile un dubbio di legittimità costituzionale della previsione de qua, dovendosi escludere una disparità di trattamento rispetto alle sanzioni penali, attesa la diversità dei due tipi di violazione, e dovendosi per converso ritenere che il diverso trattamento riservato alle violazioni in materia previdenziale ed assistenziale rientri nella discrezionalità del legislatore, senza quindi implicare alcuna violazione del principio di cui all’art. 3 Cost. (Cass. n. 26434 del 2014; Cass. n. 10890 del 2018): “la differenza qualitativa tra illecito penale e illecito amministrativo non consente che attraverso l’interpretazione analogica le norme di favore previste in materia penale possano essere estese alla materia degli illeciti amministrativi” per cui “l’unificazione, ai fini dell’applicazione della sanzione – nella misura massima del triplo di quella prevista per la violazione più grave – in ordine a plurime trasgressioni di diverse disposizioni o della medesima disposizione, riguarda, ai sensi dell’art. 8, comma 1, in questione, esclusivamente l’ipotesi in cui la pluralità delle violazioni discenda da un’unica condotta e, quindi, non opera nel caso di condotte distinte, quantunque collegate sul piano dell’identità di una stessa intenzione plurioffensiva (al di fuori ovviamente delle violazioni attinenti alla materia previdenziale ed assistenziale, indicate nel comma 2), nella cui ipotesi, perciò, trova applicazione il criterio generale del cumulo materiale delle sanzioni” (Cass. n. 5252 del 2011, che ha ribadito “il principio secondo cui, in ipotesi di pluralità di illeciti amministrativi in violazione della medesima norma, ciascuna infrazione è assoggettabile a sanzione, non essendo in tal caso applicabile la L. n. 689 del 1981, art. 8 (riferentesi alla diversa ipotesi in cui le violazioni siano state commesse con un’unica azione od omissione), né essendo estensibili agli illeciti amministrativi i principi in tema di continuazione riguardanti esclusivamente la materia penale, senza che, peraltro, per la mancata previsione della continuazione in “subiecta” materia, possa configurarsi un’ipotesi di illegittimità costituzionale sotto il profilo della disparità di trattamento, giacché tale disparità rispetto alle violazioni penali…trova giustificazione proprio nella diversità dei due tipi di violazione”).
4.4. La disciplina di cui all’art. 8 cit., del resto, non subisce deroghe neppure in base alla successiva previsione di cui all’art. 8-bis della medesima legge che, salve le ipotesi eccezionali del comma 2 (violazioni delle norme previdenziali ed assistenziali), ha escluso, se sussistono determinati presupposti, la computabilità delle violazioni amministrative successive alla prima solo ai fini di rendere inoperanti le ulteriori conseguenze sanzionatorie della reiterazione (Cass. n. 26434 del 2014): in assenza di qualsiasi norma a riguardo, la reiterazione non può, quindi, operare “quale elemento unificante ai fini della sanzione del precedente art. 8 a guisa di continuazione (art. 81 c.p., comma 2), e non modifica il principio generale, desumibile dal citato art. 8, secondo cui la sanzione più grave aumentata fino al triplo non può essere irrogata, salve le ipotesi eccezionali del comma 2 (violazioni delle norme previdenziali e assistenziali), che nei soli casi di concorso formale” (Cass. n. 5252 del 2011).
4.5. La Corte costituzionale, dal suo canto, ha ripetutamente dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (e tale, pertanto, dev’essere dichiarata anche quella sollevata dai controricorrenti) della cit. L. n. 689, art. 8, comma 2, nella parte in cui limita la continuazione ed il conseguente cumulo giuridico delle sanzioni alle sole violazioni di leggi in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie, sul rilievo di fondo che “l’intervento invocato… deve ritenersi precluso dalla discrezionalità del legislatore nella configurazione del trattamento sanzionatorio per il concorso tra plurime violazioni e dall’assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate” (Corte Cost. n. 171 del 2017; conf., Corte Cost. n. 270 del 2015; Corte Cost. n. 280 del 1999; Corte Cost. n. 23 del 1995; Corte Cost. n. 468 del 1989; Corte Cost. n. 421 del 1987).
4.6. Ne’ può ritenersi che, come sostengono i controricorrenti, la sanzione inflitta agli opponenti sia tale da poter essere configurata, al fine di assoggettarla alla disciplina in materia di continuazione, come sostanzialmente penale. Il rilievo dei controricorrenti, in effetti, non tiene conto del fatto che la fattispecie sanzionatoria prevista dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 258, comma 5, nel testo in vigore all’epoca dei fatti (che prevede una “sanzione amministrativa pecuniaria da duecentosessanta Euro a millecinquecentocinquanta Euro”), non è in alcun modo assimilabile a quelle contemplate dall’art. 187 ter TUF, in tema di manipolazione del mercato, su cui si è pronunciata la Corte EDU nella sentenza del 4/3/2014 (cd. caso Grande Stevens ed altri contro Italia). In effetti, premesso che, secondo la giurisprudenza comunitaria, per stabilire la sussistenza di un’accusa di natura penale, occorre impiegare (in via alternativa e non cumulativa) tre criteri (cd. criteri “Engel”), e cioè la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest’ultima nonché la natura e il grado di severità della “sanzione” (cfr., da ultimo, la sentenza della Corte EDU del 10/12/2020 nella causa “Edizioni Del Roma Società Cooperativa a R.L. e Edizioni Del Roma S.r.l. c. Italia”), risulta evidente che, nel caso in esame: – il criterio della qualificazione della sanzione nel sistema nazionale depone, come visto, inequivocabilmente nel senso della qualificazione delle sanzioni in esame come amministrative; – il criterio della natura della sanzione non offre un risultato univoco poiché, se la sanzione è senz’altro posta a tutela di interessi generali (la piena tracciabilità dell’attività di smaltimento dei rifiuti speciali non pericolosi: cfr. Cass. n. 34038 del 2019, per cui “il rigore formale della normativa ha la funzione di consentire un esatto controllo sulla natura e sulla quantità dei rifiuti trasportati e, così, di garantire una completa tracciabilità di tale attività”) ed ha una funzione non solo ripristinatoria ma anche deterrente, essa, tuttavia, risulta destinata ad una platea ristretta di possibili destinatari, e cioè i soggetti che svolgono le attività di produzione, di trasporto e di smaltimenti dei rifiuti, e ciò limita la generalità della portata della norma; – quanto all’afflittività, la cui valutazione non può essere svolta in termini totalmente astratti ma va necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione sanzionatoria si inserisce (Cass. n. 8046 del 2019; Cass. n. 16518 del 2020, in motiv.), non sembra potersi dubitare che, nell’ordinamento settoriale in cui si colloca la disciplina in materia di rifiuti, una sanzione pecuniaria compresa, come quella in esame, tra il minimo edittale di Euro 260,00 al massimo edittale di Euro 1.550,000, non corredata da sanzioni accessorie, non può ritenersi connotata da una afflittività così spinta da trasmodare dall’ambito amministrativo a quello penale (cfr. Cass. n. 10890 del 2018, in motiv., che, con riguardo ad una “sanzione… avente carattere esclusivamente pecuniario, e tenuto conto dell’importo contenuto della medesima (pari nel massimo edittale a Lire 3.000.000)”, ha ritenuto che “deve escludersi che ricorra un’ipotesi di illecito amministrativo avente però carattere sostanziale di illecito penale, in quanto la previsione in esame non corrisponde ad alcuno dei criteri identificativi della nozione di “pena” in senso convenzionale (c.d. criteri “Engel”) coniati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, dal momento che la violazione commessa non ha natura penale nel diritto interno, non ha funzione punitiva-deterrente nei confronti dell’autore dell’illecito ed è priva del connotato di “speciale” gravità necessario per assimilarla, sul piano della afflittività, a una sanzione penale”).
4.7. E neppure rileva, infine, che, a far data dal 26/9/2020, del D.Lgs. n. 152, art. 258, comma 9 (Ndr: testo originale non comprensibile) nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 116 del 2020, art. 4, abbia previsto che “chi con un’azione od omissione viola diverse disposizioni di cui al presente articolo, ovvero commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione amministrativa prevista per la violazione più grave, aumentata sino al doppio” e che “la stessa sanzione si applica a chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di cui al presente articolo” e che il comma 13 dello stesso articolo, così come introdotto dal D.Lgs. n. 116 cit., abbia stabilito che “le sanzioni di cui al presente articolo, conseguenti alla trasmissione o all’annotazione di dati incompleti o inesatti sono applicate solo nell’ipotesi in cui i dati siano rilevanti ai fini della tracciabilità, con esclusione degli errori materiali e violazioni formali” e che “in caso di dati incompleti o inesatti rilevanti ai fini della tracciabilità di tipo seriale, si applica una sola sanzione aumentata fino al triplo”. Nessun dubbio, in linea di principio, può sussistere in ordine al dovere della Corte di cassazione di fare applicazione dello jus superveniens più favorevole nei casi in cui la statuizione della sentenza di secondo grado in punto di misura della sanzione (o, come nella specie, dei criteri per la sua determinazione) abbia formato oggetto di specifico motivo di ricorso per cassazione: in tal caso, infatti, poiché la statuizione sulla misura (o i criteri di determinazione) della pena viene specificamente censurata in sede di legittimità, tale censura investe la Corte di cassazione del potere-dovere di verificare la relativa conformità alla legge anche sotto profili diversi da quelli dedotti nel mezzo di gravame (cfr. Cass. n. 4522 del 2022). In materia di sanzioni amministrative, pertanto, le norme sopravvenute nella pendenza del giudizio di legittimità che dispongano un trattamento sanzionatorio più favorevole devono essere applicate anche d’ufficio dalla Corte di cassazione: a condizione, tuttavia, che si tratti (a differenza di quanto accade nel caso in esame) di norme dichiaratamente retroattive (e tali, in effetti, non sono, in difetto di un’espressa statuizione in tal senso, quelle sopra trascritte) ovvero (come visto) di sanzioni amministrative a carattere sostanzialmente penale. Al di fuori di tali ipotesi, infatti, non opera, in materia di sanzioni amministrative, il principio della retroattività della lex mitior.
4.8. La Corte costituzionale, del resto, con la sentenza n. 193 del 2016, ha giudicato non fondata una questione di legittimità costituzionale della L. n. 689 del 1981, art. 1, per contrasto con l’art. 3 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, anche in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi, così confermando che, a fronte di illecito amministrativo che non abbia (come quello in esame) natura sostanzialmente penale, non è invocabile il principio del favor rei e, tramite esso, l’applicazione della normativa sopravvenuta più favorevole (Cass. n. 17209 del 2020, in motiv.). La Corte, invero, ha sul punto affermato che, in materia di sanzioni amministrative non è dato rinvenire un vincolo costituzionale nel senso dell’applicazione in ogni caso della legge successiva più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore (nel rispetto del limite della ragionevolezza) modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore in base alle materie oggetto di disciplina (ordinanze n. 245 del 2003, n. 501 e n. 140 del 2002). Quanto, poi, al differente e più favorevole trattamento riservato dal legislatore ad alcune sanzioni, ad esempio a quelle tributarie e valutarie, esso trova fondamento nelle peculiarità che caratterizzano le rispettive materie e non si presta, conseguentemente, a trasformarsi da eccezione a regola (ordinanze n. 245 del 2003, n. 501 e n. 140 del 2002). Tale impostazione, ha aggiunto la Corte, risulta coerente non solo con il principio generale dell’irretroattività della legge (art. 11 preleggi), ma anche con il divieto di applicazione analogica di norme di carattere eccezionale (art. 14 preleggi): comprese, evidentemente, quelle che, a norma della cit. L. n. 689, art. 8, intitolato “più violazioni di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative”, prevedono che solo per le sole violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie (ed in via derogatoria rispetto alla regola generale del cumulo materiale) si applichi il trattamento di maggior favore del cumulo giuridico (e cioè la sanzione per la violazione più grave, aumentata fino al triplo) anche per le ipotesi di concorso materiale eterogeneo. Del resto, ha proseguito la Corte, la scelta legislativa dell’applicabilità della lex mitior limitatamente ad alcuni settori dell’ordinamento non può ritenersi in sé irragionevole. A questo riguardo, va rilevato che la qualificazione degli illeciti, in particolare di quelli sanzionati in via amministrativa, in quanto espressione della discrezionalità legislativa si riflette sulla natura contingente e storicamente connotata dei relativi precetti. Essa giustifica, quindi, sul piano sistematico, la pretesa di potenziare l’effetto preventivo della comminatoria, eliminando per il trasgressore ogni aspettativa di evitare la sanzione grazie a possibili mutamenti legislativi. Il limitato riconoscimento della retroattività in mitius, circoscritto ad alcuni settori dell’ordinamento, risponde, quindi, ha concluso la Corte, a scelte di politica legislativa in ordine all’efficacia dissuasiva della sanzione, modulate in funzione della natura degli interessi tutelati. Tali scelte costituiscono espressione della discrezionalità del legislatore nel configurare il trattamento sanzionatorio per gli illeciti amministrativi e risultano quindi sindacabili dalla Corte costituzionale solo laddove esse trasmodino (ma non è questo il caso) nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione.
5. Il secondo motivo, che lamenta la ritenuta sussistenza del medesimo disegno alla base delle plurime violazioni, risulta, evidentemente, assorbito.
6. Il controricorso, al pari del ricorso incidentale che contiene, è ammissibile: – intanto, perché è ammissibile, pur se privo della sottoscrizione autografa del difensore, il ricorso per cassazione (e, quindi, il controricorso) sottoscritto con firma digitale allorché l’originario ricorso, in formato analogico, e la procura che ad esso accede, entrambi scansionati e firmati digitalmente, siano stati notificati a mezzo posta elettronica certificata e copia cartacea degli stessi, della relata di notifica, del messaggio di posta elettronica certificata e delle ricevute di accettazione e consegna risultino, come nel caso in esame, depositati in cancelleria, unitamente all’attestazione di conformità sottoscritta con firma autografa: tali dette formalità, invero, conferiscono al ricorso (e al controricorso) depositato in cancelleria prova della sua autenticità e provenienza, essendo irrilevante l’assenza di sottoscrizione autografa dell’originario cartaceo e risultando la provenienza dal difensore munito di procura comunque attestata sia dalla procura che ad esso accede sia dalla firma digitale apposta al documento notificato per via telematica (cfr. Cass. n. 19434 del 2019, Cass. n. 23951 del 2020); in secondo luogo, perché la mancata certificazione, da parte del difensore, dell’autografia della firma del ricorrente, apposta sulla procura speciale in calce o a margine del ricorso per cassazione (e quindi, del controricorso), costituisce mera irregolarità, che non comporta la nullità della procura ad litem, perché tale nullità non è comminata dalla legge, né detta formalità incide sui requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell’atto, individuabile nella formazione del rapporto processuale attraverso la costituzione in giudizio del procuratore nominato (Cass. n. 34748 del 2019), salvo che la controparte (ma ciò, nella specie, non è accaduto) non contesti, con valide e specifiche ragioni e prove, l’autografia della firma non autenticata (Cass. n. 27774 del 2011).
7. Con il primo motivo di ricorso incidentale, i controricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 137 ss e 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui non ha considerato che le ordinanze ingiunzione erano state notificate non all’indirizzo dei trasgressori ma presso lo studio del difensore e che i trasgressori avevano eletto domicilio presso quest’ultimo solo per la fase amministrativa e non anche per quella giudiziale, tanto più che l’elezione di domicilio, della quale manca la prova, è illegittima ai fini sanzionatori. Tale notificazione, del resto, hanno aggiunto i controricorrenti, non ha raggiunto il suo scopo poiché non l’opposizione non è stata esaustiva ed, in ogni caso, non ha impedito, avendo operato ex nunc, e cioè al momento del deposito del ricorso, la decorrenza del termine quinquennale di prescrizione.
8. Il motivo è infondato. Escluso, invero, ogni rilievo alle questioni (come la mancanza di prova dell’elezione di domicilio) delle quali la sentenza impugnata non tratta, rileva la Corte che non può essere contestata la facoltà per l’Amministrazione di provvedere alla notifica dell’ordinanza anche presso il domicilio eletto nella fase che ha preceduto l’adozione del provvedimento opposto, alla luce del principio affermato da questa Corte (Cass. n. 18812 del 2014; Cass. n. 28829 del 2020, in motiv.) secondo il quale l’elezione di domicilio effettuata ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 18, nel procedimento amministrativo che prelude all’emanazione dell’ordinanza ingiunzione, sebbene non produca effetti nel successivo procedimento contenzioso, nel silenzio della legge, dev’essere ricondotta all’ambito di disciplina di cui all’art. 141 c.p.c., e non a quella di cui all’art. 170 c.p.c., con la conseguenza che il domicilio eletto rappresenta un luogo di possibile notificazione dell’ordinanza-ingiunzione come scelta facoltativa e non obbligatoria.
9. Con il secondo motivo di ricorso incidentale, i controricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 18 e 28 e della L. n. 241 del 1990, art. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato le eccezioni di prescrizione della pretesa sanzionatoria e di tardività dell’ordinanza ingiunzione, senza, tuttavia, considerare che: – a fronte di fatti risalenti al 2009, le ordinanze ingiunzione sono state emesse soltanto nel mese di luglio del 2015, vale a dire, in mancanza tra i documenti di causa di atti della Città Metropolitana ad efficacia interruttiva, oltre la scadenza del termine di cinque anni previsto dalla cit. L. n. 689, art. 28; – i provvedimenti ingiuntivi sono tardivi per decorso del termine perentorio di novanta giorni fissato dalla L. n. 241 del 1990, art. 2, per la conclusione del procedimento amministrativo.
10. Il motivo è infondato. La corte d’appello, dopo aver accertato che, nel marzo del 2011, l’Arpat aveva provveduto alla contestazione delle violazioni (v. la sentenza impugnata, p. 2), ha correttamente ritenuto, sulla base di tale apprezzamento fattuale, non censurato per l’omesso esame di fatti decisivi emergenti dagli atti del giudizio, che tale atto ha avuto l’effetto di interrompere il decorso del termine quinquennale di prescrizione. In effetti, premesso che la L. n. 689 del 1981, non contiene l’espressa previsione del termine per l’emissione dell’ordinanza-ingiunzione e che a tal fine trova applicazione il termine quinquennale di cui alla cit. L. n. 689, art. 28, ancorché detta norma faccia letteralmente riferimento al termine per riscuotere le somme dovute per le violazioni (Cass. n. 17526 del 2009; conf., Cass. n. 21706 del 2018), rileva la Corte che, in tema di sanzioni amministrative, la notifica al trasgressore del processo verbale di accertamento della infrazione è idonea a costituire in mora il debitore ai sensi dell’art. 2943 c.c., atteso che ogni atto del procedimento previsto dalla legge per l’accertamento della violazione e per l’irrogazione della sanzione ha la funzione di far valere il diritto dell’amministrazione alla riscossione della pena pecuniaria e costituisce esercizio della pretesa sanzionatoria (Cass. n. 14886 del 2016; Cass. n. 28238 del 2008). Quanto al resto, non può che ribadirsi che la disciplina generale in tema di sanzioni amministrative, come delineata dalla L. n. 689 del 1981, non fissa il termine per l’emissione dell’ordinanza-ingiunzione, senza, peraltro, che a tale mancanza possa ovviarsi applicando il termine, peraltro non perentorio, previsto per la conclusione del procedimento amministrativo dalla L. n. 241 del 1990, art. 2 (originariamente trenta giorni, poi novanta a seguito della modifica apportata dal D.L. n. 35 del 2005, conv. dalla L. n. 80 del 2005), in quanto la L. n. 689 cit., costituisce un sistema di norme organico e compiuto e delinea un procedimento di carattere contenzioso in sede amministrativa, scandito in fasi i cui tempi sono regolati in modo da non consentire, anche nell’interesse dell’incolpato, il rispetto di un termine così breve (Cass. n. 21706 del 2018; conf., Cass. n. 17526 del 2009).
11. Con il terzo motivo di ricorso incidentale, i controricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 3 e degli artt. 1392 e 1703 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto la sussistenza della colpevolezza dei trasgressori pur a fronte di una delega scritta, senza, tuttavia, considerare che, a fronte della delega scritta del produttore e ferma restando la responsabilità dello stesso, non era addebitabile al delegato alcuna negligenza per aver operato in nome e per conto del delegante. D’altra parte, hanno aggiunto i controricorrenti, il formulario può essere compilato anche dal trasportatore e che la norma non vieta che la sua sottoscrizione possa essere effettuata anche dal delegato. In ogni caso, in mancanza di una base normativa definita, non sussiste alcuna colpa attesa l’ignoranza inevitabile.
12.1. Il motivo è in parte inammissibile e per il resto infondato. I controricorrenti, in effetti, non hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, dopo aver affermato, in diritto, che “al trasportatore non può essere delegato il compito proprio del produttore del rifiuto”, ha rilevato, con apprezzamento in fatto rimasto del tutto incensurato, che, in ogni caso, “la delega aveva ad oggetto (solo) la compilazione e non (anche) la sottoscrizione” dei formulari, che, pertanto, ad onta di quanto ora sostenuto dai controricorrenti, rimaneva in capo al produttore, e cioè Cavet, ed era, in ogni caso, “conferita alla sola srl V. e non ai vari sottoscrittori che si sono succeduti”. Ed e’, invece, noto che, ove la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. SU n. 7931 del 2013).
12.2. D’altra parte, il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 259, in tema di obblighi di comunicazione e di tenuta dei registri obbligatori e dei formulari, nella formulazione applicabile ratione temporis, al comma 4, sanziona chiunque “effettua il trasporto di rifiuti senza il formulario di cui all’art. 193, ovvero indica nel formulario stesso dati incompleti o inesatti”; l’art. 259, comma 5, stabilendo una sanzione in misura ridotta, contempla dapprima l’ipotesi in cui siano formalmente incomplete o inesatte le indicazioni di cui ai commi 1 e 2, quanto alla prescritta comunicazione o alla tenuta del registro di carico e scarico, e poi la fattispecie in cui le indicazioni di cui al comma 4, inerenti al formulario, siano formalmente incomplete o inesatte, ma contengano comunque tutti gli elementi per ricostruire le informazioni dovute per legge. Nel formulario di identificazione di cui al cit. D.Lgs. n. 152, art. 193, che deve accompagnare i rifiuti durante il trasporto, devono risultare “almeno i seguenti dati”: a) nome ed indirizzo del produttore e del detentore; b) origine, tipologia e quantità del rifiuto; c) impianto di destinazione; d) data e percorso dell’istradamento; e) nome ed indirizzo del destinatario. La norma, al comma 2, nel testo in vigore ratione temporis, aggiunge che “il formulario di identificazione di cui al comma 1 deve essere redatto in quattro esemplari, compilato, datato e firmato dal produttore o dal detentore dei rifiuti e controfirmato dal trasportatore. Una copia del formulario deve rimanere presso il produttore o il detentore e le altre tre, controfirmate e datate in arrivo dal destinatario, sono acquisite una dal destinatario e due dal trasportatore, che provvede a trasmetterne una al detentore. Le copie del formulario devono essere conservate per cinque anni”.
12.3. I formulari di identificazione rifiuti, contenuti nel D.M. 10 aprile 1998, n. 145 (v. l’allegato B), che continuano ad applicarsi (v. dell’art. 193 cit., comma 5), prescrivono, invero, che lo stesso debba essere distintamente sottoscritto sia dal produttore/detentore, che dal trasportatore e, infine, dal destinatario. L’omessa sottoscrizione, nel formulario di identificazione, del produttore dei rifiuti, elude, pertanto, il rigore formale della normativa la quale, pertanto, non consente, come invece pretendono i controricorrenti, la sua sostituzione con quella di un delegato, specie se, come nel caso in esame, si tratti del trasportatore o del destinatario dei rifiuti, trattandosi di una norma che ha la funzione di garantire non solo una completa tracciabilità (oggettiva e soggettiva) di tale attività ma anche di assicurare la piena responsabilizzazione dei soggetti coinvolti nella gestione del ciclo dei rifiuti, come, in effetti, è previsto dal cit. D.Lgs. n. 152, art. 178, comma 3, a norma del quale “la gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione, di prevenzione, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nel rispetto dei principi dell’ordinamento nazionale e comunitario, con particolare riferimento al principio comunitario “chi inquina paga”. A tal fine la gestione dei rifiuti è effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità e trasparenza”.
12.4. Per il resto, il principio posto dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 (secondo il quale, per le violazioni sanzionate in via amministrativa, è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva od omissiva, sia essa dolosa o colposa) postula una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, non essendo necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di aver agito senza colpa. L’esimente della buona fede, intesa come errore sulla liceità del fatto (applicabile anche in tema di illecito amministrativo disciplinato dalla citata L. n. 689 del 1981), assume, tuttavia, rilievo solo in presenza di elementi positivi idonei ad ingenerare, nell’autore della violazione, il convincimento della liceità del suo operato, purché tale errore sia incolpevole ed inevitabile siccome determinato da un elemento positivo (del quale, tuttavia, non emerge in alcun modo l’evidenza istruttoria) idoneo ad indurlo in errore ed estraneo alla sua condotta, non ovviabile con ordinaria diligenza o prudenza (Cass. n. 11012 del 2006). In tema di sanzioni amministrative, in effetti, con riferimento alla sussistenza del relativo elemento soggettivo, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 3, l’errore sulla illiceità del fatto, per essere incolpevole, deve trovare causa in un fatto scusabile, situazione questa che se può rinvenirsi in presenza di atti o circostanze positive tali da ingenerare una certa convinzione sul significato della norma, certamente non può essere identificata nella mera asserita incertezza del dettato normativo, specie se causata da una errata soggettiva percezione dello stesso, trattandosi di condizione sempre superabile, anche mediante una richiesta di informazioni alla P.A.. E ciò tanto più ove l’ignoranza interessi un operatore professionale, cioè un soggetto nei cui confronti il dovere di conoscenza e di informazione in ordine ai limiti e condizioni del proprio operare è particolarmente intenso, con l’effetto che la sua condotta, sotto il profilo considerato, dovrebbe semmai essere valutata con maggior rigore (Cass. n. 21779 del 2006). Deve, pertanto, escludersi l’ignoranza inevitabile (nei sensi di cui alla sentenza della Corte Cost. n. 364 del 1988, applicabile in materia di sanzioni amministrative in base alla L. n. 689 del 1981, art. 3) delle norme previste dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 193, la cui violazione è stata contestata agli opponenti, atteso che la colpa, come requisito sufficiente ad integrare l’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo, è normalmente presunta e l’eventuale ignoranza della illiceità della condotta ovvero l’errore sulla liceità del fatto devono risultare inevitabili ed incolpevoli, secondo i canoni della normale diligenza, occorrendo, a tal fine, che siano stati indotti da elementi positivi esterni o da informazioni ed atti provenienti da soggetti qualificati e dovendosi tenere conto, in concreto, dei doveri di conoscenza del soggetto che adduca l’assenza di colpa, sul quale, in relazione all’attività professionalmente svolta, in un settore regolato da particolari prescrizioni di legge (come è senz’altro la produzione, il trasporto o lo smaltimento di rifiuti speciali), gravano obblighi specifici di informazione sicuramente maggiori dell’obbligo generico gravante sulla generalità dei cittadini (cfr. Cass. n. 23621 del 2006; Cass. n. 6707 del 2011).
13. Il ricorso incidentale e’, quindi, infondato e dev’essere, quindi, rigettato.
14. Il ricorso principale, invece, dev’essere accolto, limitatamente al primo motivo, e la sentenza impugnata, per l’effetto, cassata con rinvio, per un nuovo esame, alla Corte d’appello di Firenze che, in differente composizione, provvederà anche a liquidare le spese del presente giudizio.
15. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte così provvede: accoglie il primo motivo del ricorso principale e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata con rinvio, per un nuovo esame, alla Corte d’appello di Firenze che, in differente composizione, provvederà anche a liquidare le spese del presente giudizio; dà atto, ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dallaL. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 16 marzo 2022.
Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2022
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Diritto Internazionale Dottrina Fascicoli Fascicolo n.3/2022
TRA GUERRA E PACE
LA TEORIZZAZIONE DEI CONFLITTI IN AMBITO INTERNAZIONALE.
Sergio Benedetto Sabetta
Si è discusso se alla base del sorgere della guerra vi sia il venire meno di un equilibrio di potenza necessario di per sé in una buona distribuzione della potenza tra Stati, la guerra diventa quindi una delle modalità di transizione del potere in cui pressione demografica e incremento tecnologico ne costituiscono la base (Choucri, North), sia l’impostazione classica liberale che quella marxista fanno poi riferimento alla matrice economica la quale, se non può essere individuata come elemento esclusivo, non può tuttavia essere diminuita, questioni territoriali e commerciali si intrecciano strettamente diventando facilmente terreno per nazionalismi di ideologie.
In psicologia la guerra è il riflesso della lotta che vi è nell’essere umano tra creazione-conservazione (Eros) e distruzione (Thanatos), ma è anche una forma di emersione dall’anonimato, di affermazione eroica del sé sulla moltitudine, in questo la natura crea la selezione che si trasforma in invenzione culturale nell’organizzazione sociale che la mantiene quale efficace selezione per i vantaggi che porta al vincitore, secondo una visione etologica.
Nella pretesa affermazione di dichiarare la guerra “giusta” o guerra “santa”, la giustizia umana non deve essere sovrapposta alla pretesa santità, vi possono essere guerre “sante” in cui la natura umana non rileva alcuna giustizia e si ricorre pertanto all’imperscrutabile volontà divina che di per sé dichiara giusta la violenza propria della guerra.
Già nell’età classica si è teso a limitare l’uso bellico, almeno sul piano morale, dichiarandolo extrema ratio a cui ricorrere solo per legittima difesa o per respingere un torto, la quale necessita che sia formalmente dichiarata evitando aggressioni improvvise e forme di crudeltà inutili secondo la cultura del tempo (Cicerone), ma è con Grozio che si ha la proceduralizzazione della guerra mediante la sua ritualizzazione nella dichiarazione, egli assimilando la guerra ad un processo collega la nozione di guerra “giusta” al concetto di “pubblica” ossia dichiarata ritualmente dall’autorità riconosciuta, si ha per tale via il distacco definitivo dal giudizio morale tomistico che ancora in Francisco de Vitoria esisteva, mettendo le basi per il futuro diritto bellico internazionale.
La drammatica esperienza delle due guerre mondiali nel corso del ‘900 ripropone la necessità di limitare il ricorso all’azione bellica e si tenta pertanto di rilanciare il concetto di guerra giusta, quale reazione non tanto ad una generica offesa quanto a precisi obblighi giuridici pubblicamente riconosciuti in ambito internazionale e pertanto incardinati in precisi soggetti (Kelsen e Walzer).
Una autodifesa, ma anche una rivendicazione per diritti violati non solo da parte della vittima ma anche di qualsiasi altro “membro della società internazionale” (Walzer), si tenta pertanto di riportare la violenza bellica nell’ambito del diritto internazionale, facendo forza su una costituita rete giuridica fra Stati di cui l’ONU dovrebbe esserne la massima espressione e garanzia.
Già la IV Convenzione dell’Aja del 1907, prevede all’art. 4 del Regolamento allegato la tutela dei prigionieri di guerra, collegando la protezione degli stessi alla formale “dichiarazione di guerra” con la conseguente reciproca individuazione dei corpi armati, come codificato dall’art. 1 della III Convenzione dell’Aja del 1907.
Tuttavia la prassi nata dalle vicissitudini del ‘900 ha fatto sì che si abbandonasse la concezione della necessità di una formale dichiarazione di guerra, per passare al concetto più elastico di “stato di guerra” basato sul semplice compimento di atti ostili, principio che ha ricevuto formale consacrazione nella II Convenzione di Ginevra del 1949, nella quale si dichiarano applicabili le disposizioni ivi contenute anche in assenza di una formale dichiarazione di guerra, principio ripreso dall’art. 22 del codice penale militare di guerra italiano.
L’art. 23 del Regolamento allegato alla IV Convenzione dell’Aja del 1907 vieta espressamente l’offesa al nemico che “si è arreso a discrezione”, mentre la III Convenzione di Ginevra del 1949 impone esplicitamente un trattamento umano ai prigionieri, vietandone sia lo spoglio dei beni personali che l’uso nei loro confronti di rappresaglie, questa cornice legale ha cercato di imbrigliare la violenza bellica entro confini ben definiti, ottenendo un minimo di garanzie inderogabili che tuttavia fanno riferimento ad una lotta fra Stati senza considerare l’estrema ipotesi di una lotta per la sopravvivenza.
Il diffondersi nella seconda metà del secolo scorso e agli inizi del nuovo di conflitti atipici e di organizzazioni non sempre strutturate in termini statali ha tuttavia talvolta messo in difficoltà l’attuazione di tali principi, anche se la giurisprudenza nazionale, come nel caso della sentenza n. 28 del 28/10/2013 della 2° Sez. del Tribunale militare di Roma per i fatti di Cefalonia svoltisi nel settembre 1943, ha sottolineato la responsabilità individuale per ordini manifestamente criminosi eseguiti nonostante la loro evidente contrarietà alla legge per una qualsiasi normale persona, non potendo essere una discriminante il rapporto gerarchico militare che impone l’obbedienza (Cass. 16/11/1998, n. 12595), e tale responsabilità si estende all’adesione all’altrui azione criminosa con il semplice rafforzamento con la volontà di esecuzione a un tale disegno criminoso.
Nella ricerca del rapporto di causalità ci si è spinti a considerare colpevoli tutti gli appartenenti ad un determinato reparto militare per il solo fatto di possedere un forte spirito di corpo, considerando quasi inevitabile una qualsiasi collaborazione e per tale via potendo invertire pericolosamente l’onere della prova.
Se per la teoria “idealistica” è il dubbio e l’ignoranza che crea le premesse per la guerra, nella teoria “realistica” è nell’anarchia degli Stati che risiede la causa dei conflitti per cui vi è la necessità di un governo sovranazionale o almeno di una corte di giustizia, è pur vero che la storia ha dimostrato essere i governi democratici meno inclini ad aggressioni, ma dove vi è una più forte politica di potenza maggiore è il rischio del fenomeno della guerra (Bobbio), venendo giustificata la guerra dal suo stesso buon esito, come dice Zarathustra “ è la buona guerra che rende santa qualsiasi causa” (Nietzsche).
Le guerre da esterne tra Stati si sono sempre più negli ultimi tempi trasformate in guerre civili entro lo Stato, addirittura in assenza di un potere centrale da conquistare (Singer), questo rende i conflitti sempre meno governabili secondo regole internazionali, imprevedibili sia nel sorgere che nelle sue dinamiche, difficili da distinguere nella loro ambiguità dalla semplice violenza endemica, con una sempre più ampia “privatizzazione” in atto, con l’arruolamento di volontari da parte di agenzie private che agiscono per conto terzi, nuove compagnie di ventura, così da sfuggire al controllo tanto del diritto internazionale che dell’opinione pubblica, in grado di impegnarsi per periodi prolungati in conflitti diffusi e di intensità irregolare.
La guerra diventa sempre più autoreferenziale (Bonante), inoltre la crescente complessità informatica e interdipendenza di sistemi ha introdotto la possibilità di distruzioni apparentemente soft ma nella realtà pesantemente incidenti, attraverso attacchi informatici tesi al blocco di sistemi produttivi e di servizi con la conseguente creazione di caos e disgregazione dell’organizzazione sociale, l’evoluzione in atto rende così attualmente sempre più sfuggente la governabilità giuridica dei conflitti.
La difficoltà di una formazione tesa a controllare l’attività bellica la si può osservare nei fallimenti che si hanno avuto nel rivitalizzare le funzioni dell’ONU quale centro di soluzioni di eventuali crisi, come nel caso dell’aide-mémorie presentato da Mosca in occasione della 43° Assemblea generale con il titolo “Verso una sicurezza globale attraverso il rafforzamento del ruolo delle Nazioni Unite”, in cui si auspicava un maggiore utilizzo di osservatori militari ONU e delle Forze di pace, meccanismi di consultazioni ufficiali e ufficiosi del Consiglio di sicurezza, crescente numero di decisioni per “consensus” dell’Assemblea generale e più ampi poteri da conferire al Segretario generale.
Il tentativo di umanizzare i conflitti crea anche nuovi mezzi di lotta come l’uso strumentale dei flussi migratori quale elemento di pressione, dove facilità di diffusione delle informazioni e progressivo contenimento dei costi di trasporto permette di spostare rapidamente grosse masse umane, le quali come onde d’urto vengono a modificare strutture e sentimenti negli Stati investiti.
Preston e Wise nel loro saggio “Storia sociale della guerra” osservano “come la limitazione non può essere mai assoluta, così anche la totalità di una guerra è un concetto relativo e non assoluto.[ ….] Il conquistatore non desidera trovare ai suoi piedi un lazzaretto oppresso dalla pestilenza” (22-23, Mondadori 1973), d’altronde Toynbee nel suo saggio “Study of history” dimostra essere stata la guerra la causa immediata del crollo di ogni civiltà del passato.
Una valutazione compensativa alle affermazioni della scuola “costruttiva” sui contributi dati dalla guerra all’evoluzione sociale (Mumford ), dove all’opposto si afferma che sono le limitazioni imposte alla stessa che hanno favorito il progresso tecnico e sociale (Nef), in questo due categorie morali si riallacciano indirettamente alle posizioni esposte traducendosi in considerazioni giuridiche: le “utilitariste” e quelle “assolutiste”, mentre le prime si concentrano su quello che accadrà le seconde su quello che si fa.
Nell’utilitarismo si cerca di massimizzare il bene minimizzando il male, circostanza che conduce alla possibile scelta tra un male maggiore e un male minore, per tale via si giunge a giustificare possibili restrizioni considerando gli effetti negativi a lungo termine nonostante i possibili immediati benefici.
L’assolutismo viene a porsi come limitazione al ragionamento utilitarista introducendo il concetto di “soglia” entro la quale è proibita l’azione dannosa, le restrizioni assolutiste che si risolvono in divieti morali traslati in atti giuridici vengono da Nagel individuati in due tipi: “restrizioni sulla classe di persone a cui l’aggressione e la violenza possono essere dirette, e restrizioni sul modo dell’attacco” (108, T. Nagel, Guerra e massacro, in Questioni mortali, Il Saggiatore 2015), esse rapportano in funzione della persona verso cui è diretta l’azione aggressiva in termini adeguati allo scopo, il negare l’umanità della persona, non distinguendola dal combattente, si pone pertanto oltre l’utilitarismo stesso, si ha quindi un crimine di guerra.
Nel limitare in termini assolutisti gli obiettivi legittimi e il carattere dell’ostilità stessa, si pongono alcuni problemi, il primo dei quali è la linea di distinzione tra combattenti e non combattenti, il secondo è la formulazione del concetto di “innocente”.
Nel primo caso la distinzione avviene sulla capacità immediata di minaccia o nocività fondata sull’uso delle armi, circostanza che allarga il concetto di combattente a coloro che provvedono a produrre e fornire le armi stesse.
Il secondo problema viene quale conseguenza a interpretarsi in senso opposto, come colui che è “dannoso”, individuando l’innocenza nell’essere innocuo e la colpevolezza nella dannosità.
Si deduce un ulteriore distinzione tra l’agire per armare il combattente e l’agire per “la sua esistenza in quanto essere umano” (118, Nagel), in questo vi è il tentativo ultimo di limitare moralmente e quindi giuridicamente l’uso della violenza bellica uscendo dalla sua ideologizzazione sia laica che religiosa.
Osserva Ritter, “Uomo di Stato nel senso più alto è soltanto colui nel quale la consapevolezza della sua indiscutibile responsabilità non può essere turbata dalla volontà di potenza né da un trionfo o da una sconfitta nella lotta per il potere: responsabilità che riguarda la creazione, la conservazione e il consolidamento di un ordine sociale autentico e quindi durevole. E’ propria del pensiero dell’uomo di Stato, perciò, anche la consapevolezza del carattere eccezionale della situazione di lotta e quindi dei limiti da imporre alla lotta, il cui superamento conduce alla distruzione di valori morali permanenti e non più ricostituibili, e quindi alla disumanizzazione degli stessi combattenti”.
L’ordine deve tendere nel limitare la lotta, se non a una “società che viene sentita come vera società morale, non come mera società imposta”, essendo la giusta ragione di Stato una ragione morale in cui necessita, accanto alla conoscenza della realtà e alla visione politica, una precisa consapevolezza della responsabilità morale, così che si superi “l’insolubile antinomia tra lotta per il potere e ordine pacifico” e il potere riceve la sua giustificazione morale (12-13, G. Ritter, Introduzione in I militari e la politica nella Germania moderna, Vol. 1, G. Einaudi Ed., 1967).
TRA GUERRA E PACE Dal XVII al XXI secolo IL CONCETTO MODERNO DI GUERRA NEL DIRITTO INTERNAZIONALE. Sergio Benedetto Sabetta Indice Premessa Cenni storici Il concetto di guerra giusta nel XX secolo Guerre non […]
Diritto Internazionale Dottrina Fascicoli Fascicolo n.3/2022
TRA GUERRA E PACE
Dal XVII al XXI secolo
IL CONCETTO MODERNO DI GUERRA NEL DIRITTO INTERNAZIONALE.
Sergio Benedetto Sabetta
Indice
Premessa
Cenni storici
Il concetto di guerra giusta nel XX secolo
Guerre non convenzionali
Considerazioni finali.
PREMESSA
Nel nuovo concetto di guerra rientra anche, seppure indirettamente, l’attuale pandemia, la quale nel sconvolgere gli equilibri accelera le dinamiche in atto, diventando da evento naturale un’arma, come nell’assedio di Caffa in Crimea da parte dei tartari che causarono la “peste nera” in Europa o la pandemia nel IV secolo d.C. nell’Impero romano portato dalle legioni che tornavano dall’Oriente che indebolirono il tessuto sociale fondato sulle città, trasferendo il baricentro nelle campagne e favorendo indirettamente le tribù germaniche le quali vivevano disperse in villaggi su territori semi abitati.
Indirettamente la guerra diventa quindi anche una guerra ideologica fondata sulla comunicazione, dove sanità ed economia si intrecciano strettamente con i fatti più strettamente bellici.
CENNI STORICI
Un aforisma accademico inglese recita “La guerra ha fatto lo Stato, e lo Stato fa la guerra”. Esso appare paradossale all’uomo occidentale, ormai abituato a istituzioni benevole e molto attente al concetto di pace, così divenute dopo un lungo e travagliato processo storico.
Uno dei risultati più evidenti della nascita degli Stati moderni nel XVII secolo fu la codifica della guerra. Dopo i massacri delle guerre di religione il formalismo giuridico, nello sforzo di disciplinare l’uso della forza sul piano internazionale, introdusse il concetto di “bellum utrimque justum”, tale fu il risultato della ricerca di una base legale alternativa su cui fondare le relazioni tra Stati.
Una valutazione lasciata alle Cancellerie di Stati sovrani relativamente alla legittimità delle pretese proprie e altrui, ma che non impediva il riconoscimento delle pretese legittime degli altri Stati in lotta, con l’introduzione, quindi, della differenziazione tra nemico “formalmente giusto” e nemico “criminale o pirata”. Ciò significò che gli Stati divenissero entità estranee a valutazioni morali ma dedite esclusivamente al proprio interesse, cioè quello Stato sovrano amorale anticipato da Machiavelli e inteso come “macchina da guerra”-
Nel venire meno di una stabile autorità spirituale superiore, che potesse essere arbitro sulla legittimità o meno di uno scontro e potesse imporre delle regole di limitazione alla violenza della guerra, la possibilità di un riconoscimento reciproco prima dello scontro ne introduceva un fattore di limitatezza, come le procedure di trattativa, le regole sui prigionieri o, più in generale, il mantenimento dei propri diritti di dignità.
La rivoluzione francese reintroduce un elemento che inasprisce lo scontro, delegittimando gli avversari, prototipo di quello che accadrà in alcuni casi del XIX secolo, come la Comune, ma ancor più nel ‘900, l’ideologia, che nella sua sacralizzazione riporterà la Storia alla ferocia delle guerre di religione.
Le campagne napoleoniche ne saranno un anticipo, nella ferocia delle devastazioni, che raggiungeranno il culmine nella campagna di Spagna, così ben ritratta dal Goya.
Lo “justus hostis” nega la possibilità dell’annientamento di un nemico che domani potrà essere alleato, viene pertanto meno la “justa causa” teologica per iniziare una guerra, non essendovi autorità morali superiori a cui riferirsi.
Con il Congresso di Vienna ( 1815), dopo gli orrori delle guerre napoleoniche, si creò un sistema europeo, che riuscì ad evitare conflitti per un cinquantennio.
Su questa linea la Convenzione internazionale dell’Aja diede vita ad una Corte internazionale di arbitrato e tentò di porre un limite agli armamenti, a cui seguì una seconda Convenzione nel 1907, ma la terza programmata per il 1915 venne annullata dalla Grande Guerra.
IL CONCETTO DI GUERRA GIUSTA NEL XX SECOLO
Nel XX secolo all’ideologia quale causa di conflitti, si aggiunge la crescente potenza della tecnologia e l’intervento nei conflitti europei di una potenza industriale di matrice europea, ma esterna al continente, che viene a dissolvere lo “jus publicum europeum”, affiancandosi involontariamente all’ideologia dissolutrice della “nuova Russia socialista”.
Causa ultima di un ritorno alla giusta causa del “bellum justum” è la stessa Europa, in cui il continuo rilancio verso una guerra totale, tesa ad una vittoria totale, vedasi il caso della guerra sottomarina totale tedesca del 1917, porta alla dissoluzione etica dello “jus pubblicum europeum”.
Nasce l’idea di Wilson della dottrina del “bellum justum”, conseguenza ultima della guerra totale e della sua demonizzazione del nemico, circostanza aggravata dall’essere il mondo in quella fase storica eurocentrica. Anche il proposito di legare il territorio alla nazionalità quale metro per la formazione dei nuovi confini statali, fu solo un espediente per raggiungere fini che oggi definiremmo geopolitici e di cui fece le spese l’ Italia.
Tuttavia la teoria del “bellum justum” presuppone l’esistenza di una autorità morale superiore che funga da giudice, nonché di una serie di norme che nel regolare i rapporti permettano di dichiarare giusto l’intervento per reprimere una loro violazione.
La concezione universalistica wilsoniana fa sì che coloro che violino le norme diventino banditi, fuorilegge, pirati e come tali trattati.
Vi è pertanto la necessità di creare un organo superiore che amministri e regoli i rapporti fondamentali tra Stati, non essendovi più l’autorità morale del pontefice romano propria della repubblica cristiana in cui Imperatori, principi e comuni si riconoscevano.
La Società delle Nazioni e l’ONU sono il prodotto dell’originale concezione cosmopolita wilsoniana, a cui si aggiunge, sempre in termini universalistici, per tutto il ‘900, l’autorità che si arroga l’URSS in campo socialista, quale casa madre primigenia. Dopo il 1945 si passò da cinquanta ad oltre centocinquanta Stati indipendenti, molti dei quali attraverso insurrezioni e guerre con successive ambizioni belliche, un risultato non molto brillante nel controllo dei conflitti.
La violenza e l’ampiezza del conflitto, che la moderna tecnica permette, fa sì che la trasformazione da conflitto inter-statale a lotta per l’esistenza, dà voce alle più estreme teorie nazionaliste, etniche e di lotta sociale.
Tutti i fantasmi che si erano formati nell’Ottocento emergono, rafforzandosi a vicenda, giustificando per tale via la teoria wilsoniana, quale tentativo di riportare gli Stati ad una convivenza regolata giuridicamente.
La richiesta all’art. 227 del Trattato di pace di processare il Kaiser ed alcuni altri esponenti politici e militari tedeschi quali criminali di guerra, sebbene non abbia avuto seguito, pone le basi per i successivi processi ai criminali di guerra della II Guerra Mondiale e delle guerre balcaniche e medio-orientali a cavallo tra XX e XXI secolo.
Scelle sottolinea che in un sistema quale quello della Società delle Nazioni la guerra non ha più spazio giuridico, perché se giusta non è più guerra ma solo operazione di polizia internazionale, se ingiusta è solo un crimine e come tale deve essere trattato.
Giustamente osserva Schmitt che la coerenza di un sistema teorico giuridico non è determinata da una sola idea, bensì dal collocare adeguatamente un concetto entro un sistema di concetti.
Nasce tuttavia il problema dello “Stato terzo”, ossia di colui che non aderendo alla Società delle Nazioni non rinuncia all’autonomia del proprio giudizio sulla guerra intrapresa, né potrebbe essere giudicato con i parametri di una organizzazione internazionale a cui non aderire.
Churchill avvertiva la pericolosità di un Tribunale dei vincitori, composto e diretto dai vincitori, e ne aveva espresso le perplessità, anche giuridiche, con l’osservazione che nella prossima guerra si poteva essere dall’altra parte!
Considerata di per sé giusta una guerra di legittima difesa, circostanza che porta ad una netta distinzione dalle guerre giuste e dalle guerre sante, Walzer ammette tra le guerre giuste oltre all’autodifesa la rivendicazione di un proprio diritto violato. Resta tuttavia il problema dell’esistere o meno del diritto violato, che può talvolta essere dubbio, senza che tuttavia possa esservi un riconoscimento da una autorità etica superiore universalmente riconosciuta.
GUERRE NON CONVENZIONALI
Altre forme di guerra sono le guerre civili, dove il nemico perde umanità acquisendo aspetti demoniaci e con essi i diritti, non vi sono più i limiti delle relazioni tra Stati ed i rischi crescono con il crescere delle forme autoritarie di governo, dove gli esseri sono mezzi e non fini.
Le aumentate relazioni economiche diminuiscono il pericolo delle crisi militari, senza tuttavia eliminarlo, non potendo escludere la sempre possibile “politica di potenza”.
La stessa “intensità” della guerra varia con l’introduzione delle nuove tecnologie, dove può esservi e consumarsi un attacco strisciante, difficilmente individuabile come una classica guerra, l’opinione pubblica attraverso i nuovi mezzi di comunicazione di massa risulta essere facilmente manipolabile, come i sistemi di controllo degli Stati avanzati risultano possedere una propria fragilità paralizzante e tale da destrutturare gli stessi.
Gli attacchi risultano difficilmente identificabili, in una riedizione di guerra asimmetrica, tutti i possibili vecchi parametri risultano insufficienti se non svuotati, né organizzazioni sovranazionali sono in grado di produrre un qualsiasi giudizio.
Come si manifestano guerre condotte per interposta persona da gruppi privati assoldati per l’occasione, secondo una riedizione moderna delle compagnie di ventura del XIV e XV secolo. Tale evoluzione annulla il significato dell’aforisma citato all’inizio, in quanto, mentre un tempo non esisteva uno Stato senza un esercito, oggi, come nel caso dei mongoli nel Medio Evo, esistono eserciti senza Stato ( almeno ufficialmente) e Stati “autoproclamati”.
Il venire meno della divisione del mondo in due blocchi ed il contemporaneo accrescersi di accordi multilaterali che hanno dato vita a nuove organizzazioni sovranazionali, hanno permesso di consacrare definitivamente la sacralizzazione della guerra.
L’autorità etica medievale del pontefice romano è rinata, trasferendosi nella superpotenza rimasta al termine della Guerra fredda che, nume tutelare per peso economico, tecnologico e morale delle organizzazioni internazionali, determina la scomunica degli Stati definiti “canaglia”, a cui può pertanto non applicarsi lo “jus bellum” del “nemico giusto”.
CONSIDERAZIONI FINALI
La conseguenza ultima di questo processo del ‘900, iniziato con la Grande Guerra, è la perdita della “proceduralizzazione” della guerra, ossia di quegli atti amministrativi di politica internazionale che, nel confermare l’esistenza di un reciproco riconoscimento, permettevano di incanalare laicamente la violenza bellica.
La violenza della Grande Guerra, la sua estensione nello spazio e nel tempo, costrinsero a sacralizzare il sacrificio, identificando i caduti con il corpo mistico della Nazione, ma la Nazione non è sempre coincidente con lo Stato, neppure in relazione con i nuovi Stati voluti da Wilson.
Questo condusse a distinguere tra “giusti” e “ingiusti”, tra coloro che perseguendo il bene adempivano ad una volontà superiore e coloro che lo negavano, la guerra da “giusta” si sacralizzava in una guerra dai caratteri “santi”; così che l’aspetto eucaristico che la Nazione e i suoi alleati vivevano attraverso la guerra demonizzava il nemico, tanto che una volta sconfitto questi doveva fare opera di contrizione e scontare i suoi peccati per una possibile futura redenzione.
D’altronde è pur vero che il violare sistematico delle regole procedurali internazionali relative alla guerra, come la violazione improvvisa dei patti senza previa denuncia o l’aggressione senza formale dichiarazione, legittimano la visione sacrale della guerra “giusta” e la demonizzazione del nemico.
Si può quindi concludere con le parole di Hillgruber, “In questo modo Roosvelt ottenne la possibilità di realizzare i suoi obiettivi, che avevano una portata globale quanto quelli di Hitler. Egli aspirava né più né meno che ad un ruolo- guida mondiale indiretto per gli USA. Tale ruolo, tuttavia, fondato com’era su principi liberal-democratici, lasciava agli altri Stati, grandi o piccoli che fossero, uno spazio di manovra autonomo relativamente grande. E al contrario della rigida determinazione di Hitler, ancorato ad assiomi ideologico-razziali ,(….), il ruolo- guida americano era suscettibile di applicazioni e adattamenti a situazioni e congetture nuove e impreviste” ( 93, Hillgruber A.,Storia della 2^ guerra mondiale,Economica Laterza, 1994).
Con tali presupposti si pone la domanda di J. Keegan: la guerra potrà mai finire?
BIBLIOGRAFIA
Bonanate Luigi, La guerra, Editori Laterza, 2011;
Bonanate Luigi, Prima lezione di relazioni internazionali, Ed. Laterza, 2010;
Schmitt Carl, Il concetto discriminatorio di guerra, Editori Laterza, 2008;
Keegan John, La guerra e il nostro tempo, Mondadori, 2002;
Renan Ernest, Che cos’è una nazione, Archinto, 1994.
TRA GUERRA E PACE Le relazioni internazionali nelle teorie del Novecento Sergio Benedetto Sabetta “ Nel momento in cui una comunità non sa più ragionare con il senso della storia, non sarà la storia a […]
Diritto Internazionale Dottrina Fascicoli Fascicolo n.3/2022TRA GUERRA E PACE
Le relazioni internazionali nelle teorie del Novecento
Sergio Benedetto Sabetta
“ Nel momento in cui una comunità non sa più ragionare con il senso della storia, non sarà la storia a sparire ma quella comunità” ( R. Ferrari Zumbini, Il grande giudice. Il Tempo e il destino dell’Occidente, Luiss University Press, Roma 2019, p.319)
Premessa
La guerra nell’Europa Orientale sulle pianure sarmatiche dell’Ucraina ha posto nuovamente all’attenzione la centralità dei rapporti internazionali, oltre alla semplice e mitizzata globalizzazione economica.
La pandemia ha fatto riemergere il tempo delle chiusure, premessa per future guerre, di ci molti non ne vedevano l’ombra presi dal racconto consolatorio della “fine della storia” in un eterno felice presente.
Hans Blumenberg parla di un “tempo della vita” e di un “tempo del mondo” ch si comprimono nell’assolutizzazione del leader, fino a distruggere pericolosamente “l’istituzionalità del tempo storico”, comprimendo gli accadimenti prevedibili o sperati del futuro nel tempo attuale.
“il diavolo sa che gli resta poco tempo” (Apocalisse di Giovanni – 12,12), tuttavia, come ci ricorda Carl Schmitt, “Tutti coloro che vanno al potere, buoni o cattivi, entrano in una gabbia”, di relazioni buone o cattive, intelligenti o stupide, che li condizioneranno.
NOTA
AA.VV. , La fine della pace, Editoriale, Limes, 3/2022.
Le relazioni internazionali
Occorre preliminarmente distinguere tra politica “estera” o “internazionale”, nella prima l’elemento centrale è lo Stato il quale come soggetto autonomo calcola le mosse e sceglie i mezzi, nella seconda l’attenzione è concentrata sulle relazioni che intercorrono tra Stati o con le Organizzazioni internazionali-
A sua volta il rapporto tra politica interna e politica estera è stato impostato su tre possibili modelli: nel primo la politica estera dipende dalla politica interna, nel secondo vi è un’inversione nei rapporti in cui è la politica estera che condiziona la politica interna attraverso l’esigenza propria di una politica di potenza, nel terzo vi è una quale autonomia tra la politica estera e quella interna, restando inalterati i tre pilastri internazionali su cui poggiano i rapporti della politica di potenza, della politica di equilibrio, della guerra, in quella che R. Aron definisce una “continua alternativa tra guerra e pace”. (Pace e guerra fra le nazioni, Comunità, 1970).
Se la concezione “idealista” propria del sistema accademico inglese ritiene sufficiente l’adozione di idonei strumenti per favorire la cooperazione tra Stati, la concezione “marxista” prevede una conflittualità permanente dovuta al sistema economico imperialista, che conduce a tre surplus: di popolazione, di beni e di capitali, per cui necessita una “esportazione” con una combinazione economico-militare, il passaggio dalla fase concorrenziale a quella monopolistica determina il nascere di conflitti sul mercato mondiale per il suo controllo.
Verso la metà del Novecento si consolida una prospettiva “realistica” la quale si fonda su sei assunti di base:
Gli Stati sono gli attori unitari e autonomi della politica internazionale;
Nel sistema internazionale in mancanza di un potere centrale domina l’anarchia;
La necessità per ogni Stato di agire ai fini di un accrescersi della potenza per una sua sicurezza crea un senso di minaccia per gli altri Stati;
Solo l’equilibrio di potenza può fornire un minimo di sicurezza in politica internazionale;
Istituzioni e organizzazioni internazionali hanno una scarsa rilevanza nelle relazioni tra Stati;
Il potere politico-militare prevale sul potere economico.
Partendo da questi presupposti Morgenthau teorizza che i rapporti tra singole comunità statali si fondano in una perenne lotta per il potere, come del resto all’interno delle singole comunità, conseguentemente i due concetti su cui si deve fondare una teoria internazionale sono per l’autore “l’interesse nazionale” (national power), come potere, e “ l’equilibrio di potenza” (balace of power), quale stabilizzatore tra Stati, vi è quindi un intreccio tra “interesse nazionale” e “potenza nazionale”.
L’interesse nazionale risulta a sua volta il combinato di fattori necessari e variabili, i primi si manifestano nella volontà di protezione del territorio, delle istituzioni e della popolazione, quale aspetto di continuità di qualsiasi politica estera, i secondi si riferiscono agli aspetti contingenti di ogni politica estera, quali il tipo di regime politico o la natura delle relazioni diplomatiche.
Analogamente la potenza nazionale risulta quale combinazione di elementi quantitativi e qualitativi, permanenti o contingenti, come le risorse naturali, le istituzioni, le potenzialità militari e industriali.
Nella struttura anarchica che risulta dallo stato latente di guerra tra Stati, in cui ad una aspirazione di potenza si contrappone il timore di essere sopraffatti, ai singoli Stati non restano che tre alternative: mantenere la propria potenza, farne solo dimostrazione o aumentarla.
A queste tre prospettive corrispondono la conservazione dello status quo, l’affermazione del prestigio oppure l’espansione imperialistica, ne consegue che il sistema internazionale si trova in equilibrio precario tra un potenziale “stato di guerra” e la ricerca di meccanismi che limitino l’uso della forza.
Nel limitare la conflittualità permanente e in presenza della continua ricerca di un aumento di potenza, il sistema internazionale non può che ricorrere alle tecniche diplomatiche, o ad una limitazione della potenza mediante un sistema di equilibrio, il quale può essere ottenuto con l’indebolimento del più forte mediante una politica del “divide et impera”, o all’opposto rafforzando il più debole territorialmente e con aiuti militari, creando coalizioni e alleanze, pertanto secondo Morgenthau scarsa è l’efficacia delle istituzioni internazionali, dell’opinione pubblica o del diritto internazionale.
La visione unitaria dello Stato quale decisore viene meno in Snyder il quale punta a valutare le scelte dei singoli funzionari e dei politici, nonché la “percezione degli eventi” da essi posseduta, il processo di formazione delle decisioni viene quindi scomposto in tre livelli: la sfera di competenza, il livello della comunicazione e dell’informazione, la dimensione della motivazione.
Gli stimoli che agiscono sugli attori delle decisioni provengono dalla società, dall’interno degli apparati pubblici e dall’azione degli altri Stati, si possono quindi individuare tre condizionamenti sulla scelta di politica estera: le richieste all’interno della società, le modalità del processo decisionale e le circostanze esterne a cui la decisione costituisce una reazione.
Contrapposto all’approccio decisionale di Snyder si è sviluppato l’approccio sistemico di Kaplan, per questi perché possa un sistema essere in equilibrio vi devono essere almeno cinque potenze, inoltre l’attore nazionale deve seguire le seguenti regole:
Incrementare le proprie risorse, cercando comunque di trattare anziché combattere;
Combattere se impedito di rafforzarsi;
Non eliminare un attore essenziale;
Opporsi a qualsiasi coalizione o singolo attore che possa assumere una posizione dominante;
Opporsi a qualsiasi attore che tenda ad unirsi in un’organizzazione sovranazionale;
Se sconfitto o in difficoltà permettere all’attore nazionale di rientrare nel sistema, comunque in caso di impossibilità sostituirlo con un nuovo attore.
In un sistema in equilibrio le alleanze sono specifiche, di breve durata e incentrate sull’utile e non sull’ideologia, l’interesse particolare di ciascun Stato tutela l’equilibrio come la concorrenza economica garantisce l’efficienza nell’uso delle risorse. La dimensione fortemente ideologica delle alleanze porta a costituire interessi permanenti e non mutevoli, dando luogo a un sistema bipolare fortemente in contrasto, con tensioni che si scaricano tendenzialmente in conflitti periferici.
Sulle orme di Kaplan, Waltz sostiene che la continuità è attribuibile al “sistema internazionale”nel suo complesso che condiziona i singoli attori nazionali, il sistema internazionale è caratterizzato dal “principio ordinatore”, che a differenza degli Stati non è la gerarchia ma l’anarchia, nonché dalla “distribuzione di potenza” quale differenza di potere tra Stati.
Alla teoria della “dipendenza” di matrice marxista incentrata in un rapporto tra centri imperiali e periferie, si affianca la teoria della “interdipendenza” nella quale emerge la crescente compenetrazione fra le diverse economie nazionali, circostanza che rende inopportuno l’uso della forza militare invertendo il rapporto tra potere politico-militare e potere economico a favore di quest’ultimo, emerge pertanto prepotente il continuo ricorso alla negoziazione e alle pressioni economiche (Wallerstein).
Allison sostituisce il modello dello “Stato come attore razionale” con il modello dello “Stato come decision-maker”, in cui si considera lo Stato quale complesso formato da un insieme di funzionari governativi, per cui vi è un processo di “accomodamento” tra gli stessi, ciascuno fornito di proprie percezioni, opinioni e interessi. Viene in tal modo a ribaltarsi il concetto unitario di Stato nel “calcolo” degli interessi strategici, vi è quindi una complessa interazione tra i vari interessi governativi e la burocrazia, dove quest’ultima rappresenta la continuità amministrativa anche in contrasto con il personale politico.
Un ulteriore perfezionamento del modello è dovuto a Brecher che introduce quale variabile indipendente la “percezione della crisi”, quale risultato del grado di informazione e della consapevolezza per i decisori (decision-makers) degli stimoli esterni a cui si è sottoposti.
Tre sono le varabili percettive indipendenti ma tra loro collegate: la minaccia, il tempo a disposizione limitato e la più elevata probabilità di guerra.
In una prima fase (t1) avviene l’evento scatenante o il mutamento ambientale che preparano la crisi internazionale; minacce, tempo e probabilità di guerra, forniscono gli elementi per la “consapevolezza di essere in crisi” in un tempo (t2); nel successivo passaggio vi è una raccolta di informazioni e consultazioni per elaborare delle valide strategie di risposta, il tutto in un tempo più o meno ristretto (t3); infine vi è la decisione strategica con la sua attuazione nel tempo (t4).
Ulteriori elementi completano il modello, quali in tema di informazione il rapporto diretto tra rigidità concettuale del decisore e crescita della tensione, o nelle prestazioni dei gruppi decisionali e consultivi più è lungo il periodo di tempo che si ha a disposizione per prendere una decisione maggiore è il conflitto interno al gruppo, come maggiore è la tensione più ristretto è il gruppo che decide, anche sulle scelte la pressione temporale determina una minore correttezza nella valutazione delle conseguenze.
Lowi distingue tra situazioni “di crisi”, legate a minacce militari, e situazioni “normali”, in questa ultima ipotesi vi è un’estensione alla politica estera della frammentazione e pluralità della politica interna, mentre in caso “di crisi” la decisione viene presa da un gruppo ristretto senza vincoli particolari.
Tuttavia in presenza del protrarsi del confronto in situazione “normale” si procede solitamente alla “drammatizzazione” dei problemi (overselling) al fine di costringere, mediante un artificiale stato di emergenza, ad una decisione.
Zimmermann perfeziona il modello introducendo due criteri atti a orientare le scelte, il primo relativo alla percezione che l’impatto investa tutti o solo una parte dei cittadini, il secondo se la questione di politica estera riguardi esclusivamente aspetti materiali o investa anche i valori della comunità nazionale, il combinato dei due criteri fa sì che nell’ipotesi in esame si ritenga che vi sia una asimmetria nella perdita o guadagno fra i cittadini.
Le scelte di politica estera verranno effettuate da una élite coesa in presenza del conflitto sociale, nell’ipotesi contraria che il danno riguardi tutti i cittadini vi sarà un’ampia discussione con un processo decisionale di tipo distributivo, il quale si accentrerà nuovamente in presenza di una “crisi”di tipo “ideologico” che coinvolga i valori, dove l’élite agirà con un ampio consenso popolare.
Negli anni ottanta del ‘900 si distinguono due teorie: la “neorealista” e la “neocostituzionale”.
Nella prima emerge l’opera di Waltz che individua nel sistema internazionale tre caratteristiche distintive: l’anarchia degli Stati derivanti dalla necessità di sopravvivere, una distribuzione asimmetrica dei poteri tra gli Stati, l’azione egoistica degli Stati che va dalla propria conservazione al potere universale, ne deriva che solo l’azione concertata tra Stati può portare ad un equilibrio che può essere multipolare o bipolare, secondo una forte analogia con la teoria microeconomica dell’equilibrio generale, in cui ognuno degli attori cerca il massimo del proprio utile.
L’unica differenza risiede nell’esaltazione della concorrenza in campo economico, mentre nei rapporti internazionali la competizione deve risultare limitata dalla presenza di un numero ristretto di grandi potenze, in quanto l’efficienza risiede nell’equilibrio a differenza della riduzione dei prezzi.
A fronte della concezione degli Stati come attori unitari nel sistema internazionale propria della scuola “neorealista”, vi è la concezione “neoistituzionale” che interpreta gli Stati ed i regimi costitutivi come un insieme di principi, regole, norme e procedure decisionali che condizionano le scelte interne ed esterne.
Krasner ritiene, quindi, di potersi superare un comportamento basato esclusivamente su interessi a breve termine, prevalendo dei doveri generali, tanto che se il cambiamento delle regole e norme conduce a cambiamenti di regime, le scelte vengono a mutare essendo diversi i doveri a cui riferirsi, Young a riguardo osserva che le modalità di costituzione degli Stati (spontaneo, negoziale, impositivo) vengono a modificarne la percezione e quindi ad influire nel loro comportamento.
Vi è nell’analisi dei rapporti internazionali una doppia prospettiva, una quantitativa ed una qualitativa, la prima si rifà ad una raccolta di dati empirici e ad una loro analisi in termini matematici (teoria dei giochi), la seconda si concentra sul valore dei singoli dati e sulle modalità della loro concatenazione, interviene in questo l’aspetto umanistico della storia, del pensiero culturale di cui sono portatori, delle tensioni economiche e sociali (Bull).
Dobbiamo considerare che il comportamento umano è impostato su una matematica intuitiva, fondata su una “razionalità evolutiva” che tende a concentrarsi su alcuni aspetti ritenuti fondamentali, non vi è per istinto una logica matematica puramente razionale, questa deve essere espressamente voluta con uno sforzo materiale e mentale, prendendo tempo, applicata ai casi che si ritengono estremamente rilevanti quali possono essere determinati rapporti internazionali (Artstein).
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TERRITORIAL DYNAMICS IN TUNISIA: DO INCENTIVES ALLOW CONVERGENCE? Dr. Bouzidi MERIAM Pr. Ghazouani KAMEL Abstract The basic goal of this paper is to review the role of the incentives granted for regional […]
Diritto Internazionale Dottrina Fascicoli Fascicolo n.3/2022
TERRITORIAL DYNAMICS IN TUNISIA: DO INCENTIVES ALLOW CONVERGENCE?
Dr. Bouzidi MERIAM
Pr. Ghazouani KAMEL
Abstract
The basic goal of this paper is to review the role of the incentives granted for regional development in the territorial dynamics in Tunisia. In the 1960s, Tunisia opted for a planned economy model based largely on the State’s intervention. It opted for the model developed by François Perroux « development hub model or model of Centre/Periphery». The State has created centres in each economic region, a region is defined as a homogeneous geographical space: 6 poles have been created, some of which are present until today. These poles will then have to radiate over the rest of the space of each region.
With the stop or even «failure» of the socialist model in 1969, the State sought the help, at the beginning, by encouraging the local private sector to invest, then in 1972, and in the absence of local investors initially non-existent or weakened by the adoption of the cooperative system, Tunisia went to ask for the foreign investors who have responded quickly and are largely present today. The assistance of the private sector to the efforts of the State was directed to particular sectors or activities and for particular regions or territories. Therefore, the Tunisian Government, in accordance with the economic model adopted, continued to encourage the private sector to invest and create projects to contribute to regional development: Sectoral investment codes for the years of 1981, 1982, 1985, 1986, 1987, 1989, 1993 and 2016 and the creation of regional development offices, etc.
The question that arises is to see to what extent, incentives that cost the Tunisian State on average 2% of the GDP per year, contribute to the territorial dynamics in Tunisia? In other words, is it permissible to say that the incentives allow for the construction of territories or are the incentives channels for moving from a given territory to a built territory.
Keywords: Territorial dynamics, incentives, poverty, Moran index, GWR.
JEL classification : H5- R1- R58
Territorial dynamics in Tunisia: Do incentives allow convergence?
O.N.U. CRISI INTERNAZIONALI, PARADOSSI E VISIONE STRATEGICA Sergio Benedetto Sabetta INTRODUZIONE Premessa “Le luci stanno spegnendosi nell’intera Europa. Nell’arco della nostra vita non le rivedremo riaccese”. Queste parole – una tra le battute più famose […]
Diritto Internazionale Dottrina Fascicoli Fascicolo n.3/2022O.N.U.
CRISI INTERNAZIONALI, PARADOSSI E VISIONE STRATEGICA
Sergio Benedetto Sabetta
INTRODUZIONE
“Le luci stanno spegnendosi nell’intera Europa. Nell’arco della nostra vita non le rivedremo riaccese”. Queste parole – una tra le battute più famose in tutta la storia europea – furono pronunciate dal ministro degli Esteri britannico, Sir Edward Grey, mentre guardava le luci di Whitehall gradatamente estinguersi la sera di quel giorno del 1914 in cui Gran Bretagna e Germania scesero in guerra. All’epoca, pochi condividevano il giudizio di Grey su quel che stava avvenendo. I più pensavano che si trattasse di una guerra “per la civiltà”. Da un capo all’altro dell’Europa, gli uomini corsero alle caserme, e l’euforia patriottica esplose nelle città.
Soltanto dopo quattro anni di massacri, dopo il bolscevismo in Russia, dopo l’ascesa del fascismo, dopo la disintegrazione dell’economia europea durante la grande depressione, si cominciò a capire ciò che Grey aveva inteso dire” ( Introduzione, N. Stone).
Si deve considerare che negli anni che andarono tra il 1878 e il 1914 le istituzioni parlamentari furono adottate quasi ovunque, “talché il gioco politico si complicò: […] Le trasformazioni economiche si imposero massicce e veloci.
Le popolazioni raddoppiarono e triplicarono. Le famiglie, l’istruzione e gli atteggiamenti verso la religione subirono modificazioni profonde. Con sei Grandi Potenze europee a dettar legge nel mondo, anche gli affari internazionali divennero estremamente complessi” (Introduzione, N. Stone), tutto aveva avuto origine dal rapporto tecnologia e liberalismo, nella riforma delle istituzioni e la conseguente modifica del vecchio ordine, ma “le linee essenziali erano abbastanza chiare. Liberalismo significava Ragione” (6 – N. Stone). Dopo circa un secolo si stanno ripetendo alcuni eventi ripresentandosi tutte le potenzialità di possibili conflitti non controllati, dobbiamo considerare che nel caso “in cui le relazioni umane sono condizionate da un conflitto armato effettivo o possibile, agisce un’altra logica, completamente diversa. Essa viola spesso la logica lineare ordinaria, comportando la confluenza e addirittura il capovolgimento dei contrari, […]” (24 – Luttwak).
Come sottolinea Luttwak , “l’intero regno della strategia è pervaso da una logica paradossale tutta sua, in contrasto con la logica lineare ordinaria, [……] Nelle situazioni in cui il conflitto è semplicemente incidentale per scopi di produzione e di consumo, di commercio e di cultura, di relazioni sociali e di governo consensuale, con lotte e competizioni più o meno vincolate da leggi e usanze, si applica una logica lineare non contraddittoria, la cui essenza è contenuta in quello che riteniamo buon senso” (23 – Luttwak), anche se in molte occasioni della vita quotidiana sembra non sussistere subissato da altri , troppi stimoli, né si considera adeguatamente in molte occasioni la “memoria storica” delle società su cui si va ad intervenire.
L’attuale crisi in atto (Ucraina) nel ridefinire le aree di influenza, superando la presunta unitarietà della globalizzazione e manifestando la rinuncia degli U.S.A. a poliziotti del mondo, manifesta l’impotenza dell’O.N.U. quando la crisi investe gli stessi assetti di equilibrio nel Consiglio di Sicurezza, ossia il pilastro portante su cui alla fine della II Guerra Mondiale si è costituita l’organizzazione.
Nota
E. N. Luttwak, Strategia, Rizzoli, 1989;
N. Stone, La Grande Europa 1878 – 1919, Laterza, 1986:
AA.VV.- La Russia cambia il mondo, Limes, 2/2022.
Il problema del paradosso nella visione strategica
Secondo la logica lineare causale ad ogni azione segue a cascata un’ulteriore azione prevedibile, come ad ogni azione vi è la possibilità di una controreazione pari e contraria, Luttwak osserva che nella grande strategia il livello verticale militare viene ad interagire con le transazioni non militari tra Stati o altre organizzazioni politiche sovranazionali ed economiche proprie del livello orizzontale, viene a crearsi un continuo rapporto interattivo tra le varie organizzazioni che condiziona il risultato netto dei vari livelli militari.
La logica del paradosso emerge anche all’interno degli stessi Stati quando per una qualsiasi causa questo perde il monopolio dell’uso della forza e si creano conflitti non regolamentati, in questi casi la logica lineare perde efficacia, il compiere atti di buona volontà possono essere interpretati come segni di debolezza, vedasi la conferenza di Monaco del 1938, e favorire come effetto paradossale l’aggressione, finché non vengono eliminate le cause del conflitto la diplomazia collaborativa non ha successo e può essere controproducente.
Il considerare la logica lineare della cooperazione quale possibile vantaggio evidente per tutte le parti coinvolte nel contenzioso è in molti casi illogico, prevalendo una logica paradossale per cui il probabile uso della forza ne evita l’applicazione pratica.
L’inazione prepara la sconfitta nella futura azione che diventa inevitabile proprio a seguito dell’inazione quale speranza del prevalere del buon senso, se gli interessi nazionali si definiscono secondo una logica lineare dell’utile e del minore costo che si estende alla “sicurezza interna”, in ambito internazionale in presenza di conflitti, prevale la logica del paradosso dove la logica lineare può diventare di per sé fonte di debolezza con gravi conseguenze.
Su questioni limitate e ben definite, anche in presenza di più ampi conflitti, una diplomazia cooperativa secondo una logica lineare può avere ottimi risultati, senza per questo dovere risolvere il conflitto stesso, ad esempio il trattato di neutralità dell’Austria del 1955 e quello sul bando degli esperimenti atomici nell’atmosfera del 1962 (Luttwak).
Caso emblematico di paradosso strategico è quello che fu sviluppato in Europa con la dissuasione nucleare durante gli anni della Guerra Fredda, quando la Nato, a partire dal 1967, cambiò le due forme fino allora utilizzate di dissuasione mediante rappresaglia totale atomica e mediante rifiuto allo scontro, ossia cessione di spazio territoriale al fine di sfilacciare l’eventuale offensiva del Patto di Varsavia in corridoi tra centri abitati per preparare il ritorno offensivo. Entrambi furono considerati inaffidabili, in quanto il primo avrebbe portato alla risposta con l’annientamento totale dei due schieramenti, mentre il secondo l’abbandono degli alleati in prima linea e il conseguente sfaldamento dell’alleanza o al contrario un costoso rafforzamento dell’apparato militare, senza che questo tuttavia garantisse dalla tentazione di preparare un attacco di sorpresa con forti probabilità di successo.
Scriveva a riguardo Luttwak nel 1987 , “In realtà la Nato si basa su una combinazione di mezzi: forze di difesa frontali non nucleari inadeguate, un contingente di armi nucleari campali (anche queste destinate a una dissuasione mediante rifiuto), uno schieramento di forze nucleari di portata di teatro, anch’esso piuttosto vulnerabile, e le forze nucleari a grande gittata degli americani, effettivamente abbondanti e molto meno vulnerabili delle armi atomiche campali e di teatro, ma del cui impiego per la difesa dell’Europa non si può essere sicuri.
Quella che sembra una congerie di inadeguatezze è conforme alla logica del paradosso ed è proprio perché le difese frontali non nucleari non sono adeguate che diventa credibile l’uso di armi nucleari campali”(285-286, Strategia. Le logiche della guerra e della pace nel confronto tra le grandi potenze, Rizzoli, 1989, trad. Enzo Peru), in Italia rientrava in questa ipotesi il disciolto 1° GR.A.PE., “ADIGE” Elvas-BRIXEN della III° BRGT. Missili “Aquileia”, sembrerebbero problemi del ‘900 ma la storia proietta le sue ombre nel nuovo millennio come il caso Mitrokhin, la crisi siriana e l’attuale guerra in Ucraina.
Giuridicamente in molti conflitti si tende a non affrontare il problema alla radice ma si cerca di spalmarlo nello spazio, acquisendo per tale via ulteriore tempo, nella speranza che si venga a risolvere per esaurimento da solo o che eventi imprevisti modifichino il contesto entro cui il problema è nato e si è espanso, spazio in cambio di tempo, come alcuni hanno ipotizzato nell’attuale crisi del Mediterranea.
Il ruolo dell’O.N.U. nelle crisi internazionali
Gli organi intorno ai quali ruota l’attività di gestione delle crisi sono il Consiglio di Sicurezza, che ha competenza limitata al mantenimento della pace, ma in questo settore dispone di poteri assai ampi in particolare per quanto concerne le sanzioni e l’uso della forza contro gli Stati colpevoli di aggressione o minaccia alla pace.
Accanto al Consiglio vi è l’Assemblea generale, in cui tutti gli Stati sono rappresentati ed hanno uguale peso nelle votazioni, essa ha una sfera di competenza illimitata, potendosi occupare di qualsiasi questione che rientri nei fini statutari (art. 10), tuttavia in concreto i suoi poteri non sono affatto estesi, riducendosi al potere di effettuare studi, emanare raccomandazioni e promuovere accordi fra gli Stati membri.
Infine vi è il Segretario generale a cui fa capo un vasto apparato burocratico; nominato dall’Assemblea su proposta del Consiglio di Sicurezza, adempie le funzioni che gli sono affidate dallo stesso Consiglio, dall’Assemblea e dagli altri organi delle Nazioni Unite. Occorre premettere che a differenza delle Società delle Nazioni, nell’ambito della quale vigeva il principio dell’unanimità in omaggio alla regola mutuata dalla vecchia prassi delle conferenze internazionali posta a garanzia della sovranità statale, il sistema statutario accolto per le votazioni in seno agli organi delle Nazioni Unite è quello maggioritario.
Il sistema maggioritario, combinandosi con la regola per cui ad ogni Stato spetta un voto indipendentemente dalla sua importanza politica ed economica, è stato oggetto di proposte di temperamento a causa dell’ammissione all’ONU, a partire dagli anni ’60, di un rilevante numero di Stati di piccole dimensioni. Il mantenimento del principio maggioritario ha finito per introdurre come contemperamento la prassi del consensus, per cui vengono approvate senza una votazione formale quelle delibere il cui contenuto è stato preventivamente concordato fuori dalle riunioni ufficiali.
Gli Stati che avanzano riserve o si dissociano totalmente lo possono fare presente al Presidente dell’organo nel momento dell’approvazione, si deve comunque rilevare che questa pratica contribuisce a dare alle risoluzioni contenuti tanto più vaghi quanto più importanti sono le questioni sul tappeto, segno dell’incapacità delle maggioranze di prevalere sulle minoranze-
Un forte temperamento al principio maggioritario si ha in seno al Consiglio di sicurezza dove i membri permanenti possono esercitare il diritto di veto, si tratta di eccezione di non poco conto se si considera che il Consiglio è l’unico organo in grado di vincolare gli altri Stati-
L’art. 27 della Carta testualmente recita: “1. Ogni membro del Consiglio di Sicurezza dispone di un voto. 2. Le decisioni del Consiglio di Sicurezza su questioni di procedura sono prese con un voto favorevole di 9 membri. 3. Le decisioni del Consiglio di Sicurezza su ogni altra questione sono prese con un voto favorevole di 9 membri, nei quali siano compresi i voti dei membri permanenti; tuttavia nelle decisioni previste dal cap. VI e dal par. 3 dell’art. 52, un membro che sia parte di una controversia deve astenersi dal voto”.
Poiché il dovere di astensione non riguarda le delibere relative a misure coercitive contro gli Stati colpevoli di aggressione (cap. VII) e quelle relative all’espulsione dall’Organizzazione (art. 6), sussiste per tutte queste delibere il diritto di veto anche se chi ne è titolare è coinvolto in prima persona, ne consegue l’impossibilità per il Consiglio di agire con misure coercitive contro un membro permanente o di proporne l’espulsione.
A temperamento del diritto di veto si è introdotta la prassi della validità delle delibere prese con l’astensione di uno o più membri permanenti o con la non partecipazione al momento del voto, va notato che questi temperamenti appena descritti hanno consentito al Consiglio di operare ma la mancanza di adesione da parte di tutte le Grandi Potenze rende intrinsecamente deboli queste risoluzioni, senza dubbio si è rilevata una utopia la perfetta intesa tra i membri permanenti, ma è anche vero che nell’attuale struttura solo una tale intesa può garantirne il funzionamento.
Sul piano normativo, lo Statuto delle Nazioni Unite segna, rispetto al Covenant della Società delle Nazioni, due notevoli passi avanti: 1. è la maggiore portata dell’obbligo di non ricorrere alla violenza, 2. è la maggiore istituzionalizzazione dell’azione preventiva-repressiva della violazione di questo obbligo; spetterà comunque al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
Le competenze del Consiglio sono disciplinate nei cap. VI (art. 33 e segg.) e VII (art. 39 e segg.), il cap. VI tratta prevalentemente dell’esercizio della funzione conciliativa quando la controversia sia suscettibile di mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. Nel capitolo successivo si tratta delle azioni a tutela della pace quando questa risulti violata o comunque minacciata.
Accertata l’esistenza di una minaccia alla pace, di una sua violazione o di un atto di aggressione (art. 39), il Consiglio può decretare contro lo Stato aggressore misure sanzionatorie ma non implicanti l’uso della forza, come l’interruzione parziale o totale delle comunicazioni e delle relazioni economiche da parte degli altri Stati (art. 41), ma può intraprendere anche azioni armate (art. 42 e segg.), comunque prima di ricorrera ad una delle due forme esso può invitare gli Stati interessati a prendere quelle misure provvisorie atte a non aggravare la situazione (art. 40).
Il Consiglio di Sicurezza gode di un ampio potere discrezionale nel determinare se in un caso concreto si verifichi una minaccia o violazione della pace o addirittura un atto di aggressione, la discrezionalità più ampia si esercita soprattutto con riguardo all’ipotesi della “ minaccia della pace”: trattasi infatti di una ipotesi assai vaga ed elastica che non è necessariamente caratterizzata da operazioni militari implicanti l’uso della violenza bellica.
I comportamenti che possono dare adito alla minaccia riguardano sia la sfera esterna che la sfera interna dello Stato, dato che l’applicazione delle misure previste dal cap. VII non incontra il limite della “domestic Jurisdiction”, ossia di tutto ciò che ha attinenza con i classici “elementi” dello Stato, che sono i trattamenti dei “sudditi”, l’organizzazione di “Governo” e l’utilizzazione del “territorio”.
Il caso più interessante rimane comunque il ricorso all’art. 42 con tutto ciò che ne consegue, l’uso della forza può avvenire “contro” uno Stato o “all’interno” di uno Stato, quando la situazione interna sia tale da minacciare la pace e la sicurezza internazionale.
Il ricorso a misure violente è chiaramente concepito come una azione di polizia internazionale, che dovrebbe essere ai sensi dell’art. 43 sotto un comando internazionale facente capo allo stesso Consiglio di sicurezza. Il concentrare nell’Organizzazione, non solo il potere di decidere l’utilizzo della forza armata, ma anche la direzione delle operazioni militari, ha il preciso scopo di garantire l’obiettività e l’imparzialità dell’azione, nonché di controllare che questa sia mantenuta entro i limiti strettamente indispensabili al mantenimento della pace.
Consegue che le delibere con cui il Consiglio di sicurezza delega agli Stati membri l’uso della forza contro un determinato Paese, rimettendo nelle loro mani il controllo delle operazioni, non sono inquadrabili sotto gli auspici dell’art. 42 ma addirittura ne tradiscono la lettera e lo spirito e quindi sarebbero illegittime.
Purtroppo gli accordi internazionali che, ai sensi degli artt. 43, 44 e 45, gli Stati membri avrebbero dovuto stipulare con il Consiglio per la costituzione di forze armate internazionali non sono stati realizzati. Ugualmente dicasi per la costituzione di un Comitato di Stato maggiore, composto dai capi di Stato maggiore dei membri permanenti e posto sotto l’autorità del Consiglio (art. 46 e 47), questo ha fatto sì che il Consiglio sia venuto meno, paralizzato dai contrasti tra le superpotenze, ai suoi compiti di tutore dell’ordine internazionale. I deficit organizzativi sopra evidenziati non hanno reso del tutto impotente l’ONU ma è stato necessario trovare un nuovo punto di appoggio, costituito dalla delega del Consiglio al Segretario generale.
Per completare il discorso sui poteri delle Nazioni Unite in ambito di gestione delle crisi internazionali, è opportuno fare un rapido cenno ai poteri dell’Assemblea la quale può discutere qualsiasi questione di carattere generale e farne oggetto di raccomandazioni agli Stati o al Consiglio di sicurezza” oltre ad esercitare funzione conciliativa su controversie tra Stati per le quali non sia già intervenuto il Consiglio di sicurezza.
In passato si è discusso se all’Assemblea, oltre alle competenze ora ricordate, spettasse intraprendere azioni a tutela della pace mediante misure coercitive dl tipo di quelle adottabili dal Consiglio di sicurezza in base al cap. VII della Carta dell’ONU. L’argomento costituì oggetto di accanite dispute dottrinali tra gli anni ’50 e ’60, epoca in cui effettivamente l’Assemblea sotto la spinta degli Stati Uniti tese a sostituirsi al Consiglio di sicurezza nella funzione di mantenimento della pace, vista la paralisi di quest’organo per l’esercizio del diritto di veto, successivamente la spinta degli Stati Uniti è rientrata ed il tema è andato attenuandosi come conseguenza dell’enorme aumento del numero dei membri che ha reso l’Assemblea difficilmente controllabile.
L’art. 51 nel chiudere il cap. VII testualmente stabilisce: “Nessuna disposizione della presente Carta pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”, questo non legittima l’uso della forza in ogni caso ma solo in presenza di un attacco “già sferrato” e finché non interviene il Consiglio di sicurezza, se, tuttavia, il Consiglio resta paralizzato di fronte alla crisi in atto, la Carta e il diritto internazionale hanno esaurito la loro funzione.
Con tutti i limiti rilevati, in alcune gravi questioni internazionali le Nazioni Unite sono riuscite a fare sentire la loro presenza sviluppando le cosiddette peace –keeping operations, affidate ai caschi blu. L’intervento delle forze O.N.U. ha assunto carattere diverso a secondo delle circostanze, acquisendo funzioni di interposizione tra contendenti, presidi di zone armistiziali, gruppi di osservatori militari o forze di polizia internazionale, comunque sia, tali forze sono sempre originate da direttive del Consiglio di sicurezza o dell’Assemblea generale e rientrano nelle responsabilità operative del Segretario generale.
La 43° Assemblea Generale ha approvato una Dichiarazione sulla “Prevenzione ed eliminazione di controversie e situazioni, che possano minacciare la pace e la sicurezza internazionale, nonché il ruolo delle Nazioni Unite in questo campo” (Risoluzione 43/51 DEL 5/12/88), presentata dal Comitato per lo Statuto delle N.U., anche il Segretario generale nelle sue relazioni annuali ha più volte sollecitato una parziale riforma e rivitalizzazione degli organismi internazionali dell’O.N.U. ed è giunto a sollecitare la necessità della costituzione di apposite riserve di truppe specializzate e di risorse finanziarie.
Appare evidente che la struttura dell’ O.N.U. è stata impostata per risolvere conflitti tradizionali tra Stati, in cui vi è di fatto uno scontro simmetrico, con il nuovo millennio si sono manifestati potenziali scontri asimmetrici, dove a forze tradizionali si contrappongono organizzazioni a rete su territori non ben definiti, molto veloci nel riprodursi e spostare i centri di fuoco, capaci di acquisire risorse anche attraverso attività illegali, motivando le persone e creando collegamenti sfruttando tutte le potenzialità di una comunicazione diffusa e capillare, fuori dal controllo statale.
Il mondo virtuale internet è diventata la base operativa e il territorio in cui muoversi senza confini e barriere, con la possibilità di creare violente suggestioni irreali e sogni di riscatto, come in caso di conflitto tradizionale mezzo per la manipolazione dell’informazione centrata sull’espansione incontrollata ed esponenziale della stessa.
DELL’IMPOSSIBILITÀ DEL «LIBERALISMO INCLUSIVO». Adelina Bisignani Abstract La crisi degli Stati nazionali, quali forme di esercizio del potere politico su un determinato territorio, già evidente di fronte alla globalizzazione dell’economia, si è venuta drammaticamente […]
Diritto Ambientale Dottrina Fascicoli Fascicolo n.3/2022
DELL’IMPOSSIBILITÀ DEL «LIBERALISMO INCLUSIVO».
Adelina Bisignani
Abstract
La crisi degli Stati nazionali, quali forme di esercizio del potere politico su un determinato territorio, già evidente di fronte alla globalizzazione dell’economia, si è venuta drammaticamente accentuando negli ultimi anni a causa della pandemia e dei mutamenti climatici. Appare evidente che la prima (la pandemia) non può essere debellata senza una iniziativa politica sovranazionale che la contrasti anche nelle zone povere del mondo (l’Africa, innanzitutto). Per quanto riguarda i mutamenti climatici, se è vero – come sostengono alcuni economisti – che solo per la zona euro occorrono 500 miliardi l’anno per fronteggiarli, appare evidente che una tale «emergenza» non può essere fronteggiata con le vecchie politiche economiche liberiste e deflattive. Tali problemi impongono la costituzione di istituzioni sovranazionali che abbiano tutti i poteri necessari per indirizzare l’economia verso forme di cooperazione che non guardino più alla crescita delle singole economie (o al PIL), ma alla formazione di una economia transnazionale solidale.
Parole–chiave:
liberalismo inclusivo, compromesso socialdemocratico, partito politico.
In un recente volume dal titolo Liberalismo inclusivo Michele Salvati e Norberto Dilmore, muovendo dall’analisi dei problemi posti dalla pandemia da Covid e dalla crisi climatica del pianeta, hanno proposto una linea di politica economica, definibile come «liberalismo inclusivo», in grado di coniugare i principi del libero mercato con la lotta alle diseguaglianze sociali. In questa prospettiva, il «liberalismo inclusivo» risulterebbe una riproposizione di quel compromesso socialdemocratico che ha dominato le politiche nazionali negli anni del secondo dopoguerra.
La Grande Crisi Finanziaria degli anni 2008-2009 e l’attuale pandemia hanno, di fatto, messo in discussione l’idea che le regole del libero mercato (o di un capitalismo ormai liberato da ogni condizionamento statale) fossero in grado di garantire da sola il pieno sviluppo delle economie occidentali. E, se ancora dopo la Grande Crisi, sembravano possibili e praticabili soluzioni neo-liberiste, oggi non è più possibile immaginare che il libero mercato possa funzionare senza il supporto dello Stato. Sennonché, questa commistione di libero mercato e statalismo, lungi dal risolvere le diseguaglianze economiche (come immaginano Salvati e Dilmore) e lungi dal dar vita ad un «liberalismo inclusivo», di fatto, si risolve nella formazione di un sistema politico che accresce le proprie funzioni di controllo non per riorganizzare e riclassificare gli obiettivi del sistema produttivo, ma per garantire alle potenze economiche private il pieno controllo della produzione e della finanza. In realtà, non si realizza un nuovo compromesso socialdemocratico, ma una forma politica autoritaria il cui fine ultimo è preservare il libero mercato dal pericolo di una unificazione politica del mondo del lavoro, che oggi appare più che mai frantumato e privo di una rappresentanza politica.
Per comprendere i limiti della prospettiva neo-liberista (proposta da Salvati e Dilmore) è, forse, opportuno ricostruire brevemente la storia economica dal dopoguerra a oggi, per comprendere meglio i caratteri del compromesso socialdemocratico e le ragioni del suo disfarsi.
Occorre, infatti, aver presente che dopo la Seconda guerra mondiale l’egemonia economica e politica degli Usa favorì lo sviluppo, anche nei paesi europei, di un sistema economico centrato sulla produzione di massa, sugli alti salari e sulla crescita dei consumi. In Italia si avviò un processo economico-sociale che favorì la crisi della rendita fondiaria, la crescita del benessere sociale e l’inclusione dei ceti subalterni nella vita sociale. Cresceva la produttività. Crescevano i salari e i consumi.
Una simile dinamica economica e sociale era, certo, sollecitata dalla necessità di ostacolare la diffusione dell’ideologia comunista tra i ceti popolari e di contrastare la organizzazione politica di tali ceti. Il persistere del mito di una società egualitaria e la presa di tale mito tra i ceti più deboli imponeva alle classi dirigenti di contrastare le diseguaglianze sociali, per impedire l’affermarsi. di tendenze rivoluzionarie.
Non a torto, Franco De Felice ha potuto definire un tale modello di sviluppo: un «modello militarizzato» fondato sulla logica amico-nemico. La presenza del pericolo comunista, da un lato, sollecitava i ceti dominanti a svolgere una lotta contro le diseguaglianze sociali, per impedire il coagularsi delle forze di opposizione; da un altro lato, legittimava l’esclusione di settori consistenti della società dal governo dell’economia. Tuttavia, la stessa formazione di una società centrata sulla Grande Fabbrica e sul lavoro di massa comportava il riconoscimento e l’inclusione delle classi produttrici (anche se in funzione subalterna) e richiedeva un patto tra le principali classi sociali che, pur conservando le differenze politiche e ideali, garantisse una crescita unitaria del sistema economico-sociale. La caratteristica fondamentale del compromesso socialdemocratico consisteva nella realizzazione di una crescita economica dell’intera comunità nazionale. Una crescita legittimata dallo stesso svolgersi di un confronto politico (aspro e tuttavia rispettoso delle regole della democrazia costituzionale) intorno alle linee di politica economica e al programma sociale da realizzare. .
Queste politiche di crescita produttiva (e di eutanasia del rentier, come dicono Salvati e Dilmore); questa lotta alle diseguaglianza comincia a venir meno a metà degli anni ’70, quando alla costante crescita dei salari non corrispondeva più una eguale crescita della produttività. Si creava, allora, una situazione di stagnazione e inflazione che rende necessaria e indispensabile una trasformazione del compromesso socialdemocratico. Trasformazione resa possibile dall’indebolirsi della forza contrattuale delle classi lavoratrici.
Tale indebolirsi della forza contrattuale delle classi lavoratrici dipendeva, fondamentalmente, da due fattori: 1) dal formarsi di una interdipendenza tra le economie nazionali che, unita all’assenza di una politica sindacale europea unitaria, accentuava la concorrenza non solo tra le imprese ma soprattutto tra i lavori, rendendo più difficile la loro unificazione politica; 2) dalla trasformazione dei partiti socialdemocratici in partiti che non rappresentavano più le classi lavoratrici, ma i ceti medi benestanti. E il risultato di una tale mutazione dei partiti socialdemocratici aveva come effetto che veniva tralasciata la battaglia per politiche economiche egualitarie, con la conseguenza che la rappresentanza politica dei ceti popolari (che nella formazione di mercati sovranazionali individuavano la principale causa del ridimensionamento del potere d’acquisto dei salari) veniva conquistata dai partiti nazionalisti e populisti.
In realtà, con il nuovo secolo si viene registrando una crisi delle rappresentanze politiche e dei partiti. Crisi di rappresentanza che (anche a causa del terrore diffuso a causa della pandemia) consentirà di derubricare le ragioni dei conflitti sociali e giustificherà l’emergere di un autoritarismo politico sottratto ad ogni forma di controllo. Si realizzerà, così, la vittoria di Carl Schmitt su Hans Kelsen, del decisionismo politico sulla democrazia parlamentare. E tutto questo comporterà lo stravolgimento del ruolo dei partiti e dello stesso Parlamento.
Storicamente la democrazia di massa e dei partiti si era affermata contro una democrazia elitaria (fatta prevalentemente da notabili). Certo! La democrazia dei partiti non aveva mai costituito una situazione idilliaca. Ma nella fase attuale i partiti non assolvono più al loro antico compito di mediare gli interessi e le passioni e di tentare la configurazione di un interesse collettivo. Essi non si preoccupano più di unificano le forze sociali, ma rappresentano solo gli interessi particolari di ristrette élites. Per queste ragioni, il «popolo» immagina di poter esprimere direttamente la propria volontà attraverso una leadership che si fa espressione e portavoce delle sue passioni. Esso cerca un Capo che rappresenti «senza alcuna mediazione» le sue aspirazioni. Senonché, è proprio questa volontà e questo desiderio di «democrazia diretta» a produrre il disfacimento delle istituzioni e dello stesso assetto della società civile. Le decisioni politiche non sono più il risultato trasparente di un pubblico dibattito, ma si attuano nelle «segrete stanze» occupate da elites sempre più ristrette. Ritorna la democrazia dei notabili. La politica si fa strumento di interessi particolaristici e si riduce a un puro calcolo delle possibilità e delle strategie da praticare per raggiungere il successo personale.
Il ruolo dei partiti si è, dunque, intorbidato. Non contribuiscono a connettere società civile e società politica, popolo e istituzioni, ma servono solo per consentire a gruppi limitati di occupare il potere. E invece di riformare e democratizzare gli apparati dello Stato, essi sono risucchiati entro la logica autoritaria di questi stessi apparati. Di fatto, è caduta quella funzione di democratizzazione della vita politica e sociale che Kelsen attribuiva ai partiti. Kelsen, infatti, immaginava che compito dei partiti fosse quello di selezionare classi dirigenti capaci di organizzare, neutralizzare e mediare gli interessi particolari in funzione di un interesse (o di una volontà) universale. «Per Kelsen – ha scritto Filippo Pizzolato –, l’individuo isolato non ha politicamente alcuna esistenza reale e i partiti sono esattamente il rimedio a tale inesistenza, in quanto gli individui, associandosi gli uni con gli altri, vi trovano una qualche chance di influire sulla costruzione della cosa pubblica. I partiti sono pertanto, per Kelsen, la condicio sine qua non della democrazia in quanto integrano i cittadini nella sfera istituzionale. In particolare, i partiti kelseniani devono svolgere questa funzione presidiando la rappresentanza politica. Posta infatti la constatazione della irriducibile diversità degli interessi sociali, Kelsen, decisamente scettico verso la possibilità di perseguire un interesse generale inteso come sintesi superiore, vede nei partiti e nel loro operato entro le sedi istituzionali la possibilità di perseguire compromessi, mediante un uso prudente del principio di maggioranza. Per Kelsen, insomma, grazie alla presenza dei partiti, il parlamento diviene il luogo del confronto e infine del compromesso fra interessi sociali e visioni plurali. Così argomentando, Kelsen consuma una fondamentale rottura (che, in Italia, secondo altri itinerari, produrrà Mortati) con una radicata tradizione giuridica, che vede in Carl Schmitt un autorevole “campione”, che invece imputava al consolidamento dei partiti una irreversibile decadenza dello Stato moderno» [Pizzolato, pp. 25-26].
Queste funzioni, che Kelsen attribuisce ai partiti, oggi si sono decisamente offuscate. Le loro funzioni mediatrici si risolvono in accordi tra potentati economici e capi-partito. Se, a metà del secolo scorso, Schumpeter aveva valorizzato la funzione dei partiti nel selezionare le classi politiche dirigenti, ora questi gruppi dirigenti sono solo e soltanto diretta espressione di oligarchie economiche. Anzi, come direbbe Gaetano Mosca, non sono più gli elettori a scegliere i gruppi dirigenti (gli «eletti»), ma sono gli amici degli stessi eletti a scegliere gli elettori. E i partiti non sono più luoghi di elaborazione di idee e di programmi politici e non offrono più spazi per aggregare i cittadini, ma divengono agenzie elettorali. Di conseguenza, si sviluppa una verticalizzazione dell’azione politica e tutto è rimesso nelle mani di pochi leader.
È, dunque, l’indebolirsi delle organizzazioni e della rappresentanza politica dei ceti popolari (e, più in generale, la riconversione dei cittadini in sudditi) a rendere, oggi, assai improbabile la formazione di un nuovo compromesso socialdemocratico (o di un «liberalismo inclusivo»). L’assenza di uno dei contraenti del compromesso rende impossibile sia la ricostruzione di una politica inclusiva sia la chiara progettazione di una lotta contro le diseguaglianze sociali e civili. Quell’antico compromesso si fondava sull’esistenza di un soggetto politico alternativo, che era interesse delle stesse classi dominanti includere nella vita democratica. Ma, venuto meno tale soggetto e venuta meno l’utopia socialista (e, dopo il crollo del muro di Berlino, anche il pericolo comunista), l’idea stessa di politiche contro le diseguaglianze esce di scena. Il compromesso socialdemocratico diviene inutile.
È, inoltre, l’assenza di un soggetto alternativo a consentire di affrontare la Grande Crisi Finanziaria del 2008-2009 con gli strumenti di una strategia economica ancora una volta deflattiva e liberista. Una tale strategia, però, di fronte all’emergenza-Covid e di fronte alla questione ecologica non può essere riproposta in maniera invariata. La soluzione di tale emergenza e di tale questione non può essere affidata al libero mercato e all’iniziativa individuale, ma richiede il coinvolgimento e la partecipazione dell’intero genere umano, pena il mancato raggiungimento degli obiettivi. Tali questioni, infatti, dovrebbero essere aggredite da politiche solidaristiche che trasformino le tecniche di produzione e rovescino le logiche di redistribuzione delle risorse.
Oggi, l’interesse di una crescita collettiva comporta che lo Stato debba riuscire a indirizzare una gran parte delle risorse economiche in settori strategici per il benessere collettivo (l’istruzione, la sanità, la giustizia). Il che richiede, innanzitutto, una più equa fiscalità e la forza di intervenire nel mercato finanziario e di mutare gli indirizzi produttivi. Tutto ciò non implica né il rovesciamento degli assetti proprietari né la partecipazione dei lavoratori (o dei sindacati) all’amministrazione delle grandi aziende. Richiede, più semplicemente, il ripristino di una dialettica politica e sociale che renda chiaro ai cittadini le questioni della crescita sociale (e della stessa sopravvivenza individuale) che sono in giuoco. In breve, richiede il riconoscimento del fatto che il permanere della dialettica politica tra i partiti è indispensabile per impedire la trasformazione dei cittadini in sudditi. Sennonché, occorre subito aggiungere che, mancando la presenza politica e organizzata di partiti di massa, è appunto tale trasformazione dei cittadini in sudditi ad essere in corso.
Ma, come è possibile il rovesciamento di strategie economiche liberiste se – come abbiamo detto – è scomparso il soggetto portatore di una progettualità alternativa al libero mercato? Ciò che si viene affermando è, in effetti, una strategia politica decisionista che, nel mentre potenzia la capacità di determinazione, di controllo e di intervento degli apparati dello Stato, garantisce e preserva il funzionamento del libero mercato e dell’individualismo acquisitivo. Avviene così che con il libero mercato si coniughi una crescita dei poteri centrali legittimata dalle stesse emergenze (pandemia, questione ecologica) che attraversano il mondo contemporaneo. Senonché, se le questioni indicate non vengono affrontate con il rovesciamento delle strategie liberiste e individualistiche (ovvero, con un mutamento delle forme di produzione), il rischio è che quelle questioni perdurino o tornino a ripresentarsi continuamente.
È indubbio che, nella fase attuale, molti economisti siano disposti a riconoscere la necessità di abbandonare le tradizionali politiche neo-liberiste e di ripristinare politiche neo-keynesane che riprendano la lotta contro le diseguaglianze e propongano una rivisitazione del vecchio compromesso socialdemocratico. Le analisi e gli auspici di Michele Salvati e Norberto Dilmore sembrano auspicare un tale rovesciamento di prospettiva, suggerendo le linee di un «liberalismo inclusivo». Ma tale nuova prospettiva di politica economica è, oggi, resa impraticabile dalla scomparsa di quei «partiti di massa» che riassumevano in sé le competenze tecniche per governare lo sviluppo e le istanze sociali dei ceti più deboli. Senza tali soggetti politici il “liberalismo inclusivo” non ha alcuna forza politica. Un nuovo compromesso socialdemocratico può fondarsi solo su una “democrazia dei partiti”: solo sull’ordinato confronto tra soggetti politici di massa. Senza tale democrazia prevalgono interressi lobbistici. E la stessa lotta alle diseguaglianze finisce con l’essere affidata alla all’arbitrio (più che alla machiavelliana «Virtù») di un qualche nuovo Monarca.
Per combattere le diseguaglianze e il Covid e per affrontare la questione ecologica, occorre sviluppare politiche sociali che intervengano su strutture quali la scuola e la sanità. Occorrono decisioni che scaturiscano da un confronto politico tra tutte le componenti sociali. Ma un tale confronto, a sua volta, ha bisogno della presenza di partiti politici territorialmente strutturati. Solo così si può dire che le decisioni politiche siano democraticamente fondate. E tutto ciò – come ha osservato Massimo Cacciari – «comporta che ci siano soggetti in conflitto tra loro». Oggi, invece, si assiste ad una «neutralizzazione del conflitto». E, in verità, la paura che attraversa le Nazioni a causa della pandemia consente un attacco alla democrazia partecipata e «conflittuale», al diritto al lavoro e alle persone. Un attacco che rimette in discussione anche quella libertà dalla paura e dal bisogno (di cui parlava Roosvelt) che, coniugata alla libertà di religione e di parola, costituiva uno dei principi fondamentali delle democrazie occidentali.
BIBLIOGRAFIA
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De Felice, F., L’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 2003.
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Piketty, T,, Il Capitale del XXI secolo, a cura di S. Arecco, Bompiani, Milano 2014.
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Agricoltura e ambiente nella sfida epocale della sostenibilità fra crisi climatica e geopolitica. 24 e 25 giugno 2022 Aula Magna Silvio Trentin, Ca’ Dolfin, Dorsoduro 3825/E, VENEZIA Convegno in […]
Convegni e Master
24 e 25 giugno 2022
Aula Magna Silvio Trentin, Ca’ Dolfin, Dorsoduro 3825/E, VENEZIA
Convegno in presenza: per partecipare è necessario registrarsi entro le ore 17.00 di mercoledì 21 giugno 2022.
L’evento è stato accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Venezia che ha riconosciuto 3 CF per il giorno 24 giugno e 2 CF per il giorno 25 giugno 2022.
Il Convegno sarà l’occasione per presentare la nuova edizione del Master in diritto dell’ambiente e del territorio e del Master in amministrazione e gestione della fauna selvatica (a.a. 22/23) i cui bandi sono reperibili ai siti www.unive.it/master-ambiente e www.unive.it/master-fauna.
Comitato scientifico: Marco Goldoni e Marco Olivi
Segreteria Direzione didattica ed organizzativa: Avv. Roberta Agnoletto e Avv. Giuseppina Marcelletti
L’evento si terrà in italiano
Dipartimento di Economia, Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali, Master in diritto dell’ambiente e del territorio, Master in amministrazione e gestione della fauna selvatica, A.I.C.D.A.
MANUALE OPERATIVO SUGLI APPALTI. MARCO TERREI e ROSALIA TERREI Dott. Marco Terrei Consulente senior in società partecipate. 30 anni nella Pubblica Amministrazione di cui gli ultimi 10 nella gestione di appalti pubblici. Pubblica […]
Convegni e Master Libri
MANUALE OPERATIVO SUGLI APPALTI.
MARCO TERREI e ROSALIA TERREI
Dott. Marco Terrei Consulente senior in società partecipate. 30 anni nella Pubblica Amministrazione di cui gli ultimi 10 nella gestione di appalti pubblici.
Pubblica regolarmente articoli su riviste giuridiche nella materia degli appalti, grazie alla profonda conoscenza del diritto amministrativo, e ha acquisito una lunga esperienza nell’organizzazione e gestione di procedure che hanno ad oggetto interventi realizzati a mezzo Partenariato Pubblico Privato.
Tiene, da tempo, corsi di formazione ed aggiornamento ad utenti di vari enti pubbliche e società private.
Avv. Rosalia Terrei Avvocato da circa 11 anni, con esperienza in ambito civilistico. Ha svolto corsi di formazione in enti privati accreditati per il conseguimento di attestati professionalizzanti. Inoltre ha prestato consulenza presso pubbliche amministrazioni in materia di diritto delle persone e familiare.
Attualmente frequentate del corso abilitante (COA VI) alla professione di segretario comunale.
Il manuale ha l’obbiettivo di accompagnare gli operatori della PA e i soggetti privati nella predisposizione e gestione della procedura d’appalto. Priva di tecnicismi l’opera accompagna, attraverso esempi pratici, il lettore già nella fase iniziale in cui è necessario scegliere la procedura in ragione dell’oggetto della gara. Viene descritta con dovizia di particolari la fase di predisposizione della documentazione amministrativa e tecnica da pubblicare e per ogni documento è data, in forma sintetica, una descrizione del documento e della sua funzione nella procedura. Per quanto riguarda gli operatori economici, a questi è dedicata un’intera sezione che analizza la modalità di compilazione della documentazione e la sua presentazione nella fase della propria candidatura, con particolare attenzione alle fattispecie che nel tempo sono state oggetto di contenzioso amministrativo.
Alla fase della gara è dedicata una parte corposa del testo nel quale ogni momento viene descritto dettagliatamente avendo cura di accompagnare ognuna di queste fasi con le più recenti sentenza dei tribunali amministrativi. All’uopo sono stati dedicati focus di approfondimento volti a chiarire questioni dibattute.
IL SERVIZIO DI GESTIONE DEI RIFIUTI IN PUGLIA E I PROVVEDIMENTI DI RIDISTRIBUZIONE DEI FLUSSI DELL’AGER: PROBLEMATICHE APPLICATIVE E SPUNTI DI RIFLESSIONE. Amina Tridente Sommario: 1. Breve introduzione: la disciplina generale del servizio […]
Diritto Ambientale Dottrina Enti Locali e P.A. Fascicoli Fascicolo n.3/2022
IL SERVIZIO DI GESTIONE DEI RIFIUTI IN PUGLIA E I PROVVEDIMENTI DI RIDISTRIBUZIONE DEI FLUSSI DELL’AGER: PROBLEMATICHE APPLICATIVE E SPUNTI DI RIFLESSIONE.
Amina Tridente
Sommario: 1. Breve introduzione: la disciplina generale del servizio di gestione dei rifiuti. 2. La L.R. Puglia N. 24/2012: il rapporto tra l’agenzia territoriale della Regione Puglia per il servizio di gestione dei rifiuti (AGER) e gli enti locali. 3. I provvedimenti di ridistribuzione dei flussi dei rifiuti adottati dall’AGER: inquadramento giuridico e problematiche applicative.
ABSTRACT – Il presente contributo, dopo un breve accenno alla disciplina generale del servizio di gestione dei rifiuti, si sofferma sull’analisi della Legge Regione Puglia n.24/2012 (come modificata dalla L.R. n.20/2016), in particolare, sulla natura del rapporto giuridico che si instaura tra l’ente locale e l’Autorità deputata alla gestione del ciclo integrato dei rifiuti (AGER), sulla natura dei provvedimenti vincolanti emessi dall’AGER e sull’effetto di tali provvedimenti sul rapporto tra ente locale e gestore dell’impianto di smaltimento dei rifiuti.
ABSTRACT – This contribution, after a brief reference to the general regulation of the waste management service, focuses on the analysis of the Puglia Region Law n.24 / 2012 (as amended by Regional Law n.20 / 2016), in particular, on the nature of the legal relationship that is established between the local authority and the Authority responsible for the management of the integrated waste cycle (AGER), on the nature of the binding measures issued by the AGER and on the effect of these measures on the relationship between the local authority and the manager of the waste disposal plant.
Breve introduzione: la disciplina generale del servizio di gestione dei rifiuti.
Un contributo che abbia ad oggetto il servizio di gestione di rifiuti e, in particolare, alcuni aspetti di questo, non può prescindere da una – breve e senza pretesa di esaustività – ricostruzione dell’ambito di interesse e, nei suoi tratti generali, del sistema rifiuti.
Il servizio di gestione dei rifiuti, infatti, appartiene alla categoria dei servizi pubblici locali di interesse economico generale – c.d. SIEG1 -, che costituiscono quelle attività economiche finalizzate al soddisfacimento di un interesse generale che, per essere eseguite nel rispetto dei principi di qualità, sicurezza, accessibilità economica e parità di trattamento, richiedono necessariamente l’intervento della pubblica amministrazione. La definizione positiva dei SIEG è data dal combinato disposto delle lettere h) e i) dell’art. 2, comma 1 del D.Lgs. 175/2016 (Testo Unico società a partecipazione pubblica)2.
Questo servizio, inoltre, rientra nella particolare categoria dei SIEG “a rete”, che si caratterizzano per l’indispensabile presenza di infrastrutture fisiche in assenza delle quali non sarebbe possibile l’erogazione dei servizi e che, in considerazione della loro particolare natura ed incidenza dei costi sulla collettività, sono sottoposti alla regolazione di autorità indipendenti: nel caso dei rifiuti, le funzioni di regolazione e controllo sono attribuite all’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente – ARERA3.
Un aspetto fondamentale che caratterizza il settore dei rifiuti, e che vedremo avere un rilievo diretto nell’inquadramento giuridico degli atti adottati in questo ambito, è la sua organizzazione secondo un modello di governance multilivello, disciplinato dalla Parte IV del D.Lgs. 152/2006. Il legislatore ha dedicato un intero capo alla definizione delle competenze statali, regionali, provinciali e comunali nell’attività di gestione dei rifiuti urbani, assegnando allo Stato le funzioni di indirizzo e di coordinamento, alle Regioni quelle di pianificazione (piani regionali di gestione dei rifiuti) e di controllo, alle ex Province il controllo di esercizio, ai Comuni la regolamentazione operativa attraverso l’approvazione del regolamento comunale per la gestione dei rifiuti.
Il citato decreto legislativo prevede, altresì, un livello intercomunale individuato negli Ambiti Territoriali Ottimali (ATO), perimetrati dalle Regioni almeno su base provinciale, salva la possibilità di prevedere estensioni inferiori giustificate in base ai principi di proporzionalità, adeguatezza ed efficienza, nonché in base a criteri di differenziazione territoriale e socio-economica.
Nel parametrare gli ATO, le Regioni devono altresì tener conto dei criteri individuati dall’art. 200 del Codice dell’Ambiente: superamento della frammentazione gestionale, adeguate dimensioni gestionali, ottimizzazione della circolazione di rifiuti, caratteristiche territoriali della produzione di rifiuti, delimitazioni preesistenti.
Per ogni ATO le Regioni devono altresì designare un Ente di Governo (EGATO) che provveda all’organizzazione dei servizi, alla scelta della modalità di gestione, alla determinazione delle tariffe, all’affidamento della gestione, alla stipula del contratto di servizio e alla gestione e controllo (art. 3-bis, comma 1-bis, del D.L. n. 138/2011, introdotto dall’art. 34 del D.L. n. 179/2012)4.
Per la Regione Puglia, dopo un primo dimensionamento, di cui alla L.R. n. 14/2011, richiamato dalla L.R. 24/2012, con la L.R. 12/2016 (“Disposizioni in materia di gestione del ciclo dei rifiuti. Modifiche alla legge regionale 20 agosto 2012, n.24”) si è istituito un unico ATO per la gestione del ciclo dei rifiuti, coincidente con l’intero territorio regionale, sopprimendo contestualmente i sei ATO provinciali (BA-BAT-BR-FG-LE-TA).
Alla costituzione dell’ATO unico si è affiancata l’istituzione di un’Agenzia territoriale regionale per l’esercizio delle funzioni pubbliche relative al servizio di gestione dei rifiuti precedentemente esercitata dall’Organo di governo, composto dai Sindaci dei comuni dell’ATO o loro delegati (art. 9 della L.R. 24/2012).
All’Agenzia territoriale della Regione Puglia per il servizio di gestione dei rifiuti (d’ora in poi anche solo AGER) è stato conferito l’esercizio associato delle funzioni pubbliche relative al servizio di gestione dei rifiuti urbani, previste dal D.Lgs. 152/2006, che espleta quale organo unico di governo cui partecipano obbligatoriamente la Regione, tutti i comuni e la Città metropolitana.
Nei paragrafi che seguono ci soffermeremo sulla struttura e suoi poteri dell’AGER.
Ritornando al servizio di gestione rifiuti, questo comprende le attività di raccolta, trasporto, trattamento, recupero e smaltimento e può essere organizzato in modo integrato per l’intero ciclo (inclusa la gestione e la realizzazione degli impianti), oppure mediante l’affidamento dei singoli segmenti.
Per quanto riguarda le modalità di affidamento del servizio in forma integrata ovvero dei singoli servizi, il riferimento generale per la disciplina applicabile è rappresentato dalla normativa europea relativa alle regole concorrenziali minime per le gare ad evidenza pubblica, che affidano la gestione di servizi pubblici di rilevanza economica (Corte cost., sentenza n. 24 del 2011), mentre il riferimento particolare è dato dal rispetto delle prescrizioni previste dal Codice Ambiente e dalla normativa specifica di settore.
Secondo la normativa dell’Unione europea, l’affidamento è consentito:
mediante procedure ad evidenza pubblica, secondo le disposizioni in materia di appalti e concessioni di servizi con affidamento a terzi;
a società mista pubblico-privata, la cui selezione del socio privato avvenga mediante gara a doppio oggetto;
a gestione diretta da parte dell’ente locale, cosiddetta gestione “in house”, purché sussistano i requisiti previsti dall’ordinamento comunitario e vi sia il rispetto dei vincoli normativi vigenti. In particolare, la giurisprudenza comunitaria consente la gestione diretta del servizio pubblico allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE), in presenza dei seguenti requisiti:
La competenza a decidere quale modalità di affidamento utilizzare è attribuita all’ente locale o all’EGATO sulla base di una relazione, da rendere pubblica sul sito internet dell’ente stesso, che deve dare conto “delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche (se previste)” (art. 34, commi 20-25 del D.L. n. 179 del 2012, convertito da L. n.221/2012).
La previsione dell’obbligo di pubblicazione della relazione consente di verificare se la discrezionalità utilizzata nella scelta della modalità di affidamento sia stata esercitata nel rispetto dei principi eurounitari di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi. Inoltre, la relazione di cui innanzi deve essere inviata all’Osservatorio per i servizi pubblici locali, istituito presso il Ministero dello sviluppo economico (art. 13, co. 25-bis, D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 9/2014).
Non è invece giunto a conclusione il tentativo di riordinare in modo organico le disposizioni vigenti, al fine di chiarire le regole applicabili in materia per le amministrazioni e gli operatori del settore. Infatti, la norma di delega per l’adozione di un Testo unico dei servizi pubblici locali – artt. 16 e 19 della legge 7 agosto 2015 n. 124 – non ha concluso il proprio iter nel corso della XVII legislatura, anche alla luce della sopravvenuta giurisprudenza costituzionale sulle forme di coinvolgimento delle Regioni nel percorso istitutivo7.
La L.R. PUGLIA N. 24/2012 e la novella del 2016: il rapporto tra ARO, Agenzia territoriale della Regione Puglia per il servizio di gestione dei rifiuti (AGER) e enti locali.
2.1. – Con la L.R. 24/2012 la Puglia ha regolamentato i servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti, con l’obiettivo di garantire l’accesso universale, la salvaguardia dei diritti degli utenti, l’uso efficiente delle risorse e la protezione dell’ambiente8.
A tal fine sono stati trasposti a livello regionale i provvedimenti nazionali in materia di affidamento del servizio di gestione dei rifiuti urbani, stabilendo alcuni principi e attribuendo competenze, sia pure con rimando al Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti Urbani. Nello specifico, la normativa è diretta attuazione della disposizione contenuta nell’art. 3-bis della L. n. 148/2011 e ss.mm.ii., che poneva in capo alle Regioni ed alle Province autonome l’obbligo di organizzare lo svolgimento dei servizi pubblici locali, ridisegnando il sistema di governance previgente, provvedendo ad individuare nel territorio di competenza ambiti territoriali, ottimali ed omogenei, che potessero garantire un efficientamento del servizio attraverso il conseguimento di adeguate dimensioni gestionali.
Quindi è stato introdotto un sistema di regole finalizzato ad uniformare le gestioni secondo standard elevati di servizio, tariffe integrate e di importo contenuto, nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale in relazione alle modalità di affidamento.
In particolare, con riferimento all’organizzazione del ciclo dei rifiuti, erano ridefiniti (sul piano delle competenze) gli Ambiti Territoriali Ottimali (ATO), già oggetto di un primo dimensionamento con la L.R. 14/20119, fino a divenire sei. All’interno di questi ambiti sono organizzati ed erogati i servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti, i cui singoli profili (spazzamento, raccolta, trasporto, recupero, riciclo e smaltimento) sono organizzati all’interno di bacini di diversa dimensione a seconda della tipologia del servizio preso in considerazione.
È stato disposto che i servizi relativi alla prima fase della filiera, ovvero raccolta, spazzamento e trasporto, fossero organizzati ed erogati a livello di Ambiti di Raccolta Ottimale (ARO), questi ultimi individuati a livello sub-provinciale in ossequio ai principi di differenziazione, adeguatezza ed efficienza. Il fine che giustifica l’individuazione di ARO all’interno degli ATO (oggi unitario) era – ed è – proprio quello di consentire una maggiore aderenza al contesto territoriale, pur con l’intento di superare la perdurante frammentazione organizzativa e gestionale mediante processi di aggregazione della domanda e dell’offerta.
In sede di prima attuazione, la perimetrazione degli ARO, quale articolazione interna degli ATO, era stata disposta dalla Giunta Regionale con DGR n.2147 del 23 ottobre 2012: erano così definiti complessivamente 38 ARO in tutta la Regione, compresi i sei capoluoghi di provincia, che fanno ARO a sé (8 per la provincia di Bari, 8 per Foggia, 11 per Lecce, 3 per la BAT, 3 per Brindisi e 5 per Taranto).
Gli ulteriori servizi (trattamento, recupero, riciclo e smaltimento), invece, erano demandati agli Organi di governo d’ambito (OGA) da istituirsi su scala provinciale10, a cui erano altresì riconosciuti poteri di organizzazione e programmazione dei servizi. Al contempo, le funzioni di regolamentazione e controllo erano attribuite all’Autorità Regionale per la regolamentazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, quale soggetto terzo, di cui era disposta l’istituzione ai sensi dell’art. 7. Quest’ultima, tuttavia, non è mai stata istituita, motivo per il quale con successiva L.R. n. 20/2016, la Regione Puglia ha abrogato la disposizione che ne prevedeva l’istituzione.
La L.R. n. 24/2012, pur alle soglie della sua entrata in vigore, era interessata da una necessaria modifica, portata dalla L.R. 42/2013, con la quale la Regione Puglia, prendendo atto della dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 4 del D.L. n. 138/2011 determinata dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 199 del 20 luglio 201211, ha adeguato la legislazione regionale alle modalità di affidamento dei servizi oggetto di normazione.
2.2. – L’esperienza della legge del 2012 aveva portato alla luce molteplici criticità del sistema di gestione dei servizi di raccolta e smaltimento rifiuti, che hanno condotto all’approvazione della novella del 2016. In particolare, era emerso come gli Organi di governo d’ambito avessero presentato non poche criticità riconducibili all’assenza di personalità giuridica12 e, al contempo, non erano mancate problematiche gestionali e decisionali negli organi assembleari dei Comuni, che si sono poste come impedimento alla realizzazione dell’impiantistica del ciclo di gestione dei rifiuti.
La poca incisività degli Organi di Governo d’Ambito determinerà, come vedremo nel prosieguo, l’individuazione di caratteristiche molto diverse per l’Agenzia Territoriale che verrà costituita, proprio per consentire il concreto svolgimento dei compiti a questa affidati.
Prima ancora dell’approvazione della novella del 2016, le problematiche applicative e gestionali emerse avevano indotto il Presidente della Regione a commissariare (con decreto n. 114 in data 29 febbraio 1016) tutti gli Organi di Governo d’Ambito, nelle more della modifica della legge regionale, con specifico riferimento alla governance della gestione del ciclo dei rifiuti13.
Con L.R. n. 20/2016, dunque, il legislatore regionale è intervenuto per risolvere le ridette problematiche, riducendo i sei ATO provinciali ad un ambito unico di livello regionale, cui corrisponde l’affidamento dei servizi della seconda parte della filiera (trattamento, recupero, riciclo e smaltimento), che potrà essere organizzata prendendo in considerazione le caratteristiche e le esigenze dell’intero territorio regionale, in base ad una valutazione organica ed unitaria.
In tal senso, e in coerenza con questo nuovo assetto, all’art. 9 della L.R. n. 20/2016 è stata disposta la soppressione degli Organo di Governo provinciali ed è contestualmente stata istituita l’Agenzia territoriale della Regione Puglia per il servizio di gestione dei rifiuti (AGER), soggetto pubblico dotato di personalità giuridica e autonomia tecnico-giuridica, amministrativa e contabile, cui sostanzialmente sono state demandate le funzioni di organizzazione dello svolgimento dei ridetti servizi.
Le competenze dell’AGER sono individuate dal citato art. 9, comma 7, in base al quale spetta all’Agenzia:
– determinare le tariffe per l’erogazione dei servizi di competenza, in conformità alla disciplina statale conformandole a principi di contenimento e agli eventuali criteri generali fissati dalle autorità nazionali di regolazione settoriale;
– determinare e controllare i livelli generali del servizio e degli standard di qualità, nonché la predisposizione dello schema-tipo dei bandi di selezione pubblica e dei contratti di servizio;
– disciplinare i flussi di rifiuti indifferenziati da avviare a smaltimento e dei rifiuti da avviare a recupero da frazione organica del rifiuto solido urbano (FORSU) e riciclaggio, secondo criteri di efficienza, di efficacia, di economicità e di trasparenza nel rispetto delle indicazioni del Piano regionale;
– predisporre i meccanismi di soluzione alternativa delle controversie tra imprese e utenti nel rispetto di quanto previsto dal codice degli appalti pubblici; assicurando altresì la consultazione delle organizzazioni economiche, ambientali, sociali e sindacali del territorio e collabora con le autorità o organismi statali di settore;
– predisporre le linee guida della Carta dei servizi;
– (facoltà) espletare, su delega delle Aree omogenee, le procedure di affidamento del servizio unitario di raccolta, spazzamento e trasporto dei rifiuti solidi urbani;
– (facoltà) espletare attività di centralizzazione delle committenze nonché attività di committenza ausiliarie;
– subentrare nei contratti stipulati dal Commissario delegato per l’emergenza ambientale in Puglia, aventi come oggetto la realizzazione e la gestione degli impianti di trattamento, recupero, riciclaggio e smaltimento dei rifiuti urbani.
L’AGER, diversamente da quanto previsto per gli Organi di Governo d’Ambito, ha personalità giuridica di diritto pubblico e autonomia tecnico-giuridica; è dotata di un’apposita struttura tecnico-operativa, organizzata per articolazioni territoriali, che si sostiene attraverso i contributi dei partecipanti e che può avvalersi di uffici e servizi della Regione e degli enti locali, eventualmente messi a disposizione in seguito alla sottoscrizione di un’apposita convenzione.
Tra l’altro, all’AGER compete l’affidamento del servizio di gestione degli impianti di recupero, riciclaggio e smaltimento e la determinazione delle tariffe per l’erogazione dei servizi di competenza. Inoltre, predispone, le linee guida per la definizione delle Carte dei servizi da parte degli enti competenti.
2.3. – L’aspetto di particolare rilievo ai fini del presente contributo, una volta inquadrati i livelli di organizzazione regionale per il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, è proprio quello del rapporto tra questi diversi “ambiti” ed i punti di (s)connessione che, come si vedrà nel capitolo che segue, possono portare a problematiche applicative di non poco momento.
Come stabilito dall’art. 9 cit., l’AGER è istituito quale organo unico di governo per l’esercizio associato delle funzioni pubbliche relative al servizio di gestione dei rifiuti urbani, cui partecipano obbligatoriamente la Regione e tutti i comuni e la Città metropolitana.
Questo disegna una cessione di potere da parte degli enti coinvolti all’Agenzia che, nell’ambito delle competenze disegnate dalla norma, potrà agire senza il consenso degli enti locali, pur incidendo direttamente sui loro territori di competenza. Del resto, e a ben vedere, gli stessi enti locali che cedono una porzione di competenza sono componenti attivi e obbligatori dell’AGER che detti poteri assume, potendo esercitare a loro volta i poteri di vigilanza e propositivi di cui all’art. 14 L.R. 24/2012.
Tale conclusione è pienamente aderente a quanto è previsto in relazione al ciclo integrato di gestione dei rifiuti dall’art.198 del D.Lgs. n.152/2006 e ss.mm.ii. che, al comma 1, prevede che “I comuni concorrono, nell’ambito delle attività svolte a livello degli ambiti territoriali ottimali di cui all’articolo 200 e con le modalità ivi previste, alla gestione dei rifiuti urbani …”.
L’ente locale pertanto si atteggia quale “soggetto attuatore” delle previsioni di pianificazione, agevolando l’implementazione e la messa in atto di quanto previsto dai contratti di servizio derivanti dagli affidamenti di competenza degli enti sovraordinati (ARO sub-provinciale per i servizi di raccolta e AGER regionale per i servizi impiantistici di trattamento, recupero, riciclaggio e smaltimento).
Il comune, quindi, è ente sottordinato, che deve realizzare e accogliere le indicazioni (vincolanti) che pervengono dagli enti sovraordinati cui, in virtù della normativa nazionale e regionale, ha conferito (spogliandosene) il potere decisorio e organizzatorio.
Tale conclusione, propria dei sistemi gerarchici, come quello disegnato da ultimo con la novella del 2016 per la Puglia, impone un notevole livello di coordinamento e la pur sempre presente consapevolezza della necessità di un ruolo attivo di tutti gli ingranaggi del meccanismo disegnato dal legislatore.
In tal senso depone anche il testo del già citato art. 14 della L.R. 24/2012, come modificato nel 2016, in base al quale: “… I comuni partecipano obbligatoriamente alla gestione associata dei servizi ed esercitano le seguenti funzioni negli organi collegiali:
a) individuano la modalità del servizio di raccolta, spazzamento e trasporto relativi alle aree omogenee di raccolta;
b) approvano la Carta dei servizi in conformità alle linee guida di cui all’articolo 9, comma 7, lettera e);
c) controllano le modalità di esecuzione dei servizi da parte del gestore e redigono una relazione annuale;
d) gestiscono le attività di informazione e consultazione obbligatorie previste dalla normativa vigente;
e) approvano il piano economico finanziario relativo alla gestione del servizio unitario di raccolta, trasporto e smaltimento;
f) avviano processi di consultazione con le organizzazioni sindacali rappresentative sulle modalità di esecuzione dei servizi di raccolta, spazzamento e trasporto dei rifiuti solidi urbani, nonché sulle eventuali proposte attinenti alla Carta dei servizi;
g) approvano gli atti e i provvedimenti attinenti al servizio di raccolta, spazzamento e trasporto dei rifiuti solidi urbani esplicitati negli atti costitutivi della forma associativa prevista;
h) formulano proposte e osservazioni al Comitato dei delegati per la gestione dei servizi di trattamento, recupero, riciclaggio e smaltimento dei rifiuti solidi urbani nel rispetto di quanto previsto dal PRGRU (…omissis…).
Le deliberazioni validamente assunte nei competenti organi assembleari delle Aree omogenee non necessitano di ulteriori deliberazioni, preventive o successive, da parte degli organi degli enti locali in ottemperanza a quanto disposto dall’articolo 3 bis, comma 1 bis, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148”.
Più in dettaglio, le competenze del comune sono puntualmente indicate nel comma 2 dell’art. 198 del D.Lgs. n.152/2006 e ss.mm.ii. e sono relative alle modalità operative di raccolta e conferimento dei rifiuti solidi urbani da parte degli utenti, da stabilire con appositi regolamenti che, nel rispetto dei principi di trasparenza, efficienza, efficacia ed economicità e in coerenza con i piani territoriali, consentano il raggiungimento degli obiettivi di legge.
Nel quadro di ripartizione di competenza, non da ultima si inserisce la Regione che esercita il controllo sugli enti locali e sull’Agenzia, anche in via sostitutiva, attraverso i Commissari ad acta.
Una volta nominato, il Commissario “esercita tutti i poteri e le facoltà che le leggi attribuiscono all’organo monocratico o collegiale surrogato, approva gli atti tecnico-amministrativi propedeutici all’attivazione dell’affidamento del servizio di raccolta, spazzamento e trasporto dei rifiuti solidi urbani a livello di ARO, emana i provvedimenti necessari per il funzionamento della struttura tecnico-amministrativa e per la governance dell’Area omogenea, esercita tutte le funzioni surrogabili affidate all’Agenzia” (art. 14 bis, comma 4, L.R. n. 24/2012).
I provvedimenti di ridistribuzione dei flussi dei rifiuti adottati dall’AGER: inquadramento giuridico e problematiche applicative.
Inquadrato – seppur sommariamente – l’ambito del servizio di gestione dei rifiuti e la piramide che il legislatore ha disegnato per la ripartizione di competenze e poteri, si passa all’analisi di un profilo che, sebbene possa apparire esclusivamente rilevante sul piano gestionale, consente di esaminare un’ipotesi concreta all’interno della quale opera in via problematica la suddetta ripartizione di competenze e la correlata cessione di potere.
Come abbiamo già visto, tra i compiti che la legge regionale attribuisce all’AGER, troviamo quello di “disciplinare i flussi di rifiuti indifferenziati da avviare a smaltimento e dei rifiuti da avviare a recupero da FORSU e riciclaggio, secondo criteri di efficienza, di efficacia, di economicità e di trasparenza nel rispetto delle indicazioni del Piano regionale” e il compito di “determinare le tariffe per l’erogazione dei servizi di competenza, in conformità alla disciplina statale conformandole a principi di contenimento e agli eventuali criteri generali fissati dalle autorità nazionali di regolazione settoriale”.
Spetta, dunque, all’AGER decidere il piano degli impianti cui conferire i rifiuti da avviare a smaltimento e quelli da avviare a recupero, in quanto rientrante nella seconda parte della filiera che deve essere organizzata prendendo in considerazione le caratteristiche e le esigenze dell’intero territorio regionale, in base ad una valutazione organica ed unitaria in attuazione dei principi di prossimità e di autonomia impiantistica dell’ATO unico, così come – per le medesime ragioni – spetta sempre all’AGER determinarne il peso economico (con l’approvazione delle tariffe14).
A fronte dei provvedimenti relativi alla disciplina dei flussi di rifiuti e di determinazione delle tariffe, lo spazio di delibazione che residua ai Comuni, di fatto, è nullo: a rigore, e richiamando le considerazioni di cui al punto precedente, l’ente locale dovrà solo prendere atto delle determinazioni assunte dall’AGER quale ente sovraordinato cui sono stati ceduti i poteri de quibus, cooperando con questo come previsto dall’art.198 del D.Lgs. 152/2006 e ss.mm.ii. già citato.
Il piano della ‘cooperazione’, però, ha indotto non pochi problemi pratici.
Non è infrequente nella prassi che il provvedimento di redistribuzione dei flussi di rifiuti adottato dall’AGER, con il quale – per intenderci – si indichi un destino diverso da quello individuato in sede di pianificazione originaria, per motivi di necessità o di migliore organizzazione, comporti la sottoposizione a tariffe diverse, con un possibile incremento di spesa. Inoltre, una redistribuzione dei flussi causa l’inserimento di un interlocutore (anche indiretto) diverso da quello in precedenza noto all’ente locale, imponendo a quest’ultimo una presa d’atto e la sottoscrizione dei relativi contratti di conferimento (anche per adesione) che, più che giustificare l’esercizio del diritto, hanno la funzione a spiegare la spesa nella contabilità dell’ente locale.
Di fatto, pur a fronte dell’atto impositivo dell’AGER, si potrebbe ipotizzare che residuino spazi gestionali a carico dell’ente locale che, al fine di ottemperare all’obbligo di cooperazione e di agevolare la gestione integrata del ciclo dei rifiuti, dovrebbe formalizzare la presa d’atto della determinazione di redistribuzione e sottoscrivere i relativi accordi.
Ebbene, nella prassi l’ente locale, pur formalmente notiziato dei provvedimenti di redistribuzione dei flussi e invitato ad assumere i correlati amministrativo/gestionali, spesso resta assolutamente inerte, fino a spiegare perfino opposizione avverso le richieste di pagamento elevate dal gestore dell’impianto (cui è stato affidato il flusso di rifiuti all’esito del provvedimento di redistribuzione), deducendo la mancata assunzione della spesa e l’inoperatività diretta del provvedimento dell’AGER, entità estranea al rapporto economico insorgendo, ma il cui operato ne ha direttamente imposto la costituzione.
Una tale posizione impone, richiamate le conclusioni già raggiunge all’esito del secondo capitolo del presente lavoro, di qualificare gli atti adottati dall’AGER nell’esercizio del potere normativamente conferito.
Dunque, l’ente locale – che partecipa obbligatoriamente all’AGER – ha rinunciato ad una sua quota di potere a favore dell’Agenzia regionale al fine di consentire la pianificazione unitaria e efficiente della ultima fase della gestione dei rifiuti (trattamento, recupero, riciclo e smaltimento), pertanto si pone nei confronti dell’AGER quale ente sottordinato, che deve adeguarsi a quanto disposto dall’ente sovraordinato.
Il conferimento all’AGER della delega del “potere di organizzazione e gestione dei flussi di rifiuti” ha come contraltare la perdita di potere e potestà decisionale in questo specifico ambito da parte degli enti locali, che pure da queste decisioni sono direttamente interessati.
Infatti, nel momento in cui l’AGER notifica un provvedimento di redistribuzione del flusso di rifiuti (o anche di una singola sigla di questi), per ragioni connesse all’esercizio del singolo impianto di destinazione, l’ente (assieme all’impresa che di fatto si occupa della raccolta e del conferimento dei rifiuti) dovrebbe prendere atto del provvedimento e sottoscrivere il relativo contratto per obbligarsi (formalmente) al pagamento delle quote spettanti al gestore del nuovo impianto di destino, calcolate sulle base delle tariffe approvate (sempre dall’AGER). Il fatto che l’ente resti inerte a tali incombenti non elide la forza impositiva del vincolo creato con l’emanazione del ridetto provvedimento.
Si può serenamente assumere che, trattandosi di atto impositivo iure imperii, in quanto proveniente dall’ente sovraordinato cui è stato ceduto il potere dispositivo come sopra individuato, non è necessaria alcuna accettazione, ovvero sottoscrizione e/o attività da parte dell’ente locale per rendere operativo il portato del provvedimento stesso, né per legittimare la relativa spesa che resta a carico dell’ente locale, quale diretta conseguenza delle determine (sempre dell’AGER) che hanno definito le tariffe.
Il contratto la cui sottoscrizione è auspicata dall’Agenzia, che vedrebbe coinvolto l’ente locale e il nuovo impianto individuato a seguito di redistribuzione, non è dunque necessario per la costituzione del rapporto giuridico, ma solo ai fini organizzativi interni e contabili tanto dell’ente locale che del gestore del nuovo impianto di destino.
Un aspetto che non può ritenersi marginale per meglio inquadrare la questione giuridica analizzata, attiene alla natura del servizio di cui si discorre, che è un servizio pubblico necessario e insopprimibile (neanche temporaneamente) al pari dell’impianto. L’Ente locale non ha alcuna potestà decisionale sul soggetto cui destinare il flusso di rifiuti, né sulle tariffe da questo applicate, perché entrambi gli aspetti sono frutto dell’esercizio della potestà decisionale dell’AGER, i cui poteri rinvengono direttamente dalla gerarchia interna disegnata dal legislatore e dal conferimento (e dalla correlata perdita) dei poteri da parte degli enti interessati.
L’effetto diretto è che, anche ove l’ente locale non formalizzi la presa d’atto del provvedimento di redistribuzione ovvero non sottoscriva un contratto che regoli il “nuovo” rapporto tra ente e impianto di destinazione dei flussi di rifiuti, il rapporto obbligatorio si dovrà ritenere comunque instaurato validamente ai sensi dell’art. 1173 c.c., secondo cui può essere fonte delle obbligazioni “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.
Tra i fatti e gli atti idonei a costituire l’obbligazione vi è sicuramente il provvedimento amministrativo adottato dall’AGER nei confronti dell’ente locale e dell’impianto di ricezione del flusso: la particolarità di detto provvedimento è che esso è il frutto dell’esercizio del potere autoritativo, quale atto iure imperii, che dipende direttamente dalla posizione di supremazia che l’ente sovraordinato occupa rispetto all’ente locale.
La connotazione dell’attività autoritativa esplicata dall’AGER è il precipitato logico delle finalità per cui gli enti locali stessi hanno ceduto porzioni di potere, cioè il perseguimento di finalità pubblicistiche, il cui esercizio unitario ed uniforme consente il rispetto ed il contemperamento anche delle esigenze specifiche e singolari.
Opinare in senso opposto, concedendo all’ente locale uno spazio di sindacato sulle attività dell’AGER (ovviamente nei confini disegnati dalla normativa) e uno spazio operativo che potenzialmente si possa porre come strumento di paralisi delle attività de qua, è distonico rispetto alle finalità della legge e agli stessi obiettivi perseguiti con l’istituzione dell’AGER.
Tanto più che è la stessa L.R. n. 24/2012 all’art. 9 a disporre che l’AGER assume validamente le proprie deliberazioni senza necessità di deliberazioni, preventive o successive, da parte degli organi degli enti locali.
Ancor più di frequente, i Comuni che sono destinatari dei ridetti provvedimenti di redistribuzione, pur non prendendo atto formalmente del nuovo interlocutore, se ne servono e fruiscono del servizio erogato: in questi casi si conferma l’imperatività del provvedimento adottato dall’AGER e l’assoluta indifferenza dell’esistenza del contratto al fine dell’insorgenza delle relative obbligazioni, anche di pagamento.
Anzi, ove il Comune che pure si è giovato dei servizi del nuovo operatore, si rifiuti di corrispondere quanto previsto con l’applicazione delle tariffe (anch’esse vincolanti perché frutto dell’esercizio del potere autoritativo dell’AGER) adducendo quale motivazione l’assenza del contratto scritto, incorrerebbe in una ipotesi di mala fede e scorrettezza pretendendo di dar esecuzione al provvedimento amministrativo solo per la parte relativa al conferimento e non già per quella collegata al relativo impegno di spesa.
In tali casi, il mancato pagamento degli oneri dovuti al gestore del nuovo impianto di destino, individuato dal provvedimento AGER di ridistribuzione dei flussi di rifiuti, configurerebbe certamente un’ipotesi di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c, atteso che è evidente che l’ente locale che ha usufruito del servizio e non ha corrisposto alcuna somma, ne ha tratto un rilevante vantaggio economico. Del resto, è principio pacifico che nei confronti della PA non possano essere rese prestazioni a titolo gratuito, né è concepibile, nel nostro ordinamento, il perdurare di situazioni di iniquità evidente generata da arricchimenti senza causa o da spostamenti patrimoniali ingiustificati.
Potrebbe obiettarsi che il mancato pagamento giustificato dall’assenza del contratto determini il verificarsi dell’ipotesi prevista dall’art. 191, comma 4, del Testo Unico degli Enti Locali, comportando quindi l’impossibilità per il gestore del nuovo impianto di destino di agire ex art. 2041 c.c., attesa la natura residuale di tale azione.
Sul punto, in primo luogo si evidenzia che il principio generale che prevede la forma scritta ad substantiam per la validità dei contratti della pubblica amministrazione, si applica ogni qual volta quest’ultima agisca iure privatorum nell’ambito della normativa vigente in materia di contratti pubblici, precisamente nel Regio Decreto n. 2440/1923 e nel D.Lgs. n. 50/2016: è evidente che la situazione esaminata nel presente elaborato esuli dalla materia dei contratti pubblici, trattandosi appunto di azione amministrativa iure imperii.
In secondo luogo, l’art. 191, comma 4, del TUEL dispone che in caso di acquisizione di beni e servizi in violazione dell’obbligo di previa assunzione del relativo impegno contabile registrato sul competente programma del bilancio di previsione e dell’attestazione della copertura finanziaria, il rapporto obbligatorio – e quindi l’obbligo di pagamento – ricade “sull’amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura”, per la parte di prestazione non riconoscibile quale debito fuori bilancio15.
Invero, quindi, per le ragioni esposte nel presente approfondimento – precisamente la necessaria e obbligatoria delega di competenza effettuata dall’ente locale nei confronti dell’AGER, ed il conseguente esercizio dei poteri delegati senza necessità di preventiva o successiva approvazione da parte dell’ente delegante – l’azione prevista dall’art. 191, comma 4, del TUEL non è applicabile in situazioni del genere, mentre è certamente configurabile l’azione ex art. 2041 c.c.
Infatti, è fuor di ogni dubbio che non è individuabile “amministratore, funzionario o dipendente” dell’ente locale che, in violazione degli obblighi di cui all’art. 191 del TUEL, abbia ordinato la spesa, e ciò perché l’obbligo del conferimento presso il nuovo impianto di destino non discende da un atto interno del detto ente locale, bensì dal provvedimento dell’AGER, adottato in conformità alla delega ricevuta e quale forma di esercizio del potere amministrativo iure imperii.
Né si potrebbe affermare che la delega di competenza operata in favore di AGER determini l’assunzione in capo all’Agenzia di obblighi di natura patrimoniale, in ragione del contenuto chiaro ed inequivocabile – definito ex lege – della delega stessa.
Conseguentemente, la spesa relativa al conferimento dei rifiuti presso il nuovo impianto di destino individuato dal provvedimento dell’AGER, è certamente una spesa riconoscibile fuori bilancio ai sensi dell’art. 194 del TUEL e come tale indennizzabile ai sensi del 2041 del c.c.
Infatti, affinché la domanda di indebito arricchimento nei confronti della PA possa essere accolta, devono sussistere i seguenti requisiti:
1. arricchimento ingiustificato che nel caso di specie consiste in un risparmio di spesa, atteso che l’ente locale usufruisce di un servizio senza sopportarne i relativi costi;
2. impoverimento del danneggiato determinato dal fatto che, a fronte del servizio reso, il gestore del nuovo impianto di destino non ha ricevuto il relativo pagamento, effettuato quindi un’operazione in perdita;
3. il rapporto di causalità tra l’arricchimento e il depauperamento;
4. previo riconoscimento, da parte della P.A., dell’utilità della prestazione eseguita in suo favore16.
A parere di scrive, nel caso di specie, il riconoscimento dell’utilità della prestazione è il presupposto logico-giuridico dell’adozione del provvedimento di ridistribuzione dei flussi: esso infatti è adottato dall’AGER a seguito della valutazione sullo stato di fatto degli impianti, in attuazione dei principi di efficacia, efficienza, economicità, trasparenza, prossimità e autonomia impiantistica dell’ATO unico.
L’ente locale potrebbe liberarsi dall’obbligazione di pagamento sostenendo che “ha rifiutato l’arricchimento o non abbia potuto rifiutarlo, perché inconsapevole dell’eventum utilitatis17”, ma ci si chiede – a questo punto – quale valore avrebbe tale assunto, in ragione dell’assenza in capo allo stesso ente della specifica competenza ad assumere decisioni e/o deliberazioni in tale ambito a seguito della delega obbligatoria operata in favore dell’AGER.
Da ultimo, ma non di meno importanza, vi è un altro elemento che depone a favore della sussistenza dell’obbligo di pagamento in capo all’ente locale: il principio generale di derivazione comunitaria “chi inquina paga” codificato nel D.Lgs. 152/2006.
Tale principio pervade l’intera materia del diritto ambientale sulla cui base è costruito il sistema di gestione dei rifiuti, disciplinato in modo tale da garantire che tutti i costi relativi al ciclo di smaltimento siano sopportati dal produttore individuato, appunto, nell’ente locale conferitore.
Note:
1 Sulla categoria cfr. G. F. Cartei, Il servizio universale, Milano, 2002, pp. 258 e ss.; G. Caggiano, La disciplina dei servizi di interesse economico generale: contributo allo studio del modello sociale europeo, Torino, 2008; F. Trimarchi Banfi, I servizi pubblici nel diritto comunitario: nozione e principi, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2008, 1063; L. Bertonazzi e R. Villata, Servizi di interesse economico generale, in Tratt. Dir. amm. eur., a cura di M. P. Chiti e G. Greco, IV, 2ª ed., Milano, 2009, pp. 1791 ss.; D. Gallo, I servizi di interesse economico generale. Stato mercato e welfare nel diritto dell’Unione europea, Milano, 2010; L. Ceraso, I servizi di interesse economico generale e la concorrenza ‘limitata’: profili interni, comunitari e internazionali, Napoli, 2010; F. Merusi, Regolazione dei servizi d’interesse economico generale nei mercati (parzialmente) liberalizzati: una introduzione; D. Sorace, Servizi pubblici economici nell’ordinamento nazionale ed europeo, alla fine del primo decennio del 21° secolo; F. Donati, Servizi di interesse economico generale: prospettive di evoluzione del modello regolatorio europeo; E. Bruti Liberati, Servizi di interesse economico generale e regolatori indipendenti, in E. Bruti Liberati e F. Donati (a cura di), La regolazione dei servizi di interesse economico generale, Torino, 2010. Più recentemente, G. Marchianò, Occorre cambiare tutto perché nulla cambi: la tormentata vicenda dei sieg, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2013, 1021.
2 Art. 2, comma 1, D.Lgs. 175/2016: “Ai fini del presente decreto si intendono per:
(…omissis…) h) «servizi di interesse generale»: le attività di produzione e fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell’ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale;
i) «servizi di interesse economico generale»: i servizi di interesse generale erogati o suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su un mercato (…omissis…)”.
3 Legge 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, commi da 527 a 530).
4 L’adesione al EGATO è obbligatoria e comporta la delega piena dell’esercizio delle funzioni di cui all’art. 14 comma 27 lett. f) del D.L. 78/2010: l’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani); tale ente quindi rappresenta l’unico soggetto competente ad esercitare le funzioni di organizzazione dei servizi, di scelta della forma di gestione, di determinazione delle tariffe all’utenza (per quanto di competenza), di affidamento e controllo della gestione.
5 Il controllo si definisce analogo quando l’aggiudicante esercita sull’affidatario un controllo di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante sui propri uffici.
6 Art. 17 della Direttiva 2014/23/UE e art. 12 della Direttiva 2014/24/UE; vedasi anche il Parere Consiglio di Stato nr. 298/2015.
7 Sulle norme della legge n. 124 del 2015 rilevanti in materia cfr. H. Bonura G. Fonderico, Le partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche e i servizi pubblici locali di interesse economico generale, in Giornale di diritto amministrativo, 2015, 651.
8 Art. 1, L.R. 24/2012: “La Regione Puglia promuove lo sviluppo dei servizi pubblici locali a rilevanza economica con l’obiettivo di garantire l’accesso universale, la salvaguardia dei diritti degli utenti, l’uso efficiente delle risorse e la protezione dell’ambiente.
La presente legge regolamenta e organizza, in conformità con i principi definiti dalla disciplina dell’Unione europea e in attuazione della disciplina statale, lo svolgimento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Sono sottoposti alla presente legge i servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti e i servizi di trasporto pubblico locale.
I servizi sono organizzati ed erogati all’interno di Ambiti territoriali ottimali (ATO) al fine di consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l’efficienza del servizio.
I soggetti cui viene affidata la gestione dei servizi pubblici locali sono individuati attraverso procedure, conformi ai principi dell’UE e alle vigenti norme statali settoriali, aperte e trasparenti, volte a garantire un effettivo sviluppo della concorrenza nella salvaguardia del diritto di accesso universale ai servizi pubblici e dei diritti degli utenti.
La Regione assicura la piena e leale collaborazione con l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, con le autorità nazionali preposte alla regolazione e alla vigilanza nei singoli settori e con gli enti locali.
La programmazione e l’organizzazione dei servizi pubblici locali di cui alla presente legge è riservata all’Organo di governo d’ambito di cui all’articolo 6 (d’ora in poi Organo di governo), nel rispetto delle prerogative assegnate alla Regione dalla legislazione statale. La regolazione e il controllo sulla gestione dei servizi pubblici locali spettano all’Autorità regionale di cui all’articolo 7 (d’ora in poi Autorità), nel rispetto delle prerogative della Regione, delle comunità e degli enti locali. Restano ferme le funzioni di indirizzo politico e le competenze amministrative in materia di concessioni e autorizzazioni attribuite alle Regioni e agli enti locali dalla legislazione nazionale e regionale. 8. Nel presente capo sono riportate le norme comuni a entrambe le tipologie di servizi pubblici oggetto della presente disciplina, fatte salve le specificazioni dettate, per ognuna di esse, nei capi secondo e terzo”.
9 Articolo 31, primo comma: “A partire dal 1° gennaio 2012, gli Ambiti territoriali ottimali (ATO) del ciclo dei rifiuti sono ridotti a complessivi sei, ognuno dei quali coincidente con il territorio di ciascuna provincia pugliese.”
10 Parte II, capitolo 2 “Le Azioni sul ciclo integrato”, Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti Urbani approvato con delibera di Consiglio Regionale n. 204 del 8 ottobre 2013: “La configurazione industriale del settore è caratterizzata dalla coesistenza di due fasi del ciclo tecnologicamente molto diverse: la fase dei servizi (spazzamento e raccolta, trasporto) e quella impiantistica (trattamento, recupero e smaltimento).
La prima è costituita prevalentemente da attività di tipo labour intensive, con dei tempi di recupero degli investimenti effettuati molto brevi presentando una componente di capitale non elevata; al contrario la parte impiantistica e infrastrutturale evidenzia presenta delle attività di tipo capital intensive poiché necessita di impianti complessi ad alto contenuto tecnologico con tempi di ammortamento consistenti.
… Per la gestione ed erogazione del servizio di gestione integrata e per il perseguimento degli obiettivi determinati dall’Autorità d’ambito, sono affidate, ai sensi dell’articolo 202 e nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale sull’evidenza pubblica, le seguenti attività:
a) la realizzazione, gestione ed erogazione dell’intero servizio, comprensivo delle attività di gestione e realizzazione degli impianti;
b) la raccolta, raccolta differenziata, commercializzazione e smaltimento completo di tutti i rifiuti urbani e assimilati prodotti all’interno dell’ATO.
Il Decreto, dunque, disponeva una forzata integrazione verticale di tutto il ciclo a priori, quasi auspicando un affidamento unico per l’intera gestione del ciclo, non considerando le differenze tecnologiche e organizzative tra il segmento dei servizi e il segmento impiantistico, che configurano due mercati distinti.
Come conseguenza, a 6 anni dalla vigenza del D.Lgs. 152/06, in Puglia non si è mai attuata una completa integrazione verticale dei servizi, anche in ragione della gestione Commissariale che ha provveduto all’affidamento degli impianti di smaltimento, avviata dal 2004 e conclusa con la piena operatività degli impianti previsti nella pianificazione nel 2010.
Ad oggi, in ragione delle concessioni vigenti degli impianti di smaltimento e della gestione dei servizi di raccolta affidate nella gran parte dei casi dai Comuni (tranne alcune eccezioni come l’ATO BR2), si ha una assoluta divisione tra le due fasi del ciclo integrato. In sostanza si è proceduto parallelamente per la fase di raccolta e per la fase di trattamento dei rifiuti indifferenziati ad attribuire diritti di esclusiva (per 9 anni per la raccolta e per 15 anni per il trattamento), attraverso procedure di gara ad evidenza pubblica, garantendo la cd. concorrenza “per il mercato”.
11 Con la sentenza n. 199 del 20 luglio 2012, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’intero articolo 4 del decreto legge n. 138/2011 recante “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”, convertito con la legge n. 148/2011, bocciando quindi – su istanza di cinque regioni (Puglia, Lazio, Marche, Emilia Romagna, Umbria e della Regione autonoma della Sardegna) la vigente normativa sui servizi pubblici locali di rilevanza economica. Come osservato dalla Corte costituzionale nella ridetta sentenza, la norma censurata conteneva una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata e letteralmente riproduttiva di svariate disposizioni dell’abrogato art. 23-bis oltre che del suo regolamento di attuazione, DPR 168/2010.
12 Gli Organi di Governo d’Ambito, infatti, erano costituiti con convenzione ex art. 30 TUEL, e pertanto non dotati di autonomia tecnico giuridica, amministrativa e contabile.
13 Si leggano i lavori preparatori alla L.R. 12/2016, nei quali si espongono le criticità sopra accennate e si individuano le caratteristiche del nuovo intervento normativo: “… il presente disegno di legge modifica innanzi tutto la perimetrazione dell’ambito territoriale ottimale individuando il territorio regionale, quale dimensione ottimale per consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l’efficienza del servizio, e conseguentemente modifica anche l’organo di governo e l’assetto organizzativo dello stesso, istituendo l’Agenzia regionale che avrà i compiti propedeutici all’attuazione del piano regionale di gestione dei rifiuti urbani in modo da consentirne la chiusura del ciclo. L’introduzione di questa misura consente di perseguire le finalità della normativa vigente concernente l’omogeneizzazione degli standard tecnici ed economici dei servizi attinenti al ciclo di gestione dei rifiuti urbani, nonché la costituzione di un Ente, ovvero l’Agenzia, dotato di una struttura tecnico-amministrativa dedicata alla realizzazione dell’impiantistica, alla disciplina dei flussi di rifiuti ed all’espletamento delle procedure di affidamento, le cui modalità saranno individuate dai Comuni nelle forme previste dalla normativa vigente.
Tale impianto normativo, tra l’altro, mira a ottimizzare l’attività gestionale relativa all’affidamento dei servizi di raccolta, spazzamento e trasporto dei rifiuti solidi urbani, attraverso l’attribuzione all’Agenzia dei compiti attinenti all’espletamento degli affidamenti dei servizi predetti, consentendo in tal modo una forma di controllo delle procedure più organica, unica e a tutela della concorrenza e trasparenza nel rispetto delle normative nazionali vigenti nonché delle determinazioni delle Autorità competenti di controllo.
In riferimento ai poteri sostitutivi vengono introdotte le modalità di espletamento degli stessi da parte dei Commissari ad acta, nominati con deliberazione di Giunta regionale, al fine di consentire forme di consultazione idonee a favore dei Comuni, titolari delle funzioni relative ai servizi del ciclo di gestione dei rifiuti urbani, limitando l’adozione di atti monocratici.
In relazione all’impiantistica ed alla disciplina dei flussi, il presente disegno di legge prevede l’attivazione immediata dell’Agenzia, quale accorpamento degli OGA aventi dimensione provinciale, e già commissariati, la cui gestione nel breve-medio periodo sarà affidata ad un Commissario ad acta nominato con decreto dal Presidente della Giunta Regionale, il quale espleterà le funzioni attinenti all’attivazione dell’Agenzia, quali la costituzione degli organi previsti e della struttura tecnico-amministrativa al fine di consentire il pieno funzionamento a regime dell’Ente per assolvere agli indirizzi del Consiglio di Bacino e dell’Assemblea dei delegati, nel rispetto di quanto previsto dallo Statuto; inoltre al Commissario sono demandate le funzioni attribuite con Decreto n. 114 del ai Commissari degli OGA, nonché i compiti attribuiti all’Agenzia dal presente disegno di legge.
Tale disposizione rappresenta una misura di accelerazione dell’avvio della nuova governance volta a strutturare l’Agenzia, rendendola operativa nel breve termine per i Comuni titolari delle funzioni, nonché a dare immediata attuazione al PRGRU estinguendo le criticità presenti nel ciclo di gestione dei rifiuti urbani nel territorio regionale. …”.
14 L’AGER determina le tariffe sulle base di quanto stabilito dal Metodo Tariffario Rifiuti adottato dall’ARERA; per il periodo 2022-2025, l’ARERA ha adottato il MTR con deliberazione n. 363/2021. Cfr. sul tema delle tariffe e della relativa copertura dei costi L. Vergine, Il principio della copertura dei costi nella revisione della tariffa dei rifiuti urbani, in Altalex.com, 29 maggio 2021.
15 Ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), il servizio o il bene acquisito in violazione degli obblighi di cui all’art. 191 è riconoscibile quale debito fuori bilancio “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza”.
16 In merito a tale ultimo requisito, si evidenza che in Giurisprudenza vi era un contrasto tra la posizione maggioritaria che riteneva necessaria la sussistenza di tale requisito, al fine di evitare spese non deliberate dall’ente pubblico nei modi previsti dalla legge e senza la previsione dell’apposita copertura finanziaria; la corrente minoritaria indicava – invece – come non fosse necessario prevedere l’ulteriore requisito del riconoscimento dell’utilità dell’opera o del servizio, in quanto l’oggetto dell’accertamento del giudice era il fatto oggettivo dell’arricchimento. Tale contrasto è stato risolto con la sentenza a Sezioni Unite n.10798 del 26/05/2015 a favore della tesi minoritaria: “In tale prospettiva il riconoscimento da parte della P.A. dell’utilità della prestazione o dell’opera può rilevare non già in funzione di recupero sul piano del diritto di una fattispecie negoziale inesistente, invalida o comunque imperfetta – trattandosi di un elemento estraneo all’istituto – bensì in funzione probatoria e, precisamente, ai soli fini del riscontro dell'”imputabilità dell’arricchimento all’ente pubblico. Mentre le esigenze di tutela delle finanze pubbliche e la considerazione delle dimensioni e della complessità dell’articolazione interna della pubblica amministrazione, che l’espediente giurisprudenziale del riconoscimento dell’utilitas ha inteso perseguire, possono essere adeguatamente coniugate con la piena garanzia del diritto di azione del depauperato, nell’ambito del principio di diritto comune dell’arricchimento imposto, in ragione del quale l’indennizzo non è dovuto se l’arricchito ha rifiutato l’arricchimento o non abbia potuto rifiutarlo, perché inconsapevole dell’eventum utilitatis.”
17 Cassazione civile, Sezioni Unite n.10798 del 26/05/2015, cit.
IL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI E IL G.P.P. – REQUISITI DI PARTECIPAZIONE E DI ESECUZIONE NELLA RECENTE EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE. Giuseppina Cinieri ABSTRACT. “La Pubblica Amministrazione è il più grande consumatore delle moderne società”. […]
Diritto Amministrativo Dottrina Enti Locali e P.A. Fascicoli Fascicolo n.3/2022
IL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI E IL G.P.P. – REQUISITI DI PARTECIPAZIONE E DI ESECUZIONE NELLA RECENTE EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE.
Giuseppina Cinieri
ABSTRACT. “La Pubblica Amministrazione è il più grande consumatore delle moderne società”. Il presente studio, dopo una breve analisi del rapporto in termini evolutivi tra la società civile, le autorità pubbliche e l’impresa industriale da una parte e l’ambiente dall’altra, rapporto che nel tempo ha certamente orientato la politica in materia ambientale, si occupa del Green Public Procurement, ovvero “Appalti Verdi” quale strumento di sviluppo sostenibile mediante cui le pubbliche amministrazioni cercano di ottenere beni, servizi e opere con un impatto ambientale ridotto per l’intero ciclo di vita. Dopo avere illustrato il quadro normativo europeo e nazionale in materia di appalti verdi, l’elaborato analizza le principali norme del Codice dei Contratti Pubblici (D.Lgs. n. 50 del 18 aprile 2016) rivolte alla costruzione di una procedura di gara nel rispetto dei criteri di sostenibilità ambientale e i più recenti interventi della magistratura amministrativa. L’elaborato si conclude con alcune riflessioni sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), strettamente connesse con l’oggetto del presente studio.
“Public Administration is the biggest consumer of modern societies”. This study, after a brief analysis of the relationship in evolutionary terms between civil society, public authorities and the industrial enterprise on the one hand and the environment on the other, a relationship that over time has certainly oriented environmental policy, deals with Green Public Procurement, or “Green Procurement” as a tool for sustainable development through which public administrations seek to obtain goods, services and works with a reduced environmental impact for the entire life cycle. After presenting the European and national regulatory framework for green procurement, the paper analyzes the main rules of the Code of Public Contracts (Legislative Decree no. 50 of 18 April 2016) aimed at the construction of a tender procedure in compliance with the criteria of environmental sustainability and the most recent interventions of the administrative judiciary. The report concludes with some reflections on the National Recovery and Resilience Plan (PNRR), closely related to the subject of this study.
Sommario: 1. Introduzione. 2. Sviluppo Sostenibile. 3. Il Green Public Procurement (GPP). – Appalti verdi come strumento di sviluppo sostenibile. 4. La legislazione europea in materia di appalti verdi. 5. La legislazione italiana in materia di appalti verdi. 6. Il Codice dei Contratti Pubblici. 7. I requisiti di partecipazione e di esecuzione in un appalto pubblico: elementi differenziali. 8. I requisiti ambientali quali requisiti di partecipazione, di esecuzione e criteri di aggiudicazione: C.A.M.. 9. Riflessioni sul PNRR.
1.Introduzione.
“La Pubblica Amministrazione è il più grande “consumatore” delle moderne società. È subito evidente l’importanza di una politica pubblica di “Acquisti Verdi”.
Partendo dal concetto di Sviluppo Sostenibile che ha da tempo caratterizzato in termini evolutivi il rapporto tra società civile, autorità pubbliche e impresa industriale da una parte e l’ambiente dall’altra, il presente elaborato si occupa del Green Public Procurement, strategia economica di sviluppo sostenibile che ha l’obiettivo di integrare considerazioni di carattere ambientale nelle procedure di acquisto delle Pubbliche Amministrazioni; è cioè il mezzo per potere scegliere “quei prodotti e servizi che hanno un minore, oppure un ridotto, effetto sulla salute umana e sull’ambiente rispetto ad altri prodotti o servizi utilizzati allo stesso scopo.
L’elaborato prosegue con l’esame del quadro normativo di riferimento, sovranazionale e nazionale, delle principali norme del vigente Codice dei Contratti Pubblici dedicate agli acquisti verdi e dei più recenti e significativi interventi giurisprudenziali in materia di requisiti ambientali.
2. Sviluppo Sostenibile.
Nel corso del tempo si è assistito ad una continua evoluzione del rapporto tra la società civile, le autorità pubbliche e l’impresa industriale da una parte e l’ambiente dall’altra. Tale evoluzione è stata determinata da tre diverse tipologie di fattori tra loro consequenziali:
la presa di coscienza, soprattutto negli ultimi decenni, che i problemi di inquinamento e di deterioramento delle risorse naturali si sono aggravati notevolmente e, di conseguenza, che ciò ha comportato una maggiore attenzione sociale e politica verso la salvaguardia delle risorse naturali e la difesa dell’ambiente;
l’evolversi della normativa ambientale in senso sempre più restrittivo e vincolante, e l’incremento dei controlli sempre più incisivi e delle sanzioni sempre più pesanti. In modo particolare per le imprese aumentano le difficoltà dovendosi adeguare ad una legislazione in continua evoluzione sempre più farraginosa, e di difficile interpretazione;
la consapevolezza, da parte dell’impresa, che la variabile ambiente diventa sempre più importante e critica ai fini della sua competitività e della sua redditività.
Questi elementi hanno determinato dagli anni ’50 del secolo scorso fino ad oggi una progressiva evoluzione all’interno di questo rapporto, connotata da diverse fasi non sempre facilmente separabili e distinguibili per la coesistenza di elementi comuni.
Si passa da una prima fase, cosiddetta fase agnostica, collocata nel periodo della ricostruzione successiva al secondo conflitto mondiale e del boom economico, durante la quale non esiste ancora una legislazione in materia ambientale e il problema della salvaguardia ambientale viene completamente ignorato, ad una seconda fase, cosiddetta fase regolamentativa, nella quale la società e le autorità si rendono conto che la crescita industriale incide pesantemente sull’ambiente, ragion per cui si cerca di risolvere il problema dell’inquinamento con l’emanazione di alcune norme. Queste, tuttavia, non modificano sostanzialmente l’atteggiamento delle imprese, che pur impegnandosi al rispetto dei vincoli legislativi, non cambiano la loro impostazione mentale.
Verso la fine degli anni ’70 si entra nella fase del risanamento. Il livello di degrado ambientale non può più essere trascurato e, sotto le pressioni dell’opinione pubblica che diventava sempre più sensibile alle problematiche ambientali, le autorità si rendono conto che è necessario intervenire con maggiore decisione e incisività. In questa fase il principio ispiratore è “rimediare all’inquinamento esistente” attraverso un’ampia serie di provvedimenti di emergenza con lo scopo di contenere nel breve termine i danni causati all’ambiente.
Negli anni ’80 si passa, invece, alla fase di prevenzione. In questa fase l’atteggiamento prevalente delle autorità non è più rimediare all’inquinamento esistente, ma prevenirlo. Per cui, ad una legislazione di tipo vincolistico e punitivo si affiancano altri principi come:
principio di precauzione;
principio di responsabilità (chi inquina paga): la persona o l’organizzazione responsabile dell’inquinamento dovrà sostenere i costi necessari per rimediare ai danni provocati all’ambiente.
All’inizio degli anni novanta si entra nella cosiddetta fase di gestione, durante la quale si rafforza l’impegno verso lo sviluppo sostenibile come principio-guida. Si comincia ad avvertire, sia a livello pubblico che a livello privato, la necessità di adottare una vera e propria politica ambientale. Durante questa fase il tradizionale approccio di tipo comando e controllo, dominante nella legislazione ambientale degli anni ’70 e ’80, viene gradualmente sostituito con l’approccio sempre più fortemente orientato alla prevenzione, all’auto-controllo e alla responsabilizzazione degli operatori coinvolti. In questa fase la cultura prevalente tende a rivalutare lo sviluppo economico e riconosce che il sistema industriale può contribuire alla salvaguardia dell’ambiente. Questo tipo di impostazione richiede un quadro giuridico strutturato ed organico, sia a livello nazionale che a livello sovranazionale, con lo scopo di incentivare la green orientation delle imprese.
Intanto, le autorità della Comunità Europea approvano il Quinto Programma di azione in tema di protezione ambientale (1993/2001). Mentre i precedenti Programmi d’azione si basavano quasi esclusivamente su provvedimenti legislativi, il Quinto Programma sottolinea l’esigenza di allargare la gamma di strumenti utilizzati, proponendo in particolare quattro categorie:
strumenti legislativi
strumenti di mercato
strumenti orizzontali di supporto (ad es. migliori dati statistici, ricerca e sviluppo tecnologico, pianificazione settoriale e territoriale, informazione ed educazione del pubblico, istruzione e formazione del personale)
meccanismi di sostegno.
L’Italia, da parte sua, emana nel 1993 il primo “Piano nazionale per lo sviluppo sostenibile, in attuazione dell’Agenda 21”, che costituisce un esame dello stato di attuazione delle politiche ambientali.
Con l’inizio del nuovo millennio si entra nell’attuale fase della gestione integrata, durante la quale si comincia a considerare e ad attuare l’integrazione tra i fattori della qualità, della sicurezza, dell’ambiente e dell’etica, sia a livello pubblico che a livello privato.
In questo contesto viene approvato dalle autorità dell’Unione Europea il Sesto Programma d’azione per l’ambiente (2002/2010). I principi sui quali il Sesto Programma ha fondato le sue basi sono quelli ormai consolidati nella cultura ambientale comunitaria: sussidiarietà; chi inquina paga; precauzione; azione preventiva; riduzione dell’inquinamento alla fonte. La filosofia del Sesto Programma evidenzia due aspetti interessanti:
un completamento del concetto di sviluppo sostenibile. Non si tratta più solo di integrazione fra ecologia ed economia, ma di una qualità congiunta di ambiente globale, economia e sviluppo sociale;
la legislazione resta l’elemento centrale della tutela ambientale. Devono comunque essere considerati anche altri strumenti e l’attività legislativa deve fondarsi sulla migliore valutazione scientifica ed economica disponibile e sulla conoscenza dello stato dell’ambiente.
Dal Sesto Programma emerge anche che la Commissione Europea ha individuato nella Politica Integrata di Prodotto (Integrated Product Policy, IPP) un approccio in grado di dare un forte contributo alla tutela ambientale. L’IPP non si pone come un nuovo strumento di intervento da parte del decisore, pubblico o privato, quanto piuttosto come un nuovo approccio diretto ad analizzare e raccordare tra loro politiche esistenti focalizzate su varie fasi del ciclo di vita o sull’adozione di particolari strumenti. La Politica Integrata di Prodotto ha lo scopo di rafforzare ed orientare le politiche ambientali riguardanti i prodotti e i servizi per promuovere lo sviluppo di un mercato più “ecologico”, incentrandosi, a tal fine, sul sistema prodotto/servizio con un approccio basato sull’analisi del ciclo di vita; propone una serie di strumenti e strategie mirati ad indirizzare la progettazione, stimolare la domanda e l’offerta, favorire scelte informate dei consumatori e integrare le considerazioni economiche con quelle ambientali.
In questo scenario, la tutela dell’ambiente rientra certamente tra le priorità strategiche delle imprese trasformandosi così in opportunità competitiva e il ruolo delle autorità pubbliche diventa sempre più determinante per il raggiungimento di tale scopo.
Tra gli strumenti della IPP più adatti ad assecondare il ruolo delle autorità pubbliche in questo contesto c’è sicuramente quello degli Acquisti Pubblici Verdi (Green Public Procurement, GPP).
3. Il Green Public Procurement (GPP) – Appalti verdi come strumento di sviluppo sostenibile.
Il Green Public Procurement (GPP) rappresenta una particolare categoria di Public Procurement in cui la selezione dei prodotti e servizi tende a ridurre al minimo gli impatti ambientali, il che richiede la valutazione degli stessi in tutte le fasi del ciclo di vita di un prodotto/servizio, dalla produzione, alla fase di utilizzo e consumo, fino allo smaltimento finale. Il GPP viene appunto definito dalla Commissione Europea come “un processo mediante cui le pubbliche amministrazioni cercano di ottenere beni, servizi e opere con un impatto ambientale ridotto per l’intero ciclo di vita rispetto ai beni, servizi e opere con la stessa funzione primaria ma oggetto di una procedura di appalto diversa”1.
In Europa gli Enti pubblici rappresentano la categoria quantitativamente più rilevante di consumatori. La spesa da questi sostenuta per la stipulazione di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture incide significativamente, in termini percentuali sul PIL dell’UE e, pertanto, “usando il loro potere d’acquisto per scegliere beni, servizi ed opere a ridotto impatto ambientale, possono fornire un importante contributo agli obiettivi di sostenibilità a livello locale, regionale, nazionale e internazionale”. Promuovendo e utilizzando il GPP, le Pubbliche Amministrazioni sono in grado di favorire l’innovazione sul mercato, offrendo all’industria incentivi reali per sviluppare prodotti e tecnologie verdi. Inoltre, qualora un’amministrazione decidesse di stipulare un appalto “verde” non solo si porrebbe in condizione di proteggere l’ambiente, ma anche di risparmiare una rilevante somma di denaro, soprattutto se si prende in considerazione il costo dell’intero ciclo di vita di un contratto di appalto e non solamente il suo prezzo di acquisto (Life-Cycle Thinking)2.
Il GPP ha, quindi, l’obiettivo di integrare considerazioni di carattere ambientale all’interno dei processi di acquisto delle Pubbliche Amministrazioni e di orientare il mercato (ovvero le scelte su beni, servizi e lavori), verso scelte più eco-compatibili, con minori impatti ambientali; ha, quindi, un ruolo molto importante per la diffusione di un mercato e di una cultura più attenti all’ambiente.
Per l’Ente che lo applica ed in generale per il contesto delle politiche ambientali ed economiche, il GPP:
favorisce la diffusione di modelli di consumo e di acquisto sostenibili anche presso le aziende private e i singoli cittadini, attraverso il ruolo di esempio che le P.A. possono rivestire nei confronti dell’opinione pubblica;
favorisce la razionalizzazione della spesa pubblica, da un lato tramite la diffusione di una cultura attenta a contenere i consumi non necessari non solo presso chi materialmente effettua gli acquisti ma anche da parte del personale che a vario titolo opera presso gli uffici pubblici, dall’altro tramite la diffusione di un approccio più corretto per valutare il prezzo del bene/servizio o lavoro oggetto dell’acquisto. Il GPP infatti facilita una considerazione del costo totale, includendo, accanto al prezzo, anche i costi indiretti (connessi all’utilizzo e allo smaltimento del prodotto stesso) in modo da effettuare scelte d’acquisto convenienti dal punto di vista economico-finanziario in un’ottica di medio e lungo termine; inoltre, se affiancato da un’analisi costi benefici/prestazionale, permetterebbe una allocazione ottimale delle risorse da parte degli enti pubblici;
favorisce l’integrazione delle considerazioni ambientali nelle altre politiche dell’ente, coinvolgendo in modo trasversale settori che tradizionalmente non si occupano di ambiente e settori che possono incidere notevolmente sulle performance ambientali dell’ente, quali i trasporti, le infrastrutture e l’edilizia;
favorisce la diffusione di una cultura ambientale sia nel cercato dell’offerta che della domanda. Ed infatti, la politica degli acquisti sostenibili permette di rafforzare in maniera significativa presso gli operatori economici gli stimoli esistenti in favore della ricerca e sviluppo e dell’innovazione, in particolare nel campo delle tecnologie ambientali;
favorisce l’accrescimento delle competenze degli acquirenti pubblici in quanto mette in prima linea la responsabilità e la capacità di ottimizzare da un punto di vista economico e non solo finanziario le scelte d’acquisto;
stimola le imprese ad investire in R&S e a proporre soluzioni ecoinnovative che possano soddisfare il committente pubblico o per esigenze specifiche o per effettuare proposte di offerta più competitive in risposta a requisiti di performance. La domanda pubblica può costituire un importante volano per orientare l’offerta a qualificarsi verso l’ecoinnovazione che rientra tra gli obiettivi strategici dell’UE e presenta un nesso evidente con il Programma Quadro per la competitività e l’innovazione.
4. La legislazione europea in materia di appalti verdi.
L’impiego del GPP venne inizialmente incoraggiato a livello europeo, se ne parla infatti sia nel Libro Verde sulla politica integrata dei prodotti del 1996, sia nel Sesto Programma d’Azione in campo ambientale e sviluppato nella Politica Integrata di Prodotto (IPP – Integrated Product Policy). Numerosi sono gli atti e i documenti che nel tempo si sono succeduti a livello europeo:
le due comunicazioni interpretative speculari del 2001 “sul diritto comunitario degli appalti pubblici e le possibilità di integrare considerazioni di carattere ambientale negli appalti pubblici” e sul “diritto comunitario degli appalti pubblici e le possibilità di integrare aspetti sociali negli appalti pubblici”;
Comunicazione COM 2003/302, con la quale sono stati invitati gli Stati membri ad adottare dei Piani d’azione nazionali sul GPP, per garantirne la massima diffusione;
I Manuali della Commissione UE, rispettivamente, “Buying Green I” (III edizione del 2016) e “Buying social” del 2011 che costituiscono due Guide per introdurre gli aspetti ambientali e sociali negli appalti pubblici;
le direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, con le quali si fa chiarezza del quadro normativo, riconoscendo esplicitamente sia la possibilità di inserire la variabile ambientale come criterio di valorizzazione dell’offerta di acquisto sia le modalità con le quali le amministrazioni pubbliche potevano procedere;
le direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE. Il 28 marzo 2014 sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L 94/65 tre direttive che riformano il settore degli appalti e delle concessioni: la direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici nei cd. “settori ordinari”, la direttiva 2014/25/UE sugli appalti nei cd. “settori speciali” (acqua, energia, trasporti, servizi postali) e la direttiva 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione. Le direttive sono entrate in vigore il 18 aprile 2014 e le relative disposizioni sono state recepite nell’ordinamento italiano entro il 18 aprile 2016, con D.Lgs. n. 50/2016. È così giunto a compimento un articolato percorso di elaborazione di nuove norme in grado di innovare e sostituire le precedenti disposizioni comunitarie in materia. In particolare, le direttive 2014/24/UE e 2014/25/UE sugli appalti abrogano rispettivamente le direttive 2004/18/CE e 2004/17/CE recepite in Italia con le norme del Codice degli Contratti Pubblici approvato con d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 in esecuzione della delega contenuta nella legge comunitaria 2004 (legge 18 aprile 2005, n. 62). Quanto alla direttiva 2014/23/UE in materia di contratti pubblici di concessione va segnalato che essa interviene a colmare un vera e propria lacuna normativa: a differenza di quanto occorso per le procedure di appalto, l’aggiudicazione delle concessioni di servizi con interesse transfrontaliero scontava un deficit di disciplina al quale era possibile sopperire solo mediante l’applicazione dei principi contenuti nei Trattati, con evidenti ricadute negative in termini di certezza e uniformità della disciplina applicata in concreto.
Le nuove Direttive 23, 24 e 25 del 2014 hanno, tra gli obiettivi, quello di favorire una migliore integrazione dei requisiti ambientali nella procedure di appalto. Una delle principali novità della nuova normativa europea consiste infatti nell’introduzione, tra i principi generali, dell’obbligo degli Stati membri di adottare misure adeguate a garantire l’integrazione dei requisiti in materia ambientale, sociale e del lavoro nelle procedure di gara nonché nell’esecuzione dei contratti, e fare in modo che gli operatori economici rispettino questi obblighi stabiliti dal diritto dell’Unione, dal diritto nazionale, dai contratti collettivi o dal diritto internazionale3.
Il rispetto di tali obblighi è fatto oggetto di valutazione da parte delle amministrazioni aggiudicatrici nel corso della procedura di aggiudicazione e di verifica dell’offerta anomala e può riguardare anche il subappaltatore nelle ipotesi in cui l’impresa aggiudicataria abbia fatto ricorso a questa tipologia di contratto: tale previsione, infatti, scoraggia la stazione appaltante a ricorrere al subappalto nei confronti di società, anche provenienti da paesi terzi, caratterizzate da un minor costo del lavoro, da una minore tutela sociale e da standard di tutela vigenti meno stringenti in confronto a quelli imposti a livello europeo, al solo scopo di eludere il rispetto della relativa disciplina. Per cui un’impresa, anche se avesse presentato l’offerta più vantaggiosa, potrebbe essere esclusa se non rispettasse tutti gli obblighi normativi derivanti dalla legislazione ambientale nazionale, europea ed internazionale.
Il quadro normativo europeo di riferimento denota come sul piano politico-economico si sia passati da un modello di economica lineare quale quello del “prendi, produci, usa e getta” affermatosi fin dalla rivoluzione industriale a un modello di economia circolare nel quale il prodotto quando raggiunge la fine del ciclo di vita, invece di diventare rifiuto, resta all’interno del sistema economico e può essere riutilizzato più volte a fini produttivi e creare così di conseguenza nuovo valore. Tuttavia, è chiaro che “per passare ad un’economica più circolare occorre apportare cambiamenti nell’insieme delle catene di valore, dalla progettazione dei prodotti ai modelli di mercato e di impresa, dai metodi di trasformazione dei rifiuti in risorse alle modalità di consumo”: ciò implica un vero e proprio cambiamento sistemico e un forte impulso innovativo, non solo sul piano della tecnologia, ma anche dell’organizzazione, della società, dei metodi di finanziamento e delle politiche.
5. La legislazione italiana in materia di appalti verdi.
Nel nostro Paese un quadro di riferimento complessivo sia tecnico che metodologico del Green Public Procurement è stato introdotto con:
– il decreto interministeriale dell’11 aprile 2008, successivamente aggiornato con il D.M. 10 aprile 2013 che, accogliendo l’indicazione della Commissione Europea di dotarsi di un Piano di Azione in materia, ha approvato il Piano d’Azione Nazionale sul GPP (PAN GPP), approvato successivamente con Decreto interministeriale dell’11 aprile 2008, aggiornato dal D.M. del 10 aprile 2013, con lo scopo di facilitare l’adozione e implementare il sistema degli acquisti verdi e che ha previsto l’entrata in vigore, con successivi decreti ministeriali, dei Criteri Ambientali Minimi per ogni categoria di prodotti, servizi e lavori acquistati o affidati dalla pubblica amministrazione.
Gli obiettivi strategici su cui il GPP a livello italiano intende incidere sono essenzialmente tre:
riduzione dei consumi di energia da fonti fossili attraverso i criteri ambientali che favoriscano l’aumento dell’efficienza energetica e l’utilizzo delle fonti rinnovabili;
riduzione dei rifiuti prodotti e della loro pericolosità attraverso criteri ambientali che favoriscono l’acquisto e la diffusione di prodotti della durata di vita maggiore, facilmente riutilizzabili contenenti materiali riciclati, riciclabili, con ridotto volume di prodotti di scarto (imballaggi);
riduzione dell’uso e dell’emissione di sostanze pericolose.
Il PAN GPP si articola in 2 parti:
una parte generale relativa alla struttura del Piano e alle indicazioni metodologiche;
una serie di atti aggiuntivi (Decreti del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, attualmente Ministero della Transizione Ecologica), contenenti i c.d. “Criteri Ambientali Minimi” che vanno inseriti nel Bandi di gara per l’acquisto di beni e servizi delle Amministrazioni centrali e degli altri Enti Pubblici.
I Criteri Ambientali Minimi o CAM, consistono quindi in considerazioni ambientali inseribili nelle diverse fasi delle procedure di gara (oggetto dell’appalto, specifiche tecniche, criteri premianti, condizioni di esecuzione dell’appalto/clausole contrattuali) volte ad indirizzare l’Ente verso una razionalizzazione dei consumi e degli acquisti. Vendono definiti “Minimi” in quanto, affinché i Capitolati possano essere considerati “verdi”, essi dovranno essere obbligatoriamente inseriti.
Ma la vera svolta nel nostro Paese per il GPP è stata determinata prima dall’approvazione del cosiddetto Collegato ambientale alla legge di stabilità 2016 (legge n. 221/2015 “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo delle risorse naturali) e poi dall’emanazione del nuovo Codice degli Appalti (D.Lgs. n. 50/2016), che ha recepito le direttive comunitarie sopra richiamate fornendo, in qualche passaggio, input ancor più vigorosi di quelli di matrice comunitaria e che integra pienamente le politiche di GPP finora promosse a livello nazionale e regionale, trasformandole -per le stazioni appaltanti – da volontarie a cogenti.
Quanto disposto dalla legge n. 221/2015 trova attuazione nel nuovo Codice dei Contratti Pubblici con l’integrazione e l’ampliamento di nuove previsioni normative.
6. Il Codice dei Contratti Pubblici.
Ad oggi, la spinta più importante per lo sviluppo in Italia degli acquisti verdi si è avuta con la versione definitiva dell’articolo 34 del nuovo Codice degli Appalti, d.lgs 50/2016 così come modificato dal decreto legislativo 19 aprile 2017 n. 56, il quale ha previsto l’obbligatoria applicazione, per l’intero valore dell’importo della gara, delle “specifiche tecniche” e delle “clausole contrattuali” contenute nei criteri ambientali minimi (CAM) prevedendo, altresì, che si debba tener conto degli stessi anche per la definizione dei “criteri di aggiudicazione dell’appalto”. Altre norme del Codice, propriamente rivolte alla costruzione di una procedura di gara, sono integrate da considerazioni ambientali e, come tali, collocati al Titolo III afferenti disposizioni sulla procedura di affidamento.
Gli articoli 4 e 30 affermano principi di carattere generale che devono presiedere i contratti pubblici, anche quelli esclusi dall’applicazione del codice, ovvero il principio di tutela dell’ambiente ed efficienza energetica (art. 4) ed il principio di economicità (art. 30) il quale può essere subordinato, nei limiti in cui è consentito dalle norme vigenti e dal codice medesimo, ai criteri ispirati alla tutela dell’ambiente, del patrimonio e alla promozione dello sviluppo sostenibile.
L’articolo 34 è la vera rivoluzione del nuovo Codice ed ha il merito di dedicare al principio della sostenibilità ambientale una disposizione isolata all’interno dei principi generali; il suo scopo è la garanzia di una sostenibilità minima alla base di ogni procedura pubblica. L’articolo definisce l’obbligo di utilizzare nella documentazione progettuale e di gara almeno le specifiche tecniche e le clausole contrattuali riportate nei CAM (Criteri Ambientali Minimi) per le categorie merceologiche di riferimento e la facoltà di applicare i criteri premianti riportati nei CAM nelle fasi di selezione nelle gare aggiudicate con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa ai sensi dell’articolo 95 comma 6. La portata innovativa di questo articolo è che il medesimo si applica agli affidamenti di qualunque importo, relativamente alle categorie di forniture e di affidamenti di servizi e lavori oggetto dei criteri ambientali minimi.4
Tali criteri si definiscono “minimi” in quanto sono requisiti “di base”, per qualificare gli acquisti dal punto di vista della sostenibilità. Essi sono solitamente definiti un’insieme di requisiti previsti per le varie fasi del processo di acquisto, volti ad individuare la soluzione progettuale, il prodotto o il servizio migliore sotto il profilo ambientale lungo il ciclo di vita.
La definizione delle specifiche tecniche è contenuta all’articolo 68 e nell’allegato XIII richiamato dal medesimo articolo: insieme di prescrizioni, contenute in particolare nei documenti di gara, che definiscono le caratteristiche previste per un materiale, un prodotto, una fornitura o un servizio, i livelli di qualità, i livelli di prestazione ambientale, le ripercussioni sul clima, le procedure riguardanti il sistema di garanzia della qualità, il collaudo e metodi di prova, la marcatura e l’etichettatura, nonché i processi e i metodi di produzione in qualsiasi momento del ciclo di vita dei lavori, delle forniture o dei servizi.
Le amministrazioni che intendono appaltare lavori, forniture o servizi con specifiche caratteristiche ambientali, possono, ai sensi del successivo articolo 69, imporre nelle specifiche tecniche, oltre che nei criteri di aggiudicazione o nelle condizioni relative all’esecuzione dell’appalto, un’etichettatura specifica come mezzo di prova che i lavori, le forniture o i servizi corrispondono alle caratteristiche richieste.5
L’articolo 69 comma 1, quarto periodo, a sua volta, dispone che i bandi di gara, da redigere conformemente ai bandi tipo adottati dall’ANAC, “contengono, altresì, i criteri ambientali minimi di cui all’art. 34”.
In fase di gara la stazione appaltante può richiedere particolari certificazioni di qualità e, segnatamente la “certificazione ambientale”. A tale documento è dedicato l’articolo 87 del Codice. La certificazione ambientale consiste in un attestato che certifica l’impiego dell’organizzazione per il rispetto dell’ambiente; appartiene all’impresa, non solo al prodotto, e inerisce gli aspetti relativi alla gestione e al controllo ambientale delle attività produttive. La certificazione ambientale non copre il prodotto realizzato o il servizio reso, ma attesta semplicemente che l’imprenditore opera in conformità a specifici standard internazionali per quanto attiene la qualità dei propri processi produttivi.
L’articolo 82 definisce le caratteristiche degli organismi di valutazione della conformità (Enti di certificazione), ammette i certificati rilasciati da organismi “equivalenti” e riporta indicazioni analoghe a quelle dell’articolo 69.
L’articolo 95, titolato “Criteri di aggiudicazione dell’appalto” individua nell’offerta economicamente più vantaggiosa sulla base del miglio rapporto qualità/prezzo, il criterio che consente di introdurre considerazioni ambientali e sociali, purché pertinenti all’oggetto dell’appalto e rispettosi dei principi fondamentali del diritto comunitario di trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento.
A differenza degli articoli innanzi citati, che convergono a monte della costruzione di una procedura di gara in materia ambientale, l’articolo 100, “Requisiti per l’esecuzione di un appalto”, non a caso collocato nel Titolo V- Esecuzione – del D.Lgs.. n. 50/2016 si pone a valle della costruzione di un appalto in materia ambientale. Recita tale articolo che le stazioni appaltanti “possono” richiedere specifiche condizioni per l’esecuzione del contratto, che possono attenere, in particolare, a esigenze sociali e ambientali, purché compatibili con i principi di diritto comunitario di parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità e innovazione.
Come già anticipato nel recedente paragrafo, ai “requisiti di esecuzione in un appalto pubblico” è dedicato l’articolo 100 del D.Lgs. n. 50/2016 che, nel dare recepimento alla normativa eurocomune e, segnatamente, alla previsione di cui all’art. 70 della direttiva 2014/24 e all’art. 87 della direttiva 2014/25, faculta le stazioni appaltanti a richiedere agli operatori economici, in aggiunta al possesso dei “requisiti” e delle “capacità” oggetto di valutazione selettiva di cui all’art. 83, ulteriori “requisiti particolari”, a condizione che:
siano rispettosi degli ordinari canoni di “parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, innovazione” che ispirano le procedure evidenziali, nella logica della garanzia di compatibilità “con il diritto europeo” (comma 1);
siano individuati ed indicati con precisione (distinti, quindi, dai requisiti di partecipazione) nel corpo della lex specialis di procedura (comma 1);
gli operatori economici si impegnino, già in sede di formalizzazione dell’offerta e con espressa dichiarazione di accettazione, a garantirne il possesso “nell’ipotesi in cui risulteranno aggiudicatari” (comma 2).
Trattasi, quindi, di specifiche condizioni che la stazione appaltante può richiedere per l’esecuzione del contratto e che i concorrenti devono accettare già al momento della partecipazione in vista della possibile aggiudicazione e che l’aggiudicatario dovrà poi osservare in fase di esecuzione, al fine di assicurare lo standard realizzativo ad esse connesso. Tali condizioni sono requisiti di esecuzione e non di partecipazione in quanto volti non a selezionare i concorrenti al momento della partecipazione, ma ad imprimere all’esecuzione il giusto indirizzo, creando le premesse per un adempimento corretto sotto il profilo delle esigenze e degli obiettivi della stazione appaltante. Tali requisiti, quindi, impongono (astrattamente) ai concorrenti e (concretamente) all’aggiudicatario determinate precondizioni di esecuzione, non afferenti all’operatore economico e alle sue caratteristiche soggettive ma alla prestazione oggettivamente considerata, che l’Amministrazione considera essenziali per il raggiungimento dei previsti livelli prestazionali (normalmente relativi ai mezzi impiegati per l’adempimento). Ciò giustifica la previsione dei citati requisiti nell’ambito dell’articolo 100 collocato tra le disposizioni relative all’esecuzione del contratto (titolo V della parte II del D.lgs. n. 50/2016) e separato dagli articoli 83 e 84 relativi ai requisiti speciali di partecipazione, quali criteri di selezione dei concorrenti in vista della partecipazione alla gara.
Quali sono gli “ulteriori requisiti particolari” cui fa riferimento il citato disposto normativo dell’art. 100 e, soprattutto, in che modo è possibile operare una corretta distinzione tra requisiti di esecuzione e requisiti di partecipazione ad una procedura di affidamento atteso che entrambi sono elementi caratterizzanti un’offerta? Oltretutto, distinguere tra le varie condizioni alle quali i concorrenti si impegnano ad eseguire le loro prestazioni, alcune solo qualificabili come “requisiti di esecuzione” non è semplice, ove si tenga conto del fatto che si tratta, in ogni caso, di elementi caratterizzanti l’offerta rivolta alla stazione appaltante, integrandone il contenuto. Infatti, normalmente tali requisiti/condizioni sono oggetto di valutazione da parte della commissione giudicatrice ai fini dell’attribuzione del punteggio, e logica impone che tutto quanto consenta di incrementare il punteggio attribuito all’offerta tecnica costituisca esso stesso elemento dell’offerta.
Sul punto, è intervenuta la giurisprudenza amministrativa con l’intendimento di fornire elementi chiarificatori sull’argomento e la corretta interpretazione della legge di gara, ove ambigua.
Si è formato da tempo un orientamento maggioritario nella giurisprudenza amministrativa secondo cui per “requisiti di esecuzione” devono intendersi i mezzi (strumenti, beni, attrezzature) necessari all’esecuzione della prestazione promessa alla stazione appaltante e la disponibilità degli stessi è richiesta al concorrente, non al momento della presentazione dell’offerta (come al contrario avviene per i “requisiti di partecipazione”), ma al momento dell’esecuzione o, per meglio dire, della stipulazione del contratto, che non sarebbe possibile ove se ne constati la mancanza, per cui potrebbero essere definiti come “condizione” per la stipulazione del contratto d’appalto (si veda, tra gli altri, Cons. Stato, sez. V, sent. 5734/2020; Cons. Stato, sez. V, sent. 5740/2020; Cons. Stato, sez. V, sent. 1071/2020). Quindi, i requisiti di esecuzione identificano le condizioni soggettive ed oggettive dell’appaltatore, richieste dalle legge di gara per assicurarsi il puntuale adempimento di obbligazioni inerenti al contratto pubblico per cui è indetta la gara e, pertanto, sono esigibili non in capo al concorrente fin dal momento della gara, ma solo in capo all’appaltatore ed al momento della stipulazione del contratto, essendo solo tale soggetto colui che deve assicurare la corretta esecuzione delle prestazioni contrattuali. Esemplificativamente, mentre i requisiti di esecuzione afferiscono all’appaltatore, i requisiti di partecipazione afferiscono al concorrente, sia in quanto operatore economico (c.d. requisiti generali) sia quale imprenditore del settore (c.d. requisiti speciali). Seguendo tale impostazione, sempre il giudice amministrativo ha affermato che ove la stazione appaltante, nella legge di gara, si sia avvalsa della facoltà di richiedere un requisito per l’ipotesi di aggiudicazione del contratto, le clausole del bando (se ambigue) debbano essere interpretate nel senso che, in sede di gara l’operatore economico dovrà produrre apposita “dichiarazione impegnativa” con la quale assume l’obbligo di dotarsi (o di acquisire, comunque, la titolata disponibilità) del requisito richiesto (strumenti, beni, attrezzature) per l’eventualità di aggiudicazione del contratto (in tal senso Cons. Stato, sez. V, sent. 8101/2020; Cons. Stato, sez. III, sent. 4795/2020; Cons. Stato, sez. V, sent. 5308/2019; Cons. Stato, sez. V, sent. 2190/2019).
Questo primo orientamento, posto chiaramente a presidio del principio di massima concorrenza in quanto consente al concorrente, sprovvisto del requisito richiesto ed impossibilitato a procurarsi già al momento dell’offerta mezzi, attrezzature, strumenti o beni destinati ad essere utilizzati solo in caso di possibile ma non certa aggiudicazione, di partecipare alla competizione, all’unica condizione di produrre una dichiarazione di impegno ad acquisirne la disponibilità in fase di esecuzione.
Più recentemente, tuttavia, tale orientamento è stato arricchito di ulteriori riflessioni.
Potrebbe, infatti, accadere che un operatore economico, al solo scopo di accaparrarsi un più alto punteggio in sede di offerta, produca una dichiarazione di impegno ad acquisire sì il requisito richiesto in fase di esecuzione del contratto (ovvero al momento della sua stipulazione), salvo poi non essere realmente in grado di disporne effettivamente, con grave pregiudizio all’efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, ove la stazione appaltante si vedesse costretta a revocare l’aggiudicazione. Da qui la necessità di conciliare l’esigenza di evitare inutili aggravi di spesa a carico dell’operatore economico concorrente nella gara per procurarsi già al momento dell’offerta mezzi destinati ad essere utilizzati solo in caso di aggiudicazione con l’esigenza che la stazione appaltante possa ragionevolmente confidare nella serietà dell’operatore che di tali mezzi abbia dichiarato la disponibilità, senza correre il rischio di trovarsi, al momento della stipulazione del contratto, senza la prestazione attesa (e, per la quale, spesse volte il concorrente era stato preferito agli altri). Tale riflessione ha condotto i giudici amministrativi a spostare il problema sul piano probatorio. Si è, quindi, ritenuto che le clausole del bando (anche se ambigue) devono essere interpretate nel senso che, quanto ai mezzi e alle dotazioni funzionali all’esecuzione del contratto, è necessaria la loro individuazione alla presentazione dell’offerta, ragion per cui l’offerta deve essere accompagnata da documentazione comprovante l’impegno del terzo, proprietario dei beni e delle attrezzature delle quali il concorrente intenda servirsi per l’esecuzione dell’appalto, di metterle a disposizione di questi (contratto preliminare condizionato o strumenti negoziali similari). Documentazione che, pertanto, attesta la serietà ed affidabilità dell’impegno assunto.6
Ancora più recentemente, il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n 2523/2021, soffermandosi nuovamente sulla distinzione tra “requisiti di partecipazione” e “requisiti di esecuzione” dell’appalto, con posizione più radicale rispetto ai precedenti pronunciamenti, ha affermato il principio secondo cui il momento distintivo tra requisiti di partecipazione e requisiti di esecuzione va ravvisato nella legge di gara, nel senso che, ove la disciplina di gara intende riservare alla fase esecutiva il possesso di requisiti inerenti la prestazione oggetto di affidamento (o, più correttamente, di autorizzare le parti a differire alla fase esecutiva la relativa acquisizione) ha, sotto il profilo formale, l’onere di formulare una inequivoca indicazione in tal senso nel corpo del disciplinare di gara; in difetto di che, tutti i requisiti devono ritenersi presuntivamente previsti per l’utile partecipazione alla gara. 7
Prospettati gli interventi giurisprudenziali della magistratura amministrativa in materia di distinzione tra requisiti di partecipazione e requisiti di esecuzione in un appalto pubblico, la trattazione prosegue soffermandomi sui requisiti ambientali quali requisiti di partecipazione, di esecuzione ai sensi dell’articolo 100 del Codice dei Contratti Pubblici, e criteri di aggiudicazione.
I Criteri Ambientali Minimi, dall’acronimo “C.A.M.” nascono in Italia con la legge 28 dicembre 2015 n. 221 recante “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy de per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali” e, successivamente, con l’articolo 34 del Codice dei contratti pubblici, D.Lgs. n. 50/2016, rubricato “Criteri di sostenibilità energetica e ambientale” che ne ha reso obbligatoria l’applicazione da parte di tutte le stazioni appaltanti.
I Criteri Ambientali Minimi sono, quindi, requisiti ambientali ed ecologici volti ad indirizzare le Pubbliche Amministrazioni verso una razionalizzazione dei consumi e degli acquisti fornendo indicazioni per l’individuazione di soluzioni progettuali, prodotti o servizi migliori sotto il profilo ambientale e lungo l’intero ciclo di vita. Si collocano normalmente nella fase ideativa e creativa di una procedura di gara che ha, comunque, una connotazione obbligatoria, secondo quanto previsto all’articolo 34 del Codice dei Contratti Pubblici. Sotto tale aspetto “i CAM non possono essere qualificati in senso proprio né come requisiti di partecipazione e né di esecuzione. Non di partecipazione, dal momento che questi afferiscono al concorrente sia in quanto operatore economico (c.d. requisiti generali), sia quale imprenditore del settore (c.d. requisiti speciali); i requisiti di esecuzione sono, invece, condizioni oggettive e soggettive dell’appaltatore, previsti per assicurare il puntuale adempimento di obbligazioni inerenti il contratto per cui è indetta una gara, sicché gli stessi sono esigibili solo in capo all’appaltatore ed al momento della stipulazione.8
La connotazione obbligatoria dei CAM, declarata all’art. 34 del Codice dei Contratti Pubblici, garantisce che la politica nazionale in materia di appalti verdi sia incisiva non solo nell’obiettivo di ridurre gli impatti ambientali, ma nell’obiettivo di promuovere modelli di produzione e consumo più sostenibile, “circolare”, e diffondere l’occupazione “verde”. Oltre alla valorizzazione della qualità ambientale e al rispetto dei criteri sociali, i CAM consentono alla pubblica amministrazione di razionalizzare i consumi.
Sul piano normativo la principale norma di riferimento è l’articolo 34 del Codice dei Contratti Pubblici, ai sensi del quale “le stazioni appaltanti contribuiscono al conseguimento degli obiettivi ambientali previsti dal Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi ….. attraverso l’inserimento, nella documentazione progettuale e di gara, almeno delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei criteri ambientali minimi adottati con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare…..”. Inoltre, “i criteri ambientali minimi……., in particolare i criteri premianti, sono tenuti in considerazione anche ai fini della stesura dei documenti di gara per l’applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi dell’articolo 95 comma 6”. Sempre l’art. 34 aggiunge poi che l’obbligo di attuazione dei CAM “si applica per gli affidamenti di qualunque importo relativamente alle categorie di forniture e di affidamenti di servizi e lavori oggetto dei criteri ambientali adottati nell’ambito del Piano. D’azione”.
Il Codice dei Contratti Pubblici prevede, dunque, l’obbligo per le stazioni appaltanti di inserire, nella documentazione progettuale e di gara, quanto meno le specifiche tecniche e le clausole contrattuali contenute nei CAM approvati con decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutele del Territorio e del Mare. Obbligo, questo, che si estende a tutti gli appalti, indipendentemente dal loro importo.
La stazione appaltante non ha, dunque, discrezionalità in merito all’applicazione o meno dei CAM, specialmente a seguito della modifica apportata all’articolo 23 del D.Lgs. n. 56/2017 (primo correttivo al Codice dei Contratti Pubblici) che ha esteso l’obbligo all’intero del valore del contratto e per tutti i CAM in vigore, superando la versione iniziale del Codice che ne prevedeva un’applicazione graduata nel tempo e con percentuali diverse a seconda delle categorie merceologiche interessate.
Ad oggi sono stati adottati CAM per n. 18 categorie di forniture e affidamenti: arredi per interni; arredo urbano; ausili per l’incontinenza; calzature da lavoro e accessori in pelle; carta; cartucce; edilizia; illuminazione pubblica (fornitura e progettazione); illuminazione pubblica (servizio); illuminazione, riscaldamento/raffrescamento per edifici; lavaggio industriale e noleggio di tessili e materasseria; rifiuti urbani; ristorazione collettiva; sanificazione; stampanti; veicoli; verde pubblico. Alcuni Criteri ambientali Minimi sono in corso di revisione o di nuova adozione.
Indipendentemente dalle particolarità di ciascun decreto ministeriale, sul piano strutturale i CAM sono dotati di una struttura standardizzata in modo da garantire un facile utilizzo anche da parte delle amministrazioni che intendano, o meglio che devono, adottarli. La struttura di ciascun criterio è costituita da una prima parte generale e una seconda parte focalizzata sui criteri veri e propri. La prima parte contiene un documento ove riporta l’oggetto dell’appalto, il suo collegamento con le prescrizioni del Piano di Azione e gli scopi specifici da perseguire tramite il bene o servizio oggetto della commessa pubblica. Inoltre, la parte generale contiene una “relazione di accompagnamento” in cui vengono condensate le criticità ambientali, i riferimenti normativi del prodotto e le motivazioni tecnico scientifiche che giustificano l’adozione dei criteri ambientali contenuti nel documento e i riferimenti normativi principali riguardanti la tipologia di bene. Infine, la parte generale fornisce al soggetto pubblico banditore le indicazioni generali, dal criterio con cui valutare le offerte presentate alle modalità di gestione del prodotto acquistato o dell’esecuzione del servizio. Nella seconda parte sono riportate le prescrizioni da seguire per qualificare come “verde” un appalto e vengono citati i criteri che definiscono ambientalmente le fasi del processo di acquisto. Questi ultimi costituiscono i criteri ambientali veri e propri che si distinguono in criteri ambientali di base e premianti, collegati alle diverse fasi della procedura di gara. In tal senso, i Criteri ambientali di base prevedono sia criteri di selezione dei candidati, ovvero requisiti di qualificazione soggettiva che devono essere necessariamente posseduti dagli operatori economici per partecipare alle procedure di gara (atti a provare la capacità tecnica del concorrente ad eseguire l’appalto recando i minori danni possibili all’ambiente) sia specifiche tecniche, ossia le caratteristiche di base richieste per lavori, servizi o forniture (ad esempio, l’obbligo che i progetti di nuovi edifici mantengano i profili morfologici esistenti) e sia clausole contrattuali, vale a dire le indicazioni necessarie per garantire una migliore esecuzione dell’appalto sotto il profilo della sostenibilità ambientale e sociale (clausole di esecuzione che in sede di gara l’operatore economico dovrà impegnarsi ad adempiere in caso di aggiudicazione e che, pertanto, in fase di post aggiudicazione, saranno oggetto di puntuale verifica da parte della stazione appaltante). Chiaramente, solo l’elemento delle clausole contrattuali, chiaramente riconducibile alla fase esecutiva dell’affidamento, è strettamente collegato all’articolo 100 del Codice dei Contratti Pubblici secondo l’esegesi operata dalla giurisprudenza amministrativa.
I CAM possono anche prevedere criteri premianti, ovvero requisiti volti a selezionare lavori/prodotti/servizi con prestazioni ambientali migliori di quelle garantite dalle specifiche tecniche, ai quali attribuire un punteggio tecnico ai fini dell’aggiudicazione secondo l’offerta al miglio rapporto qualità-prezzo (ad esempio, può essere premiato l’operatore che sia dotato di una struttura di progettazione con almeno un professionista accreditato dagli organismi di certificazione energetico-ambientale). Peraltro, nell’esercizio della sua discrezionalità amministrativa, la stazione appaltante potrebbe valorizzare tutti o solo alcuni dei criteri premianti indicati nel decreto ministeriale, ovvero prevederne di ulteriori in base alla specificità di ciascuna procedura di gara (ad esempio, potrebbe valorizzare l’utilizzo di materiali locali nella costruzione di un edificio, in armonia con il contesto storico-edilizio in cui tale edificio va ad integrarsi).
Il progetto predisposto dalla stazione appaltante deve dunque essere elaborato nel rispetto dei CAM e i criteri premianti, eventualmente richiesti quali elementi di valutazione delle offerte, devono essere rapportati a tale progetto.
Le specifiche tecniche di progetto (le quali possono essere documentate già in sede di gara, a seconda di quanto richiesto dalla stazione appaltante nelle legge di gara, tramite autocertificazione, allegazione di certificazione o risultati di prove, presentazione di campioni, etc), nonché le eventuali migliorie offerte dal concorrente dovranno, ben inteso, poi essere concretamente applicate nell’esecuzione dell’appalto. Da qui l’importanza di un attento controllo (invero non semplice) da parte della stazione appaltante, sia in fase di aggiudicazione che in fase esecutiva, imponendo – in caso di violazione delle specifiche tecniche progettuali o di non applicazione delle migliorie offerte in sede di gara – e ove possibile la sostituzione del servizio/bene, applicando penali o (in casi estremi) risolvendo il contratto.
L’aspetto, però, forse più importante è la specificazione che le specifiche tecniche di progetto e gli eventuali criteri premianti dovrebbero essere, per così dire, soppesati e ragionevoli, non dovendosi chieder agli operatori “l’impossibile”. In tal senso, compito della stazione appaltante è effettuare un’attenta analisi di mercato, con l’obiettivo di verificare la disponibilità di materiali con le caratteristiche richieste e la distanza dal cantiere degli impianti di produzione di tali materiali. Siffatta analisi può essere utilizzata anche nella definizione dei criteri premianti.
Inoltre, altro elemento di grande rilievo è il riconoscimento che i CAM hanno un costo, il quale deve essere tenuto in debita considerazione nella definizione della base d’asta. Se, come visto, i CAM sono obbligatori e richiedono agli operatori economici notevoli sforzi di adeguamento ed investimenti, le stazioni appaltanti – nel definire la base d’asta per l’acquisto di un lavoro, di un servizio o di una fornitura – devono considerare anche i costi legati all’applicazione dei CAM. In tal senso il Consiglio di Stato9 ha ritenuto illegittima la previsione, come prezzo a base d’asta, di un importo uguale a quello della identica gara bandita alcuni anni prima, anteriormente all’adozione dei CAM di riferimento. Ciò, appunto, in quanto l’adeguamento ai Criteri Ambientali Minimi comporta n costo per gli operatori economici, costo che deve essere adeguatamente remunerato, anche nella prospettiva dei concorrenti i quali devono poter coprire i costi del lavoro/servizio/fornitura oggetto dell’appalto e conseguire un utile dalla propria attività di impresa. Nè, come ulteriormente precisato dal Consiglio di Stato nella citata sentenza, l’Amministrazione può giustificarsi adducendo difficoltà nella quantificazione del costo del servizio a causa della mancanza di parametri di riferimento.
I requisiti ambientali possono essere configurati anche quali criteri di aggiudicazione: è quanto sostenuto dal Consiglio di Stato10 in una significativa sentenza in merito alla legittimità delle previsioni del bando che premiavano, per l’esecuzione del servizio, sia la “stabilità del personale” sia l’applicazione di specifici CCNL (Metalmeccanico, Edile, Multiservizi). Il Consiglio di Stato, muovendo dalla previsione normativa di cui all’articolo 95 del Codice dei Contratti Pubblici titolato “Criteri di aggiudicazione dell’appalto” ed, in particolare dal comma 6 nella parte in cui prescrive che nell’ambito dei criteri di aggiudicazione,…. L’offerta economicamente più vantaggiosa ……. è valutata sulla base di criteri oggettivi, quali gli aspetti….. ambientali o sociali”, argomenta che tale disposto non prefigura un elenco tassativo di parametri sui quali basare i criteri di valutazione delle offerte tecniche, ma individua un catalogo aperto e quindi integrabile con ulteriori criteri (tra i quali, appunto gli “aspetti …ambientali e sociali), ragion per cui la stazione appaltante può discrezionalmente inserire tra i criteri di aggiudicazione anche particolari condizioni di esecuzione dell’appalto volti a conseguire obiettivi di natura sociale, riferiti all’applicazione di un determinato contratto di lavoro individuale, volti a conseguire specifici obiettivi di stabilità occupazionale e di trattamento economico e normativo dei lavoratori impiegati nell’appalto. La condizione necessaria per il legittimo esercizio di tale potere discrezionale è costituita dalla verifica della sussistenza di una connessione tra i criteri e l’oggetto dell’appalto (come predicato dall’art. 95 comma 6), nei termini della definizione di cui al successivo comma 11 del medesimo articolo 95 che considera connessi all’oggetto dell’appalto i “criteri di aggiudicazione che riguardino lavori, forniture o servizi da fornire nell’ambito di tale appalto sotto qualsiasi aspetto e in qualsiasi fase del loro ciclo di vita, compresi fattori coinvolti nel processo specifico di produzione, fornitura o scambio di questi lavori, forniture o servizi o in un processo specifico per una fase successiva del loro ciclo di vita, anche se queti fattori non sono parte del loro contenuto sostanziale”. Quindi, argomenta il Consiglio di Stato, prendendo in considerazione anche fattori relativi all’intero ciclo di vita, tra i criteri di aggiudicazione possono essere compresi anche criteri di natura sociale riferiti all’applicazione di un determinato contratto collettivo di lavoro o di una determinata tipologia di contratto di lavoro individuale, volti a conseguire specifici obiettivi di stabilità occupazionale e di trattamento economico e normativo dei lavoratori impiegati nell’appalto; fermo restando il limite da tempo individuato dalla giurisprudenza europea, ossia che il requisito non trasmodi nella previsione di criteri sociali che, abbandonando il legame con l’oggetto del contratto, prendano in considerazione gli aspetti relativi alla politica generale dell’impresa o altri aspetti estranei al programma contrattuale. Altri limiti sono di ordine generale e riguardano il rispetto del principio di proporzionalità. Nel caso attenzionato e che qui si commenta, il Consiglio di Stato ha argomentato che la scelta dell’amministrazione è conforme alle direttive enunciate, sia perché i criteri di valutazione presentano chiari collegamenti con l’oggetto dell’appalto, facendo riferimento esclusivamente all’impegno ad applicare un determinato CCNL e ad assumere con contratti a tempo indeterminato per i lavoratori da impiegare nell’esecuzione dell’appalto (senza ricadute sulle politiche generali dell’impresa), sia perché gli stessi appaiono rispettosi del principio di proporzionalità, posto che, in relazione al punteggio attribuito, la clausola rivela una limitata incidenza sul punteggio complessivo e non appare quindi idonea a scardinare l’impianto dei criteri di valutazione.
A conclusione della trattazione degli argomenti del presente elaborato si ritiene necessario dover fare alcuni accenni al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), documento che ciascuno Stato membro dell’UE ha predisposto per accedere ai fondi del Next Generation EU (NGEU), lo strumento introdotto dall’Unione europea per la ripresa post pandemia Covid-19, ed il rilancio dell’economia degli Stati membri.
Lo sforzo di rilancio dell’Italia delineato dal Piano presentato dal Governo si sviluppa intorno a tre assi strategici condivisi a livello europeo: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, inclusione sociale. Strettamente connesso alla presente trattazione sono il secondo ed il terzo asse strategico: la transizione ecologica che, può costituire un importante fattore per accrescere la competitività del nostro sistema produttivo, incentivare l’avvio di attività imprenditoriali nuove e ad alto valore aggiunto e favorire la creazione di occupazione stabile, il tutto nel rispetto del principio di “non arrecare danno significativo agli obiettivi ambientali” (Do no significant harm, Dnsh) e l’inclusione sociale, quale presupposto per migliorare la coesione territoriale, aiutare la crescita dell’economia e superare diseguaglianze profonde spesso accentuate dalla pandemia.
Note:
1 Commissione Europea (2008), Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni. Appalti pubblici per un ambiente migliore. Bruxelles, 16.07.2008, pag. 6
2 Sebbene in molti casi l’alternativa verde può avere un prezzo maggiore, se andassimo ad analizzare tutti i costi (durante tutta la durata del ciclo di vita del prodotto) nel complesso l’alternativa verde potrebbe rivelarsi più conveniente nel tempo
3 Considerando 37 e art. 18, pag. 2 della Direttiva 2014/24/UE
4La definizione dei CAM rientra tra i compiti assegnati al Comitato di Gestione del GPP. Per la loro elaborazione vengono istituiti gruppi di lavoro composti da esperti e da referenti delle associazioni di categoria dei produttori. I documenti così elaborati vengono sottoposti ad un confronto con gli operatori economici, tramite le associazioni di categoria e successivamente approvati dal Comitato di Gestione. La stesura finale dei CAM viene inviata ai ministri interessati per acquisire eventuali osservazioni. Infine, il documento viene adottato con Decreto del Ministro dell’ambiente e pubblicato in G.U.. I CAM attualmente in vigore sono n. 18.
5L’art. 3 lett. iiii) del Codice definisce “etichettatura” qualsiasi documento, certificato o attestato con cui si conferma che i lavori, i prodotti, i servizi, i processi o le procedure in questione soddisfano determinati requisiti. Le etichette ambientali, o eco-etichette sono marchi applicati a prodotti, imballaggi o servizi che forniscono informazioni sulla performance ambientale generale o su uno o più aspetti ambientali specifici. Alcuni sistemi di etichettatura sono obbligatori, come quelli energetici e dei prodotti tossici, altri sono ad adesione volontaria.
6vedasi per tutte Cons. Stato, sez. V, sent. 8159/2020 che, condividendo la tesi del giudice di primo grado, ha respinto il ricorso presentato dalla ricorrente in quanto la ricorrente non aveva fornito, al momento della presentazione dell’offerta, alcun elemento che consentisse di ritener provata la disponibilità delle sedi operative dichiarate, tale non potendosi certamente ritenere la stampa della pagina internet di Google Eart con puntini contrassegnanti il posizionamento delle sedi operative e i contratti depositati in giudizio fornivano prova del fatto che la stessa avesse acquisito la disponibilità delle sedi solamente dopo aver presentato l’offerta.
7la gara aveva ad oggetto la “messa a disposizione di un team composto da tre tipologie di figure professionali e il disciplinare di gara chiedeva inequivocabilmente che l’offerta tecnica dovesse rispettare tali caratteristiche minime ed il possesso della certificazione Xmarc Ltd in capo a ciascuna figura professionale, a pena di esclusione. Con la citata sentenza, il Consiglio di Stato non ha condiviso le eccezioni dell’appellante (Consip S.p.a.) stazione appaltante secondo cui il possesso delle certificazioni rilasciate dalla Xmarc Ltd in capo a ciascuna figura professionale oggetto di gara non sarebbe stato un requisito minimo dell’offerta (che, come tale, i concorrenti avrebbero dovuto dichiarare e possedere sin dalla fase della procedura selettiva), ma solo un requisito relativo alla fase esecutiva (che, quindi, ogni concorrente avrebbe legittimamente potuto limitarsi ad acquisire a valle della disposta aggiudicazione). Dalla lettura della documentazione di gara e del Capitolato tecnico allegato alla medesima documentazione emergeva chiaramente che il possesso dei requisiti minimi della fornitura (tre tipologie di figure professionali) ed il possesso in capo a ciascuna di esse della certificazione Xmarc Ltd fosse espressamente ed inequivocabilmente richiesto in termini di requisiti di partecipazione.
8in tal senso TAR Napoli, sent. n. 1529 dell’08.03.2021 che, nella fattispecie esaminata, identifica i CAM come elementi essenziali dell’offerta, con caratteristiche qualitative che devono essere possedute dalle cose oggetto di fornitura (nel caso di specie arredi ed attrezzature) che, sebbene appartenenti ad un genus, devono essere identificate, presentate e comprovate come qualitativamente idonee dal punto di vista del soddisfacimento dei criteri ambientali minimi.
9Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 8088/2019
10Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 7053/2021
IL PARCO NATURALE REGIONALE “MAR PICCOLO”: un percorso tra resilienza e sostenibilità. Vincenza Gigante (Avv. del Foro di Taranto) Sommario: 1. La tutela tra legge quadro statale e legge regionale 2. L’iter regionale di […]
Diritto Ambientale Dottrina Fascicoli Fascicolo n.2/2022
IL PARCO NATURALE REGIONALE “MAR PICCOLO”:
un percorso tra resilienza e sostenibilità.
Vincenza Gigante
(Avv. del Foro di Taranto)
Sommario: 1. La tutela tra legge quadro statale e legge regionale 2. L’iter regionale di istituzione del Parco naturale “Mar Piccolo” 3. I limiti costituzionali nella L.R. Puglia n. 30/2020 4. Le finalità di sostenibilità e resilienza del territorio 5. Perché non una Green Community?
In uno scenario di tutele ambientali irrisolte, l’istituzione del Parco naturale regionale Mar Piccolo rappresenta un percorso di sostenibilità e di resilienza per questo territorio. Al centro un nuovo interesse pubblico, quello della tutela della relazione tra la comunità e l’ambiente, che richiede nuove visioni e strategie condivise.
In a scenario of unsolved environmental safeguards, the establishment of the Mar Piccolo Regional Natural Park represents a path of sustainability and resilience for this area. At the center is a new public interest, that of protecting the relationship between community and the environment, which requires new visions and shared strategies.
La tutela tra legge quadro statale e legge regionale
L’esigenza di protezione e tutela di alcune particolari “aree” del territorio nazionale è stata riconosciuta dal nostro ordinamento prima ancora che comparisse la parola “ambiente” nella nostra Costituzione1, e non senza ingenerare conflitti di competenze tra Stato e Regioni2, anche successivamente all’introduzione di tale parola3. Ciò nella consapevolezza, via via crescendo, di un bene o una risorsa da definire e tutelare giuridicamente in quanto a rischio e non rinnovabile.
Dal punto di vista della competenza normativa, sin da subito, la Corte costituzionale con la sentenza n. 108/2005 chiarisce che «la tutela dell’ambiente, di cui alla lettera s) dell’art. 117, secondo comma, della Costituzione, si configura come una competenza statale non rigorosamente circoscritta e delimitata, ma connessa e intrecciata con altri interessi e competenze regionali concorrenti. Nell’ambito di dette competenze concorrenti, risulta legittima l’adozione di una disciplina regionale maggiormente rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale (sentenza n. 222 del 2003). Relativamente all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, non si può parlare di una “materia” in senso tecnico, qualificabile come “tutela dell’ambiente”, riservata rigorosamente alla competenza statale, giacché essa, configurandosi piuttosto come un valore costituzionalmente protetto, investe altre competenze che ben possono essere regionali, spettando allo Stato il compito di fissare standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale (sentenze n. 307 del 2003 e n. 407 del 2002) con la conseguenza che la competenza esclusiva dello Stato non è incompatibile con interventi specifici del legislatore regionale che si attengano alle proprie competenze (sentenze n. 259 del 2004; n. 312 e n. 303 del 2003).
La legge quadro statale sulle aree protette (legge 6 dicembre 1991, n. 394), premessa una prima parte (artt. 1-7) di carattere generale, presenta un titolo II dedicato alle aree naturali protette nazionali (artt. 8-21) ed un titolo III dedicato alle aree protette naturali regionali (artt. 22-28)»4.
Secondo la Corte l’istituzione di aree protette regionali e nel caso di specie «il parco regionale è infatti tipica espressione dell’autonomia regionale. Deve a questo proposito menzionarsi l’art. 23 della legge n. 394 del 1991, che stabilisce che il Parco regionale è istituito con legge regionale e determina altresì i principi del regolamento del Parco».
Il limite a tale potestà è costituito dai principi generali e dagli standard di tutela uniforme per tutto il territorio nazionale contenute nella Legge quadro n. 394 del 19915.
Ai fini della legge quadro deve intendersi per aree naturali protette, quelle parti del territorio (i parchi, nazionali, naturali interregionali e regionali, e le riserve naturali, statali e regionali, cui vanno aggiunte le aree protette da convenzioni e direttive internazionali) in cui sono presenti formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche e biologiche o gruppi di esse, aventi rilevante valore naturalistico e ambientale, e come tali sottoposte a un particolare regime di tutela e gestione (cfr. art.1 co. 2). Tale area però, lungi da una visione “settoriale”, si caratterizza «quale centro di imputazione di una serie di valori non meramente naturalistici, ma anche culturali, educativi e ricreativi, nel pieno rispetto quindi della moderna concezione di ambiente nel significato integrale del termine»6. Ciò è facilmente individuabile anche dal tenore linguistico del testo della legge lì dove è posta l’attenzione alla interazione tra l’essere umano e l’ambiente. Infatti, la disciplina della istituzione e la gestione di aree naturali protette è dettata in attuazione degli artt. 9 e 32 Costituzione, è volta a garantire e promuovere, in forma coordinata, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale del Paese (art. 1 co.1), pone l’attenzione ad una gestione gestione ambientale in modo che sia realizzata una integrazione tra uomo e ambiente naturale (art. 1 co.2 lett. b). Interessante è poi la distinzione tra parchi nazionali, in cui vi è l’intervento dello Stato ai fini della loro conservazione per le generazioni presenti e future (siamo nel 1991), e i parchi regionali in cui vengono in rilievo le tradizioni culturali delle popolazioni locali (art. 2 co.1 e co.2).
In questa ottica di disciplina coordinata, per la regione Puglia, la legge regionale n.19/1997 (Norme per la istituzione delle aree naturali protette nella Regione Puglia) all’art. 6, così come modificato dalla L. R. n. 22/2006, prevede una struttura in parte amministrativa ed in parte legislativa, qui di seguito delineata.
«Il Presidente della Giunta regionale convoca Conferenze dei servizi di cui all’articolo 22 della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), e dell’articolo 14 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), ai fini dell’individuazione di linee guida per la redazione dei documenti di indirizzo di cui all’articolo 22, comma 1, della legge 394/1991. Le Conferenze dei servizi devono completare i lavori entro e non oltre novanta giorni dalla data di convocazione. Alla Conferenza dei servizi relativa alla proposta d’istituzione di area naturale protetta sono chiamati le amministrazioni interessate, i Consorzi di bonifica e le organizzazioni agricole, imprenditoriali e ambientaliste (art. 6 L.R. ult. cit. co.2). Entro 30 giorni dalla conclusione della conferenza dei Servizi la Giunta regionale adotta, tenuto conto dei documenti di indirizzo redatti ai sensi del comma 2, il disegno di legge d’istituzione delle aree naturali protette (co.2 art. 6 L.R. ult. cit.) e provvede alla sua pubblicazione sul Bollettino ufficiale della Regione Puglia e alla sua notifica agli enti territoriali interessati» (co.5 art. 6 L.R. ult. cit.).
In tale “disegno di legge”, che riproduce sostanzialmente le “Linee di indirizzo” richiamate nel provvedimento conclusivo della Conferenza dei servizi, sono indicati la descrizione dei luoghi, la loro perimetrazione, le misure di salvaguardia, il regime vincolistico ed autorizzativo e gli eventuali indennizzi, l’ente gestore dell’area naturale protetta, le sanzioni e le norme finanziarie.
«Entro sessanta giorni dalla data di pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione Puglia, di cui al comma 5, il disegno di legge è inviato dalla Giunta regionale al Consiglio regionale per l’approvazione della legge istitutiva delle aree naturali protette»(co.6 art. 6 L.R. ult. cit.).
Con la presentazione del disegno di legge deliberato dalla Giunta al Consiglio regionale prende avvio il procedimento legislativo7.
Non può non negarsi la particolarità di tale procedimento “misto”, che si fonda su un modello semplificato e partecipativo quale è la Conferenza dei Servizi8 volta a garantire l’ampia collaborazione tra gli enti esponenziali delle collettività ai diversi livelli in vista dell’obiettivo comune di protezione dell’habitat naturale.
La Conferenza dei servizi finalizzata alla istituzione di un parco naturale regionale, che si conclude con un provvedimento, o, meglio, con un «atto generale di pianificazione e programmazione territoriale»9, è una Conferenza obbligatoria ex lege, di natura preliminare, la cui fase costitutiva dell’efficacia consiste nel procedimento legislativo di esame e di approvazione presso il Consiglio regionale10.
In tale processo decisionale, l’istituto della Conferenza dei Servizi, non si caratterizza per il contrapporsi (e il conciliarsi, ove possibile) di interessi pubblici di protezione, da un lato, e quelli di produzione, di modifica dell’esistente, dall’altro, in un’azione orientata al principio di precauzione.
Sembra invece profilarsi una Conferenza dei servizi funzionale al raggiungimento di obiettivi di tutela “attiva”11, non ancorata unicamente alla previsione di limiti e sanzioni. E, nel caso del Parco regionale “Mar Piccolo”, alla istituzione di uno strumento di resilienza e di sostenibilità in un territorio “di sacrificio”12.
2. L’iter regionale di istituzione del Parco naturale “Mar Piccolo” Dalla lettura degli atti della Conferenza dei servizi regionale è possibile individuare i seguenti tratti salienti13.
Con nota del 6 dicembre 2019, l’Assessore regionale alla Pianificazione territoriale – Urbanistica, Assetto del territorio, Paesaggio, Politiche abitative, prof. A. Pisicchio, ha indetto la Conferenza di servizi istruttoria ex art. 14, comma 1, L. n. 241/1990 per avviare il procedimento volto all’istituzione del Parco Naturale Regionale “Mar Piccolo”, introdotto con la legge regionale n. 49 del 18 novembre 2019 (Cons. rel. G. Liviano).
L’oggetto della determinazione da assumere al termine della Conferenza consisteva nell’individuazione di linee-guida per la redazione del documento di indirizzo relativa all’area da destinare a protezione individuata nell’area del Mar Piccolo di Taranto comprensiva degli specchi acquei dei due seni del Mar Piccolo e denominata “Mar Piccolo” recante l’analisi territoriale dell’area, la perimetrazione provvisoria, l’individuazione degli obiettivi da perseguire, la valutazione degli effetti dell’istituzione dell’area protetta sul territorio.
Già dalla nota di convocazione della prima seduta del 13.12.2019 si precisava che il Servizio Parchi e tutela della biodiversità aveva già predisposto (e pubblicato) lo “Schema di linee guida per la redazione del Documento di indirizzo” e l’allegato cartografico riportante l’area di interesse. Tale predisposizione (verrà precisato in seguito) si basava sui dati rivenienti dai documenti e dai piani più aggiornati a disposizione della Regione Puglia, redatti per le finalità di competenza regionale (Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, DGR 2442 del 21/12/2018 relativa a “Rete Natura 2000. Individuazione di Habitat e Specie vegetali e animali di interesse comunitario nella regione Puglia”)14.
La conferenza dei servizi si è svolta in tre sedute, e precisamente nelle date del 13 dicembre 2019, 12 febbraio 2020 e del 30 aprile 2020. Quest’ultima in modalità asincrona. Molteplici le note scritte trasmesse.
Dalla disamina delle molteplici osservazioni e contributi proposti dalle Amministrazioni, Enti e associazioni a vario titolo coinvolti15, sintetizzate nel prospetto “Esame delle osservazioni” del 15 aprile 2020 unitamente alle rispettive controdeduzioni della Regione, è possibile evincere la complessità delle valutazioni in campo.
In definitiva, è stata proprio la perimetrazione proposta dagli Uffici regionali a destare maggiore perplessità (cfr. controdeduzioni al Comune di Taranto e al Commissario straordinario per le bonifiche16: « […] L’analisi territoriale condotta per le finalità di cui alla nota di convocazione della Conferenza di servizi è stata condotta alla scala ritenuta più opportuna, non essendo il documento sottoposto alla discussione della Conferenza un Piano, bensì un insieme di Linee guida per la redazione del Documento di indirizzo per la predisposizione dello Schema di Disegno di Legge per l’istituzione del Parco Naturale Regionale Mar Piccolo)».
Tra le osservazioni, infatti, si individuano alcune contrarietà per aver inserito all’interno del perimetro l’area di Palude La Vela (Riserva Naturale Orientata Regionale già istituita con l.r. 11/2006, ma compresa anche nel SIN), le aree appartenenti al demanio militare urbanizzate, l’invaso Pappadai e, oltre il Comune di Taranto (il cui territorio rappresenta circa il 90% dell’intera perimetrazione) altri Comuni, , questi ultimi magari da considerare in una fase successiva per non aggravare l’avvio della fase gestionale (perplessità nutrite peraltro anche da alcune associazioni ambientaliste intervenute).
Ciò porterà l’Amministrazione comunale di Taranto a formulare una controproposta con una diversa perimetrazione che, comunque, non sarà accolta dalla Regione17.
Emergono, inoltre, gli aspetti relativi al SIN e all’Area di Crisi Ambientale, di cui il Commissario ritiene opportuna l’integrazione. A tale rilievo la Regione controdedurrà: «In relazione alla ritenuta opportunità di integrazione del paragrafo relativo ai fattori di rischio con contenuti relativi all’inquinamento di suolo, acqua ed aria, alla dichiarata “[…] disponibilità ad un’attività di copianificazione per tutto il percorso di pianificazione per l’istituzione dell’area protetta […]” ed alla luce delle finalità della Conferenza di servizi, fra le quali quella di raccogliere ogni contributo utile a definire un’analisi completa della realtà territoriale, questo Servizio resta in attesa di ricevere dalla Struttura commissariale le informazioni e gli esiti degli studi condotti negli anni, nonché un quadro dello stato di avanzamento degli indicatori di miglioramento ambientale come riveniente dalla realizzazione degli interventi urgenti di bonifica, ambientalizzazione e riqualificazione di Taranto di cui è titolare».
Sempre il Commissario, «[…] alcun cenno viene fatto alla mitilicoltura, attività che racchiude storia, cultura e tradizioni del rapporto terra/mare e che oggi si configura come un comparto non trascurabile per l’economia della città e del territorio».
Per la Regione Puglia, «L’analisi territoriale contenuta nelle linee guida per la redazione del documento di analisi non contiene analisi di dettaglio relative agli effetti socio economici del territorio per ciascun settore produttivo, analisi che dovrà invece essere contenuta negli strumenti di attuazione delle finalità del parco, come definiti » (cfr. pagg. 16-17 Prospetto 15 aprile 2020).
Questi, a titolo esemplificativo, il tenore di alcuni passaggi del confronto all’interno della Conferenza dei servizi istruttoria della Regione Puglia, Dipartimento Mobilità. Qualità urbana, Opere pubbliche, Ecologia e paesaggio – Sezione Tutela e Valorizzazione del Paesaggio qui esaminata.
Il provvedimento conclusivo è costituito dalla Determinazione N. 79 del 04.06.2020, in cui si rinvengono alcune considerazioni non meramente tecniche.
In risposta alla nota di Federazione Coltivatori Diretti della Provincia di Taranto, « […] sul tema della collaborazione fra aree naturali protette e mondo della produzione agricola, si richiama a titolo di esempio il “Documento congiunto delle Organizzazioni Professionali Agricole e della Federazione Italiana dei Parchi e delle Riserve Naturali per il sostegno e la valorizzazione dell’agricoltura nelle aree protette italiane”, un accordo di collaborazione sottoscritto dalle Organizzazioni Professionali Agricole (Confederazione Italiana Agricoltori, Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti, Confederazione Generale Agricoltura Italiana) e la Federazione Italiana dei Parchi e delle Riserve Naturali, finalizzato anche a riuscire a “coniugare e ad integrare appieno le attività agricole con le azioni di conservazione e di valorizzazione dell’ambiente naturale.” […] In riferimento al punto 2 della nota del Comune di Taranto, si prende atto della deliberazione della Giunta Comunale n. 355/2018 del 27/12/2018 di approvazione del Protocollo di intesa sottoscritto tra la stessa Amministrazione comunale, il Ministero della Difesa, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e l’Agenzia del Demanio, finalizzato alla razionalizzazione e valorizzazione di immobili militari presenti nel territorio del Comune di Taranto. Con riferimento al progetto “ReMar Piccolo: natura e tradizioni per rivivere il mare” del Comune di Taranto finanziato con fondi del POR Puglia 2014/2020 – Asse VI –Azione 6.6 – Sub-Azione 6.6.a “interventi per la tutela e la valorizzazione di aree di attrazione naturale”, si auspica che tale approccio progettuale possa essere proficuamente esteso all’intero ambito territoriale definito dalla proposta di perimetrazione provvisoria dell’area naturale protetta. […] In riferimento alla struttura amministrativa conseguente alla presenza di 6 amministrazioni comunali, la composizione dell’Ente di gestione potrà prevedere una partecipazione delle amministrazioni coinvolte proporzionale alle porzioni di territorio conferite al Parco”.
In definitiva, nel documento denominato “Linee guida –Documento di indirizzo” (versione maggio 2020) approvato con la determina citata, si legge che «La perimetrazione provvisoria comprenderà l’area terrestre in cui sono presenti valori naturalistici, ambientali e paesaggistici e l’area di mare dei due seni del bacino del Mar Piccolo. Essa si estenderà verso porzioni dei comuni di: Statte, ove sono presenti la Zona Speciale di Conservazione individuata con il codice IT9130002 e denominata Masseria Torre Bianca, nonché importanti porzioni di habitat, come individuati nella DGR 2442/2018; Carosino, Fragagnano, Grottaglie, Monteiasi, San Giorgio Jonico nei quali sono presenti solchi di scorrimento di importanti connessioni ecologiche fra il bacino del Mar Piccolo e l’invaso del Pappadai1 (Canale Marullo-Cicena). Quest’ultimo, area umida artificiale, è stato individuato dall’Istituto Nazionale Fauna Selvatica – INFS nel Catasto Zone Umide Italiane, insieme con Mar Piccolo primo e secondo seno (inclusi Palude La Vela, le vasche di itticoltura Canale D’Aiedda) e l’area di Bonifica Salina Grande, ed inserito dallo stesso Istituto nella “Rete di rilevamento e test IWC” (International Waterfowl Census), utile alla realizzazione del “Censimento uccelli acquatici Italia».
Di tale Documento di indirizzo “si terrà conto” nel disegno di legge adottato dalla Giunta regionale che, successivamente agli adempimenti e alla tempistica già innanzi delineati, sarà inviato al Consiglio regionale per l’approvazione della legge istitutiva dell’area naturale protetta sin qui delineata.
3. I limiti costituzionali nella L.R. Puglia n. 30/2020
Con la legge regionale n. 30/2020 vengono istituiti due parchi naturali regionali: ‘Costa Ripagnola’ (Polignano a Mare-Ba) al Capo I e ‘Mar Piccolo’ al capo II18.
La gestione del parco “Mar Piccolo” è affidata agli enti locali territorialmente interessati che operano tramite un consorzio costituito ai sensi dell’articolo 31 del d.lgs. 267/2000. I Comuni di Taranto, Statte, Carosino, Grottaglie, Fragagnano, Monteiasi, San Giorgio Jonico partecipano al consorzio in proporzione alle quote di territorio compreso nel perimetro del parco (art. 19 co. 1 e 2).
La gestione, l’amministrazione e la legale rappresentanza dell’area protetta sono affidate in via provvisoria al Comune di Taranto sino alla costituzione dell’ente di gestione del parco (art. 31).
La tutela dei valori naturali, ambientali, storici, culturali e antropologici affidata all’ente di gestione del parco è perseguita attraverso il Piano per il parco predisposto e adottato dall’ente di gestione stesso e approvato secondo quanto stabilito all’articolo 22 della legge regionale.
Il Piano disciplina i contenuti di cui all’articolo 12, comma 1 della l. 394/1991 e suddivide il territorio del parco in base al diverso grado di protezione, secondo quanto previsto all’articolo 12, comma 2 della medesima legge (art. 21 co.1 e 2).
Tale Piano sostituisce i piani territoriali e urbanistici di qualsiasi livello e ogni altro strumento di pianificazione del territorio (art. 21 co.3) e a tale piano si dovranno adeguare strumenti urbanistici comunali e intercomunali secondo una rigorosa procedura (art. 21 co.4).
La tutela è desumibile dal combinato disposto delle “Misure di salvaguardia” (dalle attività vietate ex art. 25 e autorizzate in deroga per la realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, previste nel medesimo articolo al co. 5), dal “Regime autorizzativo” (art. 26), dalla previsione di “Nulla osta e pareri” (art. 27) e dalle “Sanzioni” (art. 30).
Ebbene, alcune disposizioni della legge regionale sono state oggetto di sindacato di legittimità costituzionalità proprio sui profili di livelli di tutela ammissibili per la Regione.
Tralasciando l’esame delle norme relative al parco “Costa Ripagnola”, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 25 comma 5 e 26, comma 1, per le attività consentite di cui alle lettere g (sull’intero territorio del parco, la realizzazione degli interventi di manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo di cui all’articolo 3, comma 1, lettere a), b) e c) del d.p.r. 380/2001), h (limitatamente alla zona 319 di cui all’articolo 20, la realizzazione di interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 3, comma 1, lett. d) del d.p.r. 380/2001), i (limitatamente alle zone 2 e 3, la realizzazione di interventi di adeguamento di tipo tecnologico e igienico-sanitario connessi all’applicazione delle normative vigenti in materia agro-zootecnica nonché di interventi necessari alla messa a norma delle strutture, degli edifici e degli impianti relativamente a quanto previsto in materia igienico-sanitaria, sismica, di sicurezza ed igiene sul lavoro, di superamento delle barriere architettoniche), e comma 2 (recte: art. 26, comma 1, lettera j (gli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario, le ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale definiti nell’ambito della procedura di approvazione della caratterizzazione e del progetto di bonifica del Sito di interesse nazionale di cui al decreto del Ministero dell’Ambiente 10 gennaio 2000 (Perimetrazione del sito di interesse nazionale di Taranto) e finalizzati a minimizzare e ricondurre ad accettabilità il rischio derivante dallo stato di contaminazione presente nel sito).
La Corte Costituzionale, con sentenza 251/2021, ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 comma 5 e dell’art. 26, comma 1, lettera h), della legge regionale Puglia n. 30 del 202020.
Non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 1, lettere g), i) e j). Per quest’ultima disposizione impugnata, in tema di bonifica dei siti inquinati21, rientranti al pari delle aree protette nell’ambito della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema22, la Corte non ha rilevato un effetto peggiorativo rispetto alla disciplina statale, in quanto «si limita a richiamare, quale disciplina transitoria, quelle misure ed interventi definiti nell’ambito della procedura di approvazione della caratterizzazione e del progetto di bonifica del sito di interesse nazionale di Taranto (procedura oggetto di disciplina assai stratificata, che non si esaurisce negli articoli del codice dell’ambiente dedotti dal ricorrente quali parametri interposti), senza contenere alcun riferimento a specifiche norme del codice di settore e senza introdurre espresse deroghe alle medesime».
Quanto alle altre norme Corte ne rileva l’illegittimità costituzionale in quanto, pur contenendo una clausola di salvezza in relazione a vincoli maggiormente restrittivi eventualmente previsti dal PPTR, per violazione dell’art. 145, comma 3, cod. beni culturali, introducono delle deroghe alla disciplina d’uso dettata dal PPTR23. Afferma la Corte che, per costante giurisprudenza, «Il principio della prevalenza del piano paesaggistico rispetto a tutti gli strumenti di pianificazione territoriale, inclusi quelli relativi alle aree protette, sancito dall’art. 145, comma 3, cod. beni culturali, integra una regola di tutela primaria del paesaggio in nessun modo derogabile ad opera della legislazione regionale che, nella cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali, deve rispettare gli standard minimi uniformi di tutela previsti dalla normativa statale, potendo al limite introdurre un surplus di tutela e non un regime peggiorativo». E’ inoltre particolarmente rielevante che la Consulta abbia ribadito che «introducendo un regime peggiorativo del bene paesaggistico, la disposizione impugnata si pone in contrasto” con il Codice dei beni culturali, “con conseguente invasione della sfera di competenza esclusiva statale»24.
Ne emerge uno scenario di plurime tutele gerarchicamente sovraordinate le une alle altre, non sempre facilmente distinguibili.
4. Le finalità di sostenibilità e resilienza del territorio
Lungi dal rappresentare una tutela “statica”, limitata alla conservazione e alla difesa dell’esistente, l’istituzione del Parco naturale “Mar Piccolo” sembra proiettarsi nel futuro in una ottica di valorizzazione resiliente. La sostenibilità appare nelle sue dimensioni plurime e trasversali, imprescindibili ed interconnesse: sociale, ambientale ed economica25.
Cambia il linguaggio rispetto alle finalità descritte nell’art. 1 della Legge quadro n.394/1991 nella nuova presa di coscienza che ogni progetto di sostenibilità ambientale non può prescindere dalla sostenibilità sociale26.
Le finalità del Parco (art. 18 co.3) e l’elenco degli interventi che il Piano del Parco dovrà prevedere (art. 21 co. 6) sono da leggere ed interpretare in simbiosi.
Qui lo sguardo si muove da una urgente necessità: la qualità della vita della generazione presente, sia che si tratti di promuovere un modello di sviluppo eco-sostenibile che non rechi danno all’ambiente, alle risorse naturali e a quelle del patrimonio storico, archeologico e architettonico, che contribuisca a innalzare il livello di qualità della vita dell’intera comunità privilegiando la fruizione pubblica e non esclusiva del territorio (lett. k), o di creare nuove opportunità di crescita e di sviluppo sostenibile che preservino la possibilità di sviluppo nel lungo periodo e accrescano la qualità della vita delle popolazioni presenti (lett. m), o, ancora, di riqualificare i nuclei abitati e produttivi presenti al fine di ridurre gli impatti ecologici, paesaggistici, sanitari e sociali e migliorare la qualità della vita delle popolazioni presenti (lett. n).
La tutela del territorio, è evidente nella enucleazione di queste finalità, non può prescindere dalla persona27 e dallo sviluppo di capacità: promuovere attività di educazione e di formazione ambientale, di ricerca scientifica e attività ricreative compatibili (lett. i); promuovere la fruizione sostenibile e integrata dei beni naturali, paesaggistici, storico-artistici, archeologici (lett. j); incentivare il miglioramento della qualità dei prodotti agricoli e della molluschicoltura, anche attraverso l’istituzione di marchi di qualità e certificazioni di prodotto e di processo (lett. l)28.
Tra gli interventi del Piano: riqualificazione e recupero, rinaturalizzazione, diversificazione, monitoraggio, recupero, conservazione e fruizione, implementazione. Ma anche, la creazione di sentieri natura, didattici e ricreativi a uso delle scuole, dei cittadini e dei turisti; la valorizzazione delle aree costiere mediante la realizzazione di forme di fruizione-sostenibile; il coinvolgimento degli operatori nei vari settori economici e produttivi, per fornire la propria collaborazione nella tutela degli ecosistemi, nel miglioramento dell’offerta di servizi eco sistemici e nella realizzazione di interventi di protezione e valorizzazione del territorio, anche attraverso la sottoscrizione di accordi e convenzioni.
Si profila turismo “esperenziale”29 attraverso il coinvolgimento degli operatori nei vari settori economici e produttivi, ciò in quanto la stessa finalità del Parco potrebbe essere svuotata dei contenuti propositivi se fosse ancorata unicamente ai divieti e sanzioni posti al fine di garantirne la tutela e la protezione. Inoltre, questo coinvolgimento avrà un significato particolare per la comunità jonica in quanto potrà consentire di recuperare il valore costituzionale del lavoro, finalizzato cioè al “progresso” della società (art. 4 Costituzione), tramite la tutela e la valorizzazione del territorio. In altri termini, un lavoro “sostenibile”, anche per la presente generazione.
Con riferimento, poi, alla recente modifica costituzionale, sebbene non sia questa la sede per trattare un tema di così vasta portata e significato culturale e giuridico, è opportuno osservare che la modifica dell’art. 9 e dell’art. 4130 non costituisce un “allontanamento” dalla prospettiva “personalista”31 della Costituzione. Può invece leggersi altro.
Proprio l’istituzione del Parco naturale regionale “Mar Piccolo” rappresenta una nuova traiettoria di sostenibilità ambientale (ed economica) che è imprescindibile dalla sostenibilità sociale e, anzi, la presuppone32. La riflessione giuridica sulla sostenibilità, su questo piano, segue quella etica ed antropologica. Il “tema” ambiente, infatti, presuppone una idea di società e si innesta su di essa33.
La tutela del territorio passa attraverso il processo di riconoscimento della comunità che vive quel territorio34, dei suoi bisogni reali e delle sue potenzialità e traccia una “visone” dell’essere umano che vive delle e nelle relazioni. “Abitiamo” cioè una vita in continuo fluire in una rete di vite interconnesse35, fatte di relazioni intrinsecamente di valore36. Né può ignorarsi, in questa riflessione sistemica, una visione dell’essere umano in grado di includere l’ambiente come parte di sé e costituito dagli stessi elementi della natura37.
Di questa prospettiva la Corte costituzionale aveva già da tempo dato atto: cioè di un «processo evolutivo diretto a riconoscere una nuova relazione tra la comunità territoriale e l’ambiente che la circonda»38.
Con la istituzione del Parco Mar Piccolo, a chiare lettere, dunque, viene espresso che il rapporto tra l’essere umano e l’ambiente è reciproco. La tutela dell’ambiente migliora la qualità della vita della comunità. L’uomo, quindi, «è parte dell’ambiente, il bene ambiente non resta estraneo all’uomo, ma si unisce, per così dire, alla realtà umana di modo che il binomio uomo-ambiente diventa una entità unitaria. Ne consegue che l’uomo non può difendere l’ambiente, se non provvede cioè alla sua conservazione. Insomma, il diritto all’ambiente non è un diritto della personalità alla fruizione ed alla conservazione dell’ambiente. Il problema, a questo punto, è quello di trasporre in categorie giuridiche questo generico concetto di appartenenza»39.
Un nuovo compito, quindi, di costruzione giuridica, che dovrà tenere ben presente, anche sotto il profilo della responsabilità, l’interesse costituzionale delle nuove generazioni, nell’accoglimento di una tutela della persona nella prospettiva diacronica, non riservata al presente40.
5. Perché non una green communty?
Il Parco naturale Regionale Mar Piccolo, la cui gestione, amministrazione e legale rappresentanza è affidata in via provvisoria al Comune di Taranto, prevede, come già detto, per la sua piena operatività la costituzione dell’ente di gestione del parco. Gli enti locali territorialmente interessati opereranno tramite un consorzio costituito ai sensi dell’articolo 31 del D.lgs. 267/2000.
Ma proprio alla luce della considerazioni sin qui svolte, e cioè, in definitiva, della tutela del territorio tramite e per la comunità locale, viene da chiedersi se non sia possibile dotarsi anche di altro “patto” inclusivo e partecipativo, qual è la Green Community, prevista per le ex comunità montane e rurali41, tramite una auspicabile previsione normativa di estensione anche ad aree non montane.
La ratio istitutiva, cioè una particolare attenzione a zone periferiche del Paese, che vivono di fatto una situazione di disagio e di “isolamento”, potrebbe essere applicata in via estensiva anche al territorio jonico-tarantino, e quindi al Parco naturale regionale “Mar Piccolo”, per rigenerare un’are (ed una comunità), che ha vissuto e vive una particolare “calamità”.
Le Green Communities sono inizialmente previste con l’art. 72 della legge 221/2015 (“Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”) per rispondere agli impegni assunti dal Paese nell’ambito della Cop21 di Parigi: si tratta di una legge organica su ambiente, territorio, nuovo rapporto tra ambiente ed ecosistema, riduzione delle risorse, riequlibrio del rapporto tra aree rurali ed urbane. Da qui la Strategia delle Green Communities42 finanziata dal Piano nazionale di Ripresa e Resilienza che prevede uno stanziamento di 135 milioni di euro per la creazione in Italia di 33 “comunità verdi”. Al momento sono state individuate tramite un’analisi desk basata su alcuni indicatori individuati a livello centrale, le prime tre Green Communities pilota (Missione 2, Componente 2, Investimento). Tra questi, anche il “Parco Regionale Sirente Velino” in Abruzzo43. Questi “progetti pilota” selezionati costituiranno il “modello” utile al Dipartimento per gli Affari Regionali per la stesura del bando nazionale finalizzato alla selezione di ulteriori 30 progetti ordinari di Green Communties44.
Si tratta, dunque, di un progetto sperimentale di “sostenibilità sociale”, destinato a territori che hanno una vocazione diversa dall’area metropolitana, zone periferiche ed, in qualche modo, “disagiate” per consentire all’intera comunità di darsi una mission di valorizzazione.
Un modello inclusivo, quindi, in qualche modo da adottare, per rispondere al bisogno del territorio-comunità di riconoscersi e darsi nuove progettualità, pubblica e privata. Una alleanza tra ente parco, cittadini, associazioni, imprese, Università, governi del territorio45, per focalizzare ed integrare le energie presenti verso una visione altra e alta, per non lasciare indietro nessuno46.
1 Sulla lettura congiunta degli artt. 2, 9 e 32 Cost. e la ricostruzione “sistemica” della giurisprudenza costituzionale , cfr. Dossier Senato, La tutela dell’ambiente in Costituzione, giugno 2021 n. 396, in https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01299303.pdf. In proposito si evidenzia che «Sul ruolo della Corte costituzionale il ruolo creativo della giurisprudenza è stato spesso collegato alla crisi della legge e alla necessità di nuovi canali di emersione dei valori che giustificano la convivenza. Nel caso dell’ambiente, la giurisprudenza costruisce i confini dell’interesse tutelato a partire dal bisogno di giustizia che emerge nel caso concreto e dalla necessità che questo bisogno non resti privo di tutela, come è accaduto esemplarmente nelle vicenda dell’ILVA di Taranto». Così G. L. Conti, La tutela dell’ambiente: prospettive di diritto pubblico della transizione, 2017, in https://www.rqda.eu/gian-luca-conti-la-tutela-dellambiente-prospettive-di-diritto-pubblico-della-transizione/
Significativo, il contributo ricostruttivo sul dipanarsi delle competenze in relazione alla enucleazione del concetto stesso di ambiente, di P. Maddalena, La giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di tutela e fruizione dell’ambiente e le novità sul concetto di “materia”, sul concorso di più competenze sullo stesso oggetto e sul concorso di materie, in Riv. Giur. Edilizia, fasc.1, 2010, pag. 13 ss..
2 Vedasi le significative sentenze-guida della Corte costituzionale n. 1029 e n. 1032 del 1988 sulla individuazione di tre livelli di competenza nell’ambito della protezione della natura. Sulla capacità pervasiva dell’ambiente rispetto ad altre categorie giuridiche connesse o similari, nel delicato riparto di competenze tra Stato e Regioni, A. Vuolo, L’ambiente e il problematico assetto delle competenze tra Stato e Regioni, 2021, in https://www.nomos-leattualitaneldiritto.it/nomos/alfonso-vuolo-ambiente-problematico-assetto-competenze-stato-regioni
3 Con la l. cost. n. 3 del 2001, al secondo comma dell’art. 117 della Costituzione è introdotta la materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, ascritta alle competenze esclusive dello Stato, mentre la valorizzazione dei beni ambientali (unitamente a quelli culturali) rientra nella potestà legislativa ripartita.
Da ultimo, in data 8.2.2022 la Camera dei Deputati ha approvato definitivamente la proposta di legge costituzionale per modificare gli articoli 9 e 41 della Costituzione. Così facendo, viene inserita la tutela dell’ambiente tra i princìpi fondamentali dell’ordinamento italiano. L’art. 9 Cost. si arricchisce di un nuovo comma in virtù del quale la Repubblica Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali. Viene dunque riconosciuta una proiezione della Costituzione verso le generazioni future. Con la modifica all’art. 41 Cost., il legislatore è intervenuto sul secondo comma, sottolineando che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in danno della salute e dell’ambiente. Si tratta quindi di aggiungere questi due limiti a quelli già previsti, ovvero la sicurezza, la libertà e la dignità umana. La seconda modifica concerne il terzo comma dell’articolo 41: si riserva alla legge la possibilità di indirizzare e coordinare l’attività economica, sia pubblica che privata, ai fini sociali ed ambientali. Per una significativa riflessione sulle recenti modifiche, in particolare sul rafforzamento delle gerarchie valoriali che parte dalla concezione personalista, si veda A. Morrone, La modifica dell’art. 9 della Costituzione, relazione tenuta durante il convegno annuale AIDAMBIENTE, La riforma costituzionale in materia di tutela dell’ambiente, 20.01.2022, registrazione visibile sul sito aidambiente.it.
4 Sentenza consultabile in https://www.giurcost.org/decisioni/2005/0108s-05.html?titolo=Sentenza%20n.%20108
5 Così art. 1, Finalità e ambito della legge: «La presente legge, in attuazione degli articoli 9 e 32 della Costituzione e nel rispetto degli accordi internazionali, detta princìpi fondamentali per l’istituzione e la gestione delle aree naturali protette, al fine di garantire e di promuovere, in forma coordinata, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale del paese. 2. Ai fini della presente legge costituiscono il patrimonio naturale le formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche e biologiche, o gruppi di esse, che hanno rilevante valore naturalistico e ambientale. 3. I territori nei quali siano presenti i valori di cui al comma 2, specie se vulnerabili, sono sottoposti ad uno speciale regime di tutela e di gestione, allo scopo di perseguire, in particolare, le seguenti finalità: a) conservazione di specie animali o vegetali, di associazioni vegetali o forestali, di singolarità geologiche, di formazioni paleontologiche, di comunità biologiche, di biotopi, di valori scenici e panoramici, di processi naturali, di equilibri idraulici e idrogeologici, di equilibri ecologici; b) applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra uomo e ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali; c) promozione di attività di educazione, di formazione e di ricerca scientifica, anche interdisciplinare, nonché di attività ricreative compatibili; d) difesa e ricostituzione degli equilibri idraulici e idrogeologici. 4. I territori sottoposti al regime di tutela e di gestione di cui al comma 3 costituiscono le aree naturali protette. In dette aree possono essere promosse la valorizzazione e la sperimentazione di attività produttive compatibili. 5. Nella tutela e nella gestione delle aree naturali protette, lo Stato, le regioni e gli enti locali attuano forme di cooperazione e di intesa ai sensi dell’articolo 81 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, e dell’articolo 27 della L. 8 giugno 1990, n. 142. Per le medesime finalità lo Stato, le regioni, gli enti locali, altri soggetti pubblici e privati e le Comunità del parco possono altresì promuovere i patti territoriali di cui all’articolo 2, comma 203, della legge 23 dicembre 1996, n. 662».
Occorre evidenziare che il D.P.R. 357/1997, così come modificato ed integrato dal D.P.R. 120/2003, di recepimento della Direttiva Habitat, stabilisce all’art. 4, c. 3 che qualora le Zone di Speciale Conservazioni ricadano all’interno di un’are naturale protetta “si applicano le speciali misure di conservazione per queste previste dalla normativa vigente” e il successivo art. 5, c. 7 che “la valutazione di incidenza di piani o interventi che interessano proposti SIC, SIC e ZSC ricadenti, interamente o parzialmente, in un’area naturale protetta, è effettuata sentito l’ente di gestione del parco”.
6 Sentenza Corte Costituzionale n. 302/1994 consultabile in https://www.giurcost.org/decisioni/1994/0302s-94.html?titolo=Sentenza%20n.302.
7 Sul rilievo che solo un procedimento interamente amministrativo possa tutelare le posizioni giuridiche degli interessati, R. Dickmann, La Corte costituzionale chiarisce la propria giurisprudenza in materia di leggi di approvazione di provvedimenti amministrativi, in Foro amm. CDS, fasc.11, 2008, p. 2925 ss..
8 Per tale definizione, M.A. Sandulli, Il procedimento amministrativo e la semplificazione, report Annuale, 2013, in www.ius-publicum.com.
9 Così, Corte Costituzionale, 20 novembre 2008, n.382.
10 R. Dickmann, La Corte costituzionale chiarisce la propria giurisprudenza in materia di leggi di approvazione di provvedimenti amministrativi, cit., evidenzia che “Durante il procedimento legislativo i relativi profili di atto generale amministrativo si dissolvono progressivamente nella forma della legge conclusiva. Essendo la legge sottratta ai gravami propri dei provvedimenti amministrativi, eventuali vicende patologiche connesse alla formazione dei suoi «contenuti amministrativi», se non corrette nel corso del procedimento legislativo, sono suscettibili di esclusivo sindacato davanti alla Corte costituzionale […]. Il che riduce non poco le prospettive di tutela delle posizioni giuridiche individuali eventualmente lese nel corso della fase amministrativa del procedimento”. Sull’esclusione dell’impugnabilità diretta della legge-provvedimento dinanzi al giudice amministrativo, si veda Consiglio di Stato, sez. IV sentenza del 22 marzo 2021, n. 2409.
11 Amplius, P. Forte, La conferenza di servizi come strumento di tutela olistica e attiva del patrimonio culturale della Nazione, in «Il capitale culturale», Supplementi 11 (2020), pp. 375-392; ISSN 2039-2362 (online);
12 Per tale definizione, cfr. ultimo rapporto dell’Assemblea generale dell’Onu sul “Diritto ad un Ambiente pulito, salubre, sostenibile e non tossico”, firmato da due relatori speciali delle Nazioni unite, David R. Boyd e Marco Orellana (https://www.cosmopolismedia.it/attualita-page/onu-taranto-e-una-zona-di-sacrificio-l-ex-ilva-viola-i-diritti-umani.html); da ultimo, sugli esiti della ricerca commissionata all’OMS, https://www.ilsole24ore.com/art/ex-ilva-oms-intensificando-aia-meno-morti-ed-emissioni-ma-fabbrica-resta-problema-AEy36U9; vedasi inoltre le recenti quattro sentenze della Corte europea dei diritti umani contro lo Stato italiano a causa delle emissioni dell’Ilva responsabili di mettere a rischio la salute dei cittadini ( https://www.rainews.it/articoli/2022/05/ilva-dalla-corte-di-strasburgo-4-condanne-per-litalia-persiste-pericolo-per-la-salute-8843dd90-e33c-44ed-836d-42dcc8bc354b.html).
13Tutta la documentazione è consultabile sul sito della Regione Puglia: https://pugliacon.regione.puglia.it/web/sit-puglia-paesaggio/news1/-/asset_publisher/MH3MmsEzeh3T/content/istituzione-parco-naturale-regionale-mar-piccolo-conferenza-di-servizi-istruttoria
14 Esame delle osservazioni – 15 aprile 2020, in https://pugliacon.regione.puglia.it/web/sit-puglia-paesaggio/news1/-/asset_publisher/MH3MmsEzeh3T/content/istituzione-parco-naturale-regionale-mar-piccolo-conferenza-di-servizi-istruttoria
15 Hanno partecipato alla Conferenza dei Servizi: il Comune di Taranto, il Commissario Straordinario per la bonifica, ambientalizzazione e riqualificazione di Taranto, l’associazione Ambiente e/è vita Puglia, l’associazione Italia Nostra onlus-sezione di Taranto, l’Associazione Nazionale Archeologi, l’Aeronautica Militare – Comando Scuole dell’Aeronautica Militare/3^ Regione Aerea, la Lega Italiana Protezione Uccelli (LIPU) – Coordinamento Puglia, l’Unione Italiana Cooperative – Settore ittico, Federcaccia Taranto, l’Autorità di Bacino Distrettuale dell’Appennino Meridionale, il Comune di Grottaglie, Comune di San Giorgio Jonico, Confagricoltura Taranto, Legambiente Puglia, la Marina Militare – Comando Marittimo Sud – Taranto, Comando Militare – Esercito Puglia, l’Ordine Periti Industriali Taranto, Federazione Coltivatori Diretti della Provincia di Taranto.
16 Occorre rilevare che nel 2018 è stato istituito l’Osservatorio “Galene” sulla sostenibilità del Mar Piccolo, su iniziativa dell’ex Commissario Straordinario alle bonifiche dott.ssa Vera Corbelli. Cfr. https://www.interno.gov.it/it/notizie/losservatorio-galene-impegnato-sostenibilita-mar-piccolo-taranto
17 Per le osservazioni e controdeduzioni, si rinvia al Prospetto sintetico pubblicato sul sito Regione Puglia.
18 Quanto ai profili di tutela, occorre evidenziare, inoltre, che l’area del Mar Piccolo è anche oggetto di una proposta come Area Marina Protetta, di competenza statale. Cfr. https://www.mite.gov.it/notizie/proposta-area-marina-protetta-taranto-sottosegretario-all-ambiente-micillo-il-nostro-paese;
19 L’art. 20 prevede una zonizzazione provvisoria: «Fino all’approvazione del Piano di cui all’articolo 21, il parco è suddiviso nelle seguenti zone: a) zona 1 di rilevante valore naturalistico, paesaggistico e storico culturale; b) zona 2 di valore naturalistico, paesaggistico e storico culturale, connotata dalla presenza di attività antropiche; c) zona 3 connotata dalla presenza di nuclei abitati, militari e produttivi».
20 Consultabile in https://www.giurcost.org/decisioni/2021/0251s-21.html?titolo=Sentenza%20n.%20251
21 Specifica la Consulta: «La bonifica dei siti inquinati la cui disciplina rientra nella materia di competenza esclusiva statale della «tutela dell’ambiente» (da ultimo, sentenze n. 231 e n. 28 del 2019), la legislazione regionale può introdurre solo norme idonee a realizzare un innalzamento dei livelli di tutela ambientale o comunque non derogatorie in senso peggiorativo rispetto a quelle contenute nel codice dell’ambiente (sentenze n. 215 del 2018, n. 247 del 2009 e n. 214 del 2008)».
22 Per la ricostruzione di tale orientamento della giurisprudenza della Corte costituzionale, cfr. Note Giurisprudenziali, Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2021, 6, I, 1785.
23 Premette la Corte Costituzionale: “L‘intero territorio della Regione Puglia è coperto dal piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), approvato con delibera della Giunta regionale 16 febbraio 2015, n. 176, e tuttora vigente. In particolare, i territori dei parchi naturali regionali «Costa Ripagnola» e «Mar Piccolo» – in quanto beni paesaggistici ai sensi dell’art. 134, lettere a) e b), cod. beni culturali, trattandosi rispettivamente di aree dichiarate di notevole interesse pubblico (lettera a) con decreti ministeriali del 1° agosto 1985 e di aree tutelate per legge (lettera b) – sono assoggettati alla disciplina d’uso contenuta nel PPTR.
24 Cfr., Note Giurisprudenziali, Rivista Giuridica dell’Edilizia, ult. cit..
25 Va da sé il richiamo all’Agenda 2030, il programma d’azione adottato nel 2015 dall’Assemblea generale dell’Onu nel 2015 finalizzato ad avviare una transizione verso un modello di sviluppo capace di coniugare le esigenze della crescita economica con una maggior tutela dell’ambiente e delle generazioni presenti e future, in cui è chiaramente enucleata la natura tridimensionale del concetto di sostenibilità. Le tre dimensioni della sostenibilità, tutte ugualmente importanti e reciprocamente collegate, sono quella ambientale, sociale ed economica. Per questo nell’Agenda si parla di lotta ai cambiamenti climatici e di tutela della biodiversità, ma anche di istruzione, di lotta alla fame e alla povertà, di lavoro dignitoso, di economia circolare, di pace.
26 Per questo profilo, Donato Speroni, https://asvis.it/editoriali/1288-12576/se-si-trascura-la-sostenibilita-sociale-si-va-verso-la-catastrofe, 22.04.2022.
27 Da intendersi nel senso costituzionale di “creatura relazionale” e pertanto “solidale”. Per questa espressione, P. Grossi, Una Costituzione da vivere, Marietti, 2019. Sul punto, si veda in particolare R. MONTALDO, Il valore costituzionale dell’ambiente, tra doveri di solidarietà e prospettive di riforma, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2, 2021. Disponibile in www.forumcostituzionale.it, che evidenzia «Comprendendo in senso lato tale rapporto tra individuo e società, considerandolo anche come componente essenziale degli equilibri ecologici, cui appartiene insieme agli altri esseri viventi (Caravita di Toritto 1996, pp. 352-353), tali profili di responsabilità assumono dunque un significato ulteriore, in chiave di tutela ambientale, la cui assunzione è imposta in capo ad ogni individuo nei confronti della collettività, in una prospettiva di solidarietà ambientale condivisa (Colella 2020, p. 117; Fracchia 2017, p. 186)».
28 Su come possa cambiare la qualità della vita al variare delle condizioni ambientali e su come le trasformazioni ambientali influenzino la qualità della vita, L. Steg, A.E. Van Den Berg, J.I.M. De Groot, Manuale di psicologia ambientale e dei comportamenti ecologici, Edizioni FS, 2013, pag. 153 ss..
29 Per il rapporto tra turismo e sostenibilità, tra agenda 2030 e PNRR, si veda Turismo e sviluppo sostenibile, pagina monografica di SNA Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2021 in https://sna.gov.it/fileadmin/files/2020_DIBECS/Pagine/Pagina_Monografica_Giugno_Turismo_e_SSsostenibile.pdf;
30 Per la modifica dell’art. 41, già da tempo si evidenziavano altri limiti oltre quelli formalmente espressi. Così B. Caravita di Toritto, in Diritto Pubblico dell’ambiente, Il Mulino, 1992, pag. 18, «[…] a prescindere dai possibili significati di utilità, fine, funzione sociale, non v’è dubbio che tra tali limiti ai fini sociali rientrino quelli con finalità ambientali e paesaggistiche, pur se è ancora mancato il necessario approfondimento dottrinario e giurisprudenziale circa lo spessore di tali limiti in relazione a queste nuove finalità».
31 Già dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 210/1987 infatti, ricollegandosi ai precetti di cui agli artt. 9 e 32 Cost., osservava che «va riconosciuto lo sforzo in atto di dare un riconoscimento specifico alla salvaguardia dell’ambiente come diritto della persona e interesse fondamentale della collettività e di creare istituti giuridici per la loro protezione. Si tende, cioè, ad una concezione unitaria del bene ambientale, comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali».
32 Sul punto, vedasi La mia idea di Capitalismo umanistico e Umana sostenibilità, Discorso di Brunello Cucinelli ai grandi della Terra in occasione del G20 del 2021, https://www.corriere.it/moda/21_novembre_08/brunello-cucinelli-discorso-g20-potenti-terra-prima-tutto-viene-dignita-persone-a9d83d6e-4071-11ec-87fb-b565e6aab98c.shtml
33 Questo è il presupposto della “Ecologia integrale”. Così papa Francesco in Laudato si’, Lettera Enciclica sulla cura della casa comune, par. 139, «Quando parliamo di “ambiente” facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra la natura e la società che la abita. Questo ci impedisce di considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati. […] È fondamentale cercare soluzioni integrali, che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura».
34 Un territorio ricco di potenzialità, tutte in attesa di riconoscimento. Si consideri, ad esempio, l’urgenza di istituire un’Area marina protetta del Golfo di Taranto per la salvaguardia dei delfini e capodogli ormai stanziali nel Golfo ed esposti alle minacce derivanti dalle attività umane. Ciò è stato evidenziato nello studio pubblicato sulla rivista «Journal of Environmental Management», edita da Elsevier il cui quartier generale è ad Amsterdam, ed è frutto della collaborazione del Dipartimento di Biologia dell’Università di Bari con il Polo Scientifico Tecnologico Magna Grecia di Taranto, il Cnr e il Jonian Dolphin Conservation. Così, in https://www.uniba.it/ateneo/rettorato/ufficio-stampa/comunicati-stampa/2021/area-marina-protetta-taranto-delfini.
35 Il diritto di essere riconosciuti è un tema cruciale ed è collegato all’istanza di partecipazione. Cfr. Giuseppe De Marzo, in Ecologia integrale, Castelvecchi, 2021, pag. 41 ss..
36 Sul riconoscimento delle capacità (non solo umane), Martha C. Nussbaum, Creare capacità, Il Mulino, 2012, pagg. 150 – 157;
37 “O uomo, guarda l’uomo: egli contiene in sé il cielo e le altre creature; ha una sola forma ma in lui è celata ogni cosa”. Così Ildegarda di Bingen. Dottore della Chiesa Universale, in Liber Divinorum operum, scritto fra il 1161 e il 1173. Su un paradigma di pensiero “sistemico” in cui l’ambiente naturale diventa punto di partenza e di arrivo di un percorso di crescita personale (e sociale), vedasi M. Danon, Ecopsicologia, Come sviluppare una nuova consapevolezza ecologia, 2020, Aboca.
38 Così, Corte Costituzionale sentenza n. 179 del 2019), in https://www.giurcost.org/decisioni/2019/0119s-19.html?titolo=Sentenza%20n.%20119
39 Così, P. Maddalena, Il diritto dell’ambiente, Una riflessione giuridica sulla difesa ecologica del pianeta, La scuola di Pitagora editrice, 2012, di cui si riporta la seguente riflessione “ricostruttiva”: «Un punto logico di partenza, quando si discute di ambiente, è senza dubbio la constatazione che esiste una perfetta corrispondenza tra l’uomo e le cose del mondo […] e, se l’uomo è parte della natura, non si può che il valore dell’uomo si estende alla natura, con la conseguenza che occorre far riferimento non più ad un principio antropocentrico, ma al principio biocentrico o, meglio, al principio ecocentrico: ciò che ha valore è la “comunità biotica”, un concetto che “allarga i confini della comunità (umana), per includervi, suoli, acque, piante ed animali e, in una parola, la “Terra”. Parlare di ecocentrismo, d’altro canto, non significa sottovalutare il valore dell’uomo. Ciò che va sottolineato è che la comunità umana, che ha un suo imprescindibile e specifico valore deve essere considerata nell’ambito più ampio della comunità biologica della quale è parte»
40 Molto interessante è anche la prospettiva della costruzione di un costituzionalismo sovranazionale di L. Ferrajoli che ha redatto una bozza di Costituzione della Terra, composta da 100 articoli. «La terra è un pianeta vivente. Essa appartiene, come casa comune, a tutti gli esseri viventi: agli esseri umani, agli animali e alle piante. Appartiene anche alle generazioni future, alle quali la nostra generazione ha il dovere di garantire, con la continuazione della storia, che esse vengano al mondo e possano sopravvivere. L’umanità fa parte della natura. La vita e la salute del genere umano dipendono dalla vitalità e dalla salute del mondo naturale e degli altri esseri viventi, animali e vegetali, che insieme agli esseri umani formano una famiglia accomunata da una stessa origine e da una globale interdipendenza». Così l’art. 1 (La Terra, casa comune degli esseri viventi) del Titolo I (Principi supremi). Il testo integrale della bozza è reperibile al link http://labibliotecadialessandria.costituenteterra.it/prima-bozza-di-lavoro-per-una-costituzione-dellaterra/). Sul punto, si veda inoltre L. Ferrajol., Perché una Costituzione della terra? , 2021, Giappichelli.
41 Sulle Green Communities, il significativo contributo di F. Tufarelli, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli Affari regionali e le Autonomie, coordinatore dell’Ufficio per le politiche urbane e della montagna, la modernizzazione Istituzionale e l’attività internazionale delle autonomie regionali e locali, in
42 Cfr., http://www.affariregionali.gov.it/media/170252/collinapo-e-politecnico-di-torino.pdf, in cui, significativamente, si legge «C’è la necessità di un riscatto, di una presa di coscienza di quanto sta accadendo per avviare azioni di forte ripensamento per ricostruire noi stessi, dall’interno, e per cominciare a ridefinire il paradigma culturale da mettere in atto».
43Cfr.https://news-town.it/economia/39483-pnrr-sirente-velino-tra-i-3-progetti-pilota-delle-%E2%80%98green-communities%E2%80%99.html
45 Così Tufarelli, ult cit., «A questo punto la politica delle Green Community non si dovrà limitare a coinvolgere solo, come inizialmente previsto, le ex comunità montane e i relativi enti locali, bensì si dovrà allargare fino a comprendere figure diverse, ivi comprese le autonomie funzionali, le università, i centri di ricerca ed anche soggetti privati, che potranno essere coinvolti attraverso diverse formule, dirette alla progettazione e alla sponsorizzazione, nella valorizzazione dei beni e nell’ottimizzazione delle risorse naturali, sempre ovviamente, nel rispetto dei vincoli ambientali. E’ questo un auspicabile e concreto sviluppo di quella Green Economy, troppo spesso evocata, ma mai compiutamente declinata e finanziata, a causa di una persistente e scellerata inversione di valori nella scala delle priorità. Su tali obiettivi e sulla capacità di perseguirli in maniera condivisa si misurerà la virtù del legislatore europeo e nazionale nella fase successiva della pandemia».
46 Il principio “Leave no one behind” è la promessa centrale e trasformativa dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile. Il cuore dell’Agenda 2030 è costituito, infatti, da 3 P, Persona, Pianeta e Prosperità, e dalla relazione che intercorre tra questi 3 elementi
L’AFFIDAMENTO IN HOUSE ED IL SERVIZIO DI GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI Federica Spartera INDICE 1. Premessa 2. I requisiti per l’affidamento diretto in house dei servizi 2.1. La normativa europea 2.2. L’istituto dell’in […]
Diritto Ambientale Diritto Amministrativo Dottrina Enti Locali e P.A. Fascicoli Fascicolo n.2/2022
L’AFFIDAMENTO IN HOUSE
ED IL SERVIZIO DI GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI
Federica Spartera
INDICE
1. Premessa
2. I requisiti per l’affidamento diretto in house dei servizi
2.1. La normativa europea
2.2. L’istituto dell’in house providing nel panorama normativo italiano
2.3 La c.d. “motivazione rafforzata” ex art 192 comma 2 del Codice degli appalti
3. In house providing e servizi di gestione integrata dei rifiuti
4. Conclusioni
PREMESSA
Nel quadro dell’evoluzione legislativa comunitaria e nazionale, l’istituto giuridico dell’in house providing ha costituito un polo di interesse, anche dal punto di vista del dibattito giurisprudenziale.
Si tratta di una forma di gestione di pubblici servizi nata nella giurisprudenza comunitaria con la sentenza Teckal al fine di individuare i casi in cui una pubblica amministrazione affida un servizio pubblico nei confronti di una società equiparabile, dal punto di vista sostanziale, a una propria articolazione (in house, infatti).
L’in house providing, dunque, è un affidamento effettuato in deroga alla normativa comunitaria in materia di contratti pubblici poiché non viene esperita alcuna gara pubblica per lo stesso. Infatti, secondo la Corte di Giustizia non deve applicarsi la normativa comunitaria qualora manchi una vera e propria relazione contrattuale fra due soggetti; in particolare, i giudici affermano che la procedura ad evidenza pubblica non deve essere svolta «nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti che la controllano».
*****
I requisiti per l’affidamento diretto in house dei servizi
I requisiti fondamentali dell’in house providing sono i seguenti:
controllo analogo;
attività prevalente;
partecipazione pubblica totalitaria.
Il “controllo analogo” viene definito all’art. 2, comma 1, lett. c) del Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica come quella situazione in cui l’amministrazione esercita «un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata».
Il controllo analogo si inserisce all’interno del potere di direzione e vigilanza appartenente all’ente pubblico e si manifesta tramite strumenti di diritto societario e di diritto pubblico: i primi, in particolare, garantiscono la tipologia e l’intensità del controllo richiesti per giustificare, appunto, l’esenzione dall’obbligo di gara pubblica. Essi si configurano nei patti parasociali e nelle clausole statutarie.
I patti parasociali, disciplinati, nel codice civile, agli artt. 2341-bis e 2341-ter, rappresentano accordi tra soci che permettono all’amministrazione di nominare i propri rappresentanti all’interno degli organi di gestione e controllo delle società e, di conseguenza, esercitare, con poteri speciali, la propria influenza nell’assemblea. I patti parasociali non sono opponibili erga omnes. Tale limitazione, pertanto, può essere superata con apposite clausole statutarie che, al contrario, potendosi opporre erga omnes, garantiscono ai soci una rilevante e piena ingerenza nella gestione della società stessa mediante poteri di direzione e controllo. È rilevante affermare che attraverso i patti parasociali si vuole raggiungere la stabilità del governo della società.
Ai sensi dell’art. 2341-bis del codice civile vengono indicati quali patti parasociali i sindacati di voto, di blocco e di concertazione.
I primi consistono in accordi regolanti l’esercizio di voto nell’assemblea pertanto, con essi, i soci si impegnano a votare ciò che è stato pattuito dalla maggioranza o dalla totalità di coloro che vi hanno aderito.
Tramite i sindacati di blocco, invece, le parti si obbligano a non cedere le proprie azioni o a farlo in presenza di determinate condizioni. La finalità di questa tipologia di accordi è la stabilizzazione degli assetti proprietari al fine di lasciare inalterato il complesso della società e scongiurare l’ipotesi di nuovi soci.
I patti di concertazione, infine, vincolano i soci a consultarsi tra di loro prima del voto in assemblea.
In aggiunta ai patti parasociali, sono state menzionate, altresì, le clausole statutarie.
Si tratta di accordi che, introdotti nello statuto di una data società, riservano ai soci una specifica ingerenza nella gestione della stessa società mediante poteri di direzione e di controllo.
Anche il diritto pubblico, oltre quello societario, offre strumenti che permettano di attuare il controllo analogo. Essi vengono individuati nel contratto di servizio e nel controllo strategico.
Il primo, definito ai sensi dell’art. 14, comma 1, del Regolamento n. 1893/1991, come un «contratto concluso tra le autorità competenti di uno Stato membro ed un’impresa di trasporto allo scopo di fornire alla collettività servizi di trasporto sufficiente», nell’ordinamento italiano si impone, nella sfera dei servizi pubblici locali, come strumento dell’ente locale per esercitare il controllo nell’ambito delle modalità di erogazione del servizio.
Nel campo delle società in house il contratto di servizio è utile per garantire un controllo costante sull’attività tramite un sistema di controlli interni: il controllo di gestione e il controllo strategico sulle società partecipate dall’ente locale.
Il primo consiste nel «verificare l’efficacia, l’efficienza ed economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati»; il controllo strategico, invece, presuppone la presenza di una struttura con il compito di «valutare l’adeguatezza elle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti».
Il controllo di gestione si articola, almeno, in tre fasi: predisposizione di un piano dettagliato di obiettivi; rilevazione di dati relativi a costi, proventi e risultati raggiunti; valutazione dei precedenti dati. L’ultima fase, ai sensi dell’art. 198 del D.L.gs. n. 267 del 2000, consiste nel fornire ««le conclusioni del predetto controllo agli amministratori ai fini della verifica dello stato di attuazione degli obiettivi programmati ed ai responsabili dei servizi affinché questi ultimi abbiano gli elementi necessari per valutare l’andamento della gestione dei servizi di cui sono responsabili».
Dunque, il controllo di gestione viene esteso anche agli erogatori di servizi pubblici quali le società in house. In tal caso, il contratto di servizio deve includere l’obbligo, a carico dell’affidatario, di garantire un controllo completo allo scopo di consentire all’amministrazione di verificare la gestione del servizio con riguardo agli obiettivi prestabiliti.
Il controllo di gestione è inteso come supporto alla dirigenza al fine di migliorare la performance gestionale, il controllo strategico, invece, supporta le funzioni di indirizzo politico.
*****
Il requisito dell’“attività prevalente” è stato definito dagli stessi giudici comunitari, che ne specificano i contorni affermando che «le condizioni in presenza delle quali, secondo la menzionata sentenza Teckal, la direttiva 93/36 è inapplicabile agli appalti conclusi tra un ente locale e un soggetto giuridicamente distinto da quest’ultimo, vale a dire che, al contempo l’ente locale eserciti sul soggetto in questione un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che il soggetto di cui trattasi svolga la parte più importante della sua attività con l’ente o gli enti locali che lo detengono, hanno, in particolare, lo scopo di evitare che sia falsato il gioco della concorrenza».
Secondo la Corte di Giustizia, si parla di affidamento in house quando le prestazioni di una determinata impresa siano primariamente destinate all’ente locale che controlla la stessa impresa e le altre attività risultino residuali.
L’art. 5, comma 1, lett. b), del Codice dei contratti pubblici, recependo le novità definite dalle direttive 2014/23/UE e 2014/24/UE, stabilisce che l’attività del soggetto affidatario in house è considerata prevalente qualora oltre l’80% delle attività dell’amministrazione controllata è esercitato nello svolgimento di compiti a esso affidati dalla stessa amministrazione o da altre persone giuridiche controllate dall’ente affidante.
La stessa disposizione prevede, altresì, che ai fini della determinazione della percentuale dell’attività prevalente occorre prendere in considerazione «il fatturato totale medio o una misura idonea alternativa fondata sull’attività, quale i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione».
In assenza dei dati appena riportati, sempre l’art. 5, al comma 8, considera sufficiente «dimostrare, segnatamente in base a proiezioni dell’attività, che la misura dell’attività è credibile».
Sulla base di quanto riportato fin ad ora, è chiaro che il requisito dell’attività prevalente, congiuntamente a quello del controllo analogo, avvalori l’appartenenza della società in house all’organizzazione dell’ente controllante.
*****
La partecipazione pubblica totalitaria.
Per lungo tempo è stato ritenuto che la presenza di capitale privato nel modello in house impedisse il soddisfacimento degli interessi pubblici che erano, invece, considerati la principale finalità dell’affidamento in house.
Ad esprimersi su tale questione è stata, inizialmente, la Corte di Giustizia nel 2008.
In tal sede, i giudici hanno osservato che «per quanto riguarda il secondo argomento esposto dalla Commissione, si deve rilevare che la possibilità per i privati di partecipare al capitale della società aggiudicataria, in considerazione in particolare della forma societaria di quest’ultima, non è sufficiente, in assenza di una loro effettiva partecipazione al momento della stipula di una convenzione come quella di cui trattasi nella presente causa, per concludere che la prima condizione, relativa al controllo dell’autorità pubblica, non sia soddisfatta. Infatti, per ragioni di certezza del diritto, l’eventuale obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di procedere ad una gara d’appalto dev’essere valutato, in via di principio, alla luce delle condizioni esistenti alla data dell’aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi».
Sempre sulla scorta di tale ragionamento si è espresso, altresì, il Consiglio di Stato nel 2018 il quale, dopo aver ribadito che «le società in house possono ricevere affidamenti diretti di contratti pubblici da amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto solo se non vi sia partecipazione di capitali privati», ha aggiunto «ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata».
Dunque, secondo i giudici amministrativi «il requisito della partecipazione pubblica totalitaria è divenuto autonomo rispetto a quello del controllo analogo e sono state consentite forme di partecipazione diretta di capitali privati ma a condizione che la partecipazione dei capitali privati sia prevista a livello legislativo, in conformità dei Trattati, e non consenta l’esercizio di un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata».
*****
La normativa europea vigente
L’in house providing (letteralmente: gestione in proprio) è un istituto di matrice giurisprudenziale europea che, per sua natura, è sintesi di precetti tutelati in pari modo dall’ordinamento europeo, conciliando il principio del confronto concorrenziale con quello della autoorganizzazione amministrativa. Tale istituto, successivamente, è stato recepito anche all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale italiano.
Tale strumento a carattere eccezionale -da un lato utilizzabile nelle sole ipotesi di fallimento del mercato (market failure) e dall’altro quale ordinaria modalità di affidamento nelle gare pubbliche (del tutto alternativa rispetto alla esternalizzazione) – ha destato non poche perplessità e dibattiti giurisprudenziali, sia a livello interno che Europeo.
L’affidamento in house è stato elaborato dalla giurisprudenza comunitaria a partire dalla pronuncia resa sul caso Teckal nel 1999, in cui la Corte di Giustizia dell’UE stabilì, per la prima volta, i requisiti necessari affinché si potesse procedere all’affidamento diretto di un pubblico servizio ad un soggetto privato (CdG CE, 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal s.r.l. c. Comune di Viano).
Nella pronuncia de qua, la Corte affermò come, ai fini dell’esclusione dell’applicazione delle disposizioni in materia di gara ad evidenza pubblica, fosse necessario che la società in house presentasse due requisiti fondamentali, identificati nel c.d. “controllo analogo” e nel c.d. “vincolo di prevalenza”.
Il primo requisito (ossia del controllo analogo) si configura allorquando l’ente conferente eserciti nei confronti di quello conferitario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.
Viene in essere, così, un rapporto tra l’Amministrazione pubblica e la società in house tale da assimilare quest’ultima ad un organo interno all’Amministrazione; quanto al secondo requisito (ossia quello del vincolo di prevalenza) fa riferimento all’attività svolta dall’ente affidatario in favore dell’ente pubblico che deve sostanziarsi nella parte più rilevante della medesima.
La presenza di ambedue i presupposti, da intendersi in senso cumulativo e non alternativo, rende la società un organismo in house, cioè una struttura non distinta dall’ente affidatario, una specie di longa manus, legittimando l’esclusione della disciplina dettata in materia di appalti pubblici, in virtù dell’influenza dominante esercitata dall’Amministrazione sull’organismo controllato.
La giurisprudenza successiva alla sentenza Teckal, sia europea che nazionale, ha interpretato i requisiti enunciati nel 1999 con particolare rigore, mostrando un sostanziale scetticismo nei confronti dell’istituto in esame.
La ratio sottesa all’ostilità della giurisprudenza è da rivenirsi nella deroga che tale istituto genera rispetto all’ordinario regime previsto in materia di appalti pubblici, traducendosi in una figura distorsiva della concorrenza in materia di affidamenti pubblici, dovendosi pertanto riconoscere la natura eccezionale dell’istituto.
Così, la giurisprudenza “post Teckal”, offre una lettura più rigida dei requisiti elaborati nel 1999.
Quanto al primo requisito, ossia quello del “controllo analogo”, la giurisprudenza successiva lo interpreta in termini di totale partecipazione pubblica del capitale della società controllata.
Pertanto, la semplice presenza di un socio privato escludeva in re ipsa che l’Amministrazione aggiudicatrice potesse esercitare un controllo analogo a quello svolto nei confronti dei propri servizi (in tal senso, CdG Ue, 11 gennaio 2005, causa C-26/03 – Stadt Halle; ex multis, Cons. Stato, Ad. Plenaria, 3 marzo 2008, n. 1).
Quanto al requisito del “vincolo di prevalenza”, la giurisprudenza lo ha interpretato in termini di esclusività e, cioè, l’ente affidatario deve svolgere la propria attività non già prevalentemente in favore dell’Amministrazione aggiudicatrice bensì nel suo interesse esclusivo.
Con le nuove direttive europee in materia di appalti e concessioni (nn. 23, 24 e 25 del 2014) l’istituto dell’in house providing ha ricevuto una prima codificazione normativa con il nuovo pacchetto di direttive europee sugli appalti e le concessioni del 2014.
Le direttive europee, sebbene non utilizzino l’espressione «in house», regolano tale istituto con riguardo alle concessioni tra enti nell’ambito del settore pubblico di cui all’art. 17 della direttiva concessioni 2014/23/UE , agli appalti pubblici tra enti nell’ambito del settore pubblico di cui all’art. 12 della direttiva appalti 2014/24/UE e agli appalti tra amministrazioni aggiudicatrici di cui all’art. 28 della direttiva settori speciali 2014/25/UE, con disposizioni pressoché di analogo tenore.
In tali articoli i principi precedentemente affermati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di in house sono stati in gran parte recepiti con alcune precisazioni e novità.
Con riferimento ai presupposti per il ricorso all’in house, il legislatore comunitario del 2014 sembrerebbe riconoscere autonomia organizzativa agli Stati membri.
Nel considerando 5 della direttiva 2014/24/UE afferma infatti che «nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva».
In particolare, il legislatore europeo, dopo aver ribadito la libertà degli Stati membri in ordine alla scelta tra l’autoproduzione di beni e servizi e l’esternalizzazione degli stessi, prevede l’applicazione delle nuove direttive solo nei casi in cui le amministrazioni decidano di rivolgersi al mercato e individua negli articoli sopra richiamati gli ambiti esclusi dall’applicazione delle stesse.
La prima novità rispetto alle regole fissate dalla giurisprudenza europea riguarda il requisito della partecipazione pubblica totalitaria: sono esclusi, infatti, gli obblighi di evidenza pubblica disciplinati dalle nuove direttive europee non solo in caso di affidamenti a soggetti interamente partecipati dal soggetto pubblico committente ma anche in caso di affidamenti a soggetti che presentano partecipazioni di capitali privati, purché siano osservate le condizioni prescritte dal legislatore europeo (ossia, che tali partecipazioni private non comportino controllo o potere di veto, che siano prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati e che non determino un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata).
La seconda novità riguarda il requisito della prevalenza dell’attività svolta dalla società in house: è stato fissato, infatti, nell’80% il valore quantitativo dell’attività da svolgere in favore del soggetto controllante.
*****
L’istituto dell’in house providing nel panorama normativo italiano.
Sul piano normativo nazionale, il Testo Unico sulle società a partecipazione pubblica ha definito il controllo analogo, all’art. 2, comma 1, lett. c), come quella situazione in cui l’amministrazione esercita un’influenza determinante sia sugli obiettivi che sulle decisioni significative della società controllante. L’influenza è determinante allorché l’oggetto del controllo non potrebbe essere definito se l’amministrazione controllante non fosse d’accordo. È opportuno dire che viene considerata determinante tanto l’influenza che conforma in positivo un’azione, quanto quella che si manifesta come potere di veto.
Inoltre, sempre l’art. 2, sopra citato, stabilisce che l’influenza determinante deve interessare gli obiettivi strategici e le decisioni significative della società soggetta a controllo: i primi consistono in linee guida che l’organo amministrativo della stessa società dovrebbe perseguire per realizzare l’oggetto sociale di essa; le decisioni significative, invece, concernono materia di rilevanza fondamentale per la società.
Dunque, dopo aver specificato le nozioni di influenza pubblica dominante e controllo analogo, è necessario indicare in base a cosa si differenziano e perché non è possibile sovrapporre le due tipologie di controllo pubblico.
Ed invero, il controllo analogo sembra essere più pregnante e intenso rispetto all’influenza pubblica dominante poiché, il primo, facendo assumere all’amministrazione affidataria la natura di longa manus di quella controllante, si spinge ben oltre quanto richiesto, sotto il profilo del controllo, ai fini della configurazione della natura di organismo di diritto pubblico.
A ulteriore riprova di ciò è utile aggiungere che il controllo analogo si manifesta tramite il controllo sull’attività e il controllo strutturale: il primo si configura quando l’ente aggiudicatore è titolare del potere di indirizzo e direttiva e ha, altresì, facoltà di annullare o autorizzare gli atti più rilevanti della società; il controllo strutturale, riconosce all’amministrazione affidante il potere di nomina e di revoca della maggioranza dei componenti dell’organo di gestione, di amministrazione e di controllo e, quindi, risulta essere di gran lunga più intenso rispetto a quello chiesto per l’organismo di diritto pubblico.
L’iter legislativo ha portato all’emanazione del Decreto Legislativo n. 50, cosiddetto “Codice dei contratti pubblici”, in data 18 aprile 2016 in cui, per la prima volta, una fonte normativa del settore degli appalti pubblici ha regolamentato l’istituto dell’in house providing e, successivamente, del Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica, alias D.lgs. 19 agosto 2016, n. 175.
L’introduzione di specifiche disposizioni sull’in house in seno al d.lgs. n. 50/2016 (artt. 5 e 192) non costituisce, peraltro, una scelta autonoma del legislatore italiano, ma rappresenta il dictat della normativa comunitaria di settore, ovvero delle direttive nn. 23, 24 e 25 del 2014, che hanno introdotto una disciplina positiva dell’istituto, recependo, in gran parte, gli orientamenti espressi in materia dalla Corte di giustizia UE che, con molteplici pronunce, aveva delineato in maniera piuttosto dettagliata la natura giuridica e il perimetro di applicazione dell’in house.
Procedendo ad analizzare il testo normativo, è possibile trovare all’articolo 5 i “Principi comuni in materia di esclusione per concessioni, appalti pubblici e accordi tra enti e amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito del settore pubblico”.
In sostanza, l’articolo riporta diligentemente i requisiti dell’istituto, così come specificati nelle Direttive 2014.
È infatti previsto che, un affidamento diretto sia considerato legittimo solo nel caso in cui l’ente pubblico eserciti un controllo analogo – cioè un’influenza determinante sia sugli “obiettivi strategici” sia sulle “decisioni importanti” – tale da rendere il soggetto affidatario una articolazione interna dell’ente stesso; simultaneamente, il soggetto affidatario deve svolgere nei confronti dell’ente affidante (o, in caso di in house pluripartecipato, degli enti affidanti) la parte prevalente della propria attività definita nell’80%.
Per di più, in linea con quanto previsto dal legislatore comunitario, è ammessa la possibile partecipazione di capitali privati – in forza di una puntuale legge e nel rispetto dei Trattati – nel soggetto affidatario, solo se questa rappresenti una minima parte del capitale sociale e, in ogni caso, sia tale da non comportare un’influenza determinante sul soggetto controllato.
All’interno della “Parte IV – Partenariato pubblico privato e contraente generale” del decreto legislativo, troviamo le nuove disposizioni nazionali sull’istituto, al “Titolo II – In house”, articolo 192.
L’articolo 192 “Regime speciale degli affidamenti in house” introduce la creazione, a cura dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, dell’“elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house di cui all’articolo 5”.
Lo scopo di questo elenco presso l’ANAC è quello di “garantire adeguati livelli di pubblicità e trasparenza nei contratti pubblici”; il Consiglio di Stato – nel parere 1 aprile 2016, n.855 – ha puntualizzato come la suddetta registrazione abbia una “natura dichiarativa” e, non costituisca un elemento legittimante per la procedura di affidamento. Per essere iscritti nell’elenco, è necessario presentare un’apposita domanda, e quest’ultima legittima fin da subito l’amministrazione aggiudicatrice a praticare affidamenti diretti sotto la propria responsabilità; l’ANAC, accertata l’esistenza dei requisiti provvede all’iscrizione.
L’aspetto innovativo è stato introdotto al comma 2.
Il legislatore ha stabilito che “ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto un servizio disponibile sul mercato in regime di concorrenza”, le amministrazioni aggiudicatrici devono preventivamente valutare gli affidamenti stessi, esprimere adeguate motivazioni in merito alla loro convenienza economica, ai benefici da essi apportati alla collettività – “anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche” – e alle ragioni che hanno portato al mancato ricorso del mercato.
La nuova disciplina, all’art. 192, comma 2, quindi, ha previsto uno stringente onere motivazionale, non contemplato dall’ordinamento comunitario, per l’affidamento in house dei servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, che ha comportato, per tali servizi, un sensibile restringimento del campo di applicazione dell’istituto.
La disciplina dell’in house introdotta dall’art. 192 del d.lgs. n. 50/2016 è diretta a restringere il campo di applicazione dell’istituto in favore del ricorso al mercato, sul presupposto della neutralità dell’ordinamento comunitario in relazione alla legislazione adottata dagli Stati membri in materia di modalità di prestazione dei servizi da parte delle autorità pubbliche.
Tuttavia, a seguito della codificazione del principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche da parte delle direttive comunitarie del 2014 in materia di appalti pubblici e concessioni, la giurisprudenza, ritenendo mutato il quadro giuridico di riferimento, ha sollevato dubbi circa la compatibilità con l’ordinamento comunitario di una norma interna che, limitando la possibilità per le pubbliche amministrazioni di ricorrere all’affidamento in house, ne limiterebbe, di fatto, l’autonomia organizzativa.
Tali dubbi hanno trovato espressione nell’ordinanza del Consiglio di Stato, sez. V, 7 gennaio 2019, n.138, con cui il giudice amministrativo ha chiesto alla Corte di giustizia UE di pronunciarsi, in via pregiudiziale, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, sulla compatibilità con le disposizioni e i princìpi del diritto primario e derivato dell’Unione europea delle previsioni dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016.
La questione si basa sostanzialmente sull’assunto che dal principio comunitario di libera amministrazione delle autorità pubbliche (codificato dal considerando 5 della direttiva 2014/24/UE e dall’art. 2 della direttiva 2014/23/UE) discenderebbe la necessità per gli Stati membri di adottare una disciplina dell’affidamento in house che riconosca alle pubbliche amministrazioni la libertà di scelta tra ricorso all’istituto e affidamento a terzi tramite gara, con la conseguente incompatibilità con l’ordinamento comunitario di una legislazione nazionale che imponga, ai fini dell’affidamento in house, condizioni ulteriori rispetto ai requisiti del controllo analogo, dell’attività prevalente e della partecipazione pubblica totalitaria, così come attualmente disciplinati dall’art. 12 della direttiva 2014/24/UE, dall’art. 17 della direttiva 2014/23/UE e dall’art. 28 della direttiva 2014/25/UE.
I dubbi di legittimità sollevati dal supremo consesso di giustizia amministrativa sono stati ritenuti privi di fondamento dalla Corte di giustizia dell’Unione europea che, con l’ordinanza Rieco del 6 febbraio 2020, ha affermato la compatibilità delle previsioni dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 con la disciplina comunitaria dell’affidamento in house e, segnatamente, con l’art. 12, par. 3, della direttiva 2014/24/UE applicabile alla fattispecie esaminata Consiglio di Stato che stabilisce le condizioni per procedere all’affidamento di appalti pubblici nel caso di controllo analogo congiunto da parte di più amministrazioni pubbliche.
Tale norma, osserva la Corte di giustizia, non osta ad una disciplina nazionale che subordini la conclusione di un’operazione in house «all’impossibilità di procedere all’aggiudicazione di un appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna».
Qualora un’amministrazione decidesse di erogare direttamente un servizio pubblico, la stessa adopererà l’in house providing: nella circostanza appena prospettata, poiché l’amministrazione affidante è, sostanzialmente, la medesima di quella che effettivamente svolgerà il servizio, essa non dovrà rispettare le regole di concorrenza.
Al di fuori di questo caso, quando un ente sceglie di ricorrere al mercato deve rispettare la parità imposta dall’ordinamento comunitario.
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La c.d. “motivazione rafforzata” ex art 192 comma 2 del Codice degli appalti
Allo stato attuale, quindi, deve ritenersi perfettamente acquisita ed operante, anche nella sfera domestica, l’idea secondo cui l’in house providing costituisca una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza economica.
Malgrado la persistenza di indirizzi in senso contrario, tale inversione di tendenza interpretativa pare aver trovato nuovo “vigore”, forte anche delle modifiche normative sopraggiunte per effetto del secondo decreto semplificazioni (D.L: nr. 77/2021, convertito con modificazioni dalla Legge nr. 108/2021).
Il Decreto, inspirandosi all’esigenza di “accelerare l’attuazione degli investimenti pubblici, in particolare di quelli previsti dal PNRR e dai cicli di programmazione nazionale e dell’Unione europea 2014-2020 e 2021-2027” nel solco della c.d. legislazione Covid-19, all’art.10 introduce una disposizione ad hoc valevole ad ampliare l’area di ricorribilità all’in house providing, legittimando le amministrazioni interessate ad avvalersi del “supporto tecnico operativo di società in house qualificate ai sensi dell’art. 38 del decreto legislativo del 18 aprile 2016 nr. 50”.
Inquadrato il contesto normativo di riferimento, l’art. 192 configura, come è dato evincere dal suo tenore testuale e secondo l’interpretazione che ne ha fatto la giurisprudenza amministrativa, una duplice condizione cui è subordinata la legittimità del ricorso al modello di gestione in house dei servizi pubblici: (a) la dimostrazione del cd. “fallimento del mercato”, ovvero della incapacità del mercato di offrire il servizio de quo alle medesime condizioni, qualitative, economiche e di accessibilità, garantite dal gestore oggetto del “controllo analogo”; (b) la sussistenza di specifici “benefici per la collettività” derivanti dall’affidamento diretto del servizio in house.
L’art. 192, comma 2, del Codice degli appalti pubblici (d. lgs. n. 50 del 2016) impone, come già anticipato, che l’affidamento in house di servizi disponibili sul mercato sia assoggettato a una duplice condizione, che non è richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi servizi.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito, quanto alla condizione per cui si discute (cfr. Cons. St., sez. V, sent. n. 1564 del 3 marzo 2020) che il primo presupposto per procedere mediante l’in house consiste nell’obbligo di motivare le ragioni che hanno comportato l’esclusione del ricorso al mercato.
Tale condizione muove dal ritenuto carattere secondario e residuale dell’affidamento in house, che appare poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di dimostrato “fallimento del mercato”, rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a “gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”, cui la società in house invece supplirebbe.
La previsione dell’ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti in house muove da un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regìme di delegazione interorganica, relegandoli ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra imprese.
La stessa giurisprudenza ha, inoltre, precisato che, “trattandosi di valutazione unitaria e complessa, in quanto finalizzata a sintetizzare entro un quadro unificante (rappresentato dai vantaggi insiti nell’affidamento in house rispetto a quelli derivanti dal meccanismo concorrenziale) dati molteplici e variegati (secondo lo spettro valoriale dinanzi richiamato), il sindacato del giudice amministrativo non potrà che svolgersi secondo le coordinate tipiche del potere discrezionale, rifuggendo quindi da una analisi di tipo atomistico e parcellizzato della decisione amministrativa portata alla sua cognizione, ma orientandolo verso una valutazione di complessiva logicità e ragionevolezza del provvedimento impugnato”.
Ne consegue che, l’obbligo motivazionale che si impone all’Ente refluisce, sul piano istruttorio, nella attribuzione alla stessa Amministrazione della scelta, anch’essa tipicamente discrezionale, in ordine alle modalità più appropriate a percepire, in relazione alla concreta situazione di fatto, i dati necessari al fine di compiere, in maniera oggettiva, la predetta valutazione di “preferenza”.
L’istruttoria – i cui esiti ricadono sulla individuazione del modello di affidamento più opportuno da adottare – non può arrestarsi all’analisi della sola convenienza economica.
All’opposto, tra le ragioni giustificative del mancato ricorso al mercato devono annoverarsi altresì elementi di socialità, dovendo la stazione appaltante rendere conto dei maggiori benefici per la collettività della forma gestoria prescelta, operando un raffronto comparativo rispetto agli obiettivi che, diversamente, sarebbero stati perseguibili mediante l’outsourcing.
Pertanto, le valutazioni da esprimere (benefici per la collettività e fallimento del mercato) possono essere accorpate in un’unica motivazione che esponga in modo “ragionevole e plausibile le ragioni che, nel caso concreto, hanno condotto l’amministrazione a scegliere il modello in house rispetto alla esternalizzazione” (v. Consiglio di Stato, sent. Nr. 2101/2021).
Naturalmente, la congruità dell’attività istruttoria posta in essere dall’Amministrazione deve essere valutata caso per caso; ciò implica, e così si entra nel vivo della questione controversa, che non potrebbe escludersi la legittima possibilità per l’amministrazione di procedere secondo modalità che non si traducono nell’effettuazione di specifiche indagini di mercato e/o di tipo comparativo.
E invero, la peculiarità del caso concreto, l’esperienza di mercato vissuta in precedenza, l’elaborazione di specifici dati ben possono indurre alla ragionevole valutazione che l’affidamento mediante gara non garantisca (non, quantomeno, nella stessa misura di quello diretto) il raggiungimento degli obiettivi prefissati, traducendosi in plausibili, dimostrabili e motivate ragioni idonee a giustificare la scelta dell’affidamento in house.
Sul versante della congruità economica dell’offerta promanante dall’organismo in house, quest’ultima impone all’ente affidante di chiarire all’interno della motivazione quantitativo-economica le concrete modalità di svolgimento del servizio, raffrontandole con le risultanze di esperienze pregresse in termini di efficienza ed efficacia.
La disponibilità di tali informazioni – acquisite dalla stazione appaltante mediante opportune ricerche di mercato- congiuntamente alla conoscenza di altri elementi tra i quali le caratteristiche dell’affidamento e la natura del servizio da erogare; il grado di incertezza e di variabilità del contesto economico e ambientale, utili alla PA per rendere conto dei vantaggi che l’opzione interorganica sarebbe in grado di offrire nel caso concreto in termini di risparmio di tempo e di risorse economiche rispetto al ricorso al mercato.
Orbene, il test di vantaggiosità della scelta a favore dell’affidamento in house, perché quest’ultimo possa dirsi “economicamente congruo” rispetto alle alternative forme gestionali abbisogna di una minima comparazione idonea a paragonare le performances dell’in house provider con quelle dell’impresa media del settore, gestita in modo efficiente. Utili benchmark sarebbero rintracciabili mediante richiamo ai costi standard definiti dalle Autorità di settore, ai prezzi di riferimento elaborati dall’ANAC ovvero ancora agli elenchi di prezzi definiti mediante prezzari ufficiali, ai prezzi medi di aggiudicazione risultanti da gare per affidamenti identici o analoghi. Resta inteso, ad ogni buon conto, che il soggetto affidatario, pur se trattasi di azienda in house, deve garantire dei minimi quanti-qualitativi (inderogabili).
La scelta strategica dell’affidamento in house, inoltre, necessita di venir “setacciata” anche sotto il profilo della c.d. “convenienza sociale”.
In termini pratici, il Legislatore, come desumibile dal citato art. 192.2, ha espresso la volontà di accludere alla motivazione resa dalla stazione appaltante, una parte che rechi evidenza dei benefici per la collettività conseguibili mediante il ricorso all’operazione interna.
Tali benefici sono scrutinati non soltanto premiando le esigenze di economicità ma, prosegue la norma, prendendo anche a riferimento «gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza…e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche».
Premesso che ad ogni modo trattasi di un’analisi in concreto, tale da richiedere uno studio caso per caso, sulla base dei dati comparabili, come suggerito dall’Anac nello schema di linee guida, tra i benefici valutabili ricadrebbero i c.d. effetti di rete, suscettibili di determinare vantaggi crescenti in ragione dell’aumento del numero di utenti del servizio o dell’utilizzo di sistemi omogenei e interconnessi. Sempre ai fini della valutazione circa l’efficienza e la qualità della prestazione offerta rilevano la mostrata adattabilità del servizio alle esigenze del territorio come pure l’impiego di attività innovative in grado di favorire, tra le altre cose, la partecipazione del cittadino, attraverso l’accesso alle informazioni e la presentazione di reclami e/o osservazioni.
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In house providing e servizi di gestione integrata dei rifiuti
Scendendo nel dettaglio dei settori regolati, l’affidamento in house di un servizio pubblico locale come la gestione dei rifiuti comporta, per l’ente affidante, una serie di adempimenti e di motivazioni “rafforzate” che richiedono valutazioni spesso articolate e complesse il cui risultato converge nel provvedimento motivazionale previsto dall’art. 34, comma 20, del Decreto legge 179/2012, ma dipende da adempimenti dettati da un articolato sistema di regole (Codice appalti, Testo unico in materia di partecipate pubbliche, art. 3-bis del D.L. 138/2011, Linee guida ANAC).
Con la sentenza del 23/2/2021 n. 1596, infatti, il Consiglio di Stato dichiara la legittimità della scelta di un Comune di affidare in house la gestione del servizio di igiene urbana, sulla base della relazione ex art. 34, c. 20 dl n.179/2012, che evidenzia i punti di forza e di debolezza dei vari modelli attraverso punteggi numerici.
Il Consiglio di Stato evidenzia che, in coerenza con l’onere di istruttoria e motivazione rafforzati imposto alle amministrazioni dai sopra richiamati artt. 34, comma 20, d.l. n. 179 del 2012, e 192, comma 2, del Codice dei contratti pubblici – a sua volta conformi al diritto dell’Unione Europea, come accertato dalla Corte di giustizia nella parimenti richiamata ordinanza del 6 febbraio 2020, C-89/19 e 91/19 (Rieco spa) – l’opzione del Comune per l’in house providing è sorretta da un’adeguata esposizione delle sottostanti ragioni.
Infatti, sottolineano i giudici amministrativi, la relazione approvata dal consiglio Comunale prevede un’analisi comparativa dei punti di forza e debolezza dei tre modelli gestionali (in house, mercato e mista) rispetto agli obiettivi dell’amministrazione nello svolgimento del servizio di igiene urbana.
Nell’ambito di questa analisi la relazione sottolinea i vantaggi della scelta del modello in house, analoga analisi viene svolta per il modello del ricorso al mercato, del quale sono individuati quali punti di forza: la professionalità e l’esperienza nel settore; l’assunzione di responsabilità per l’esecuzione del servizio in via esclusiva in capo all’operatore privato; la competizione sul prezzo in sede di gara; una maggiore capacità di investimenti, cui però si contrappone l’assenza delle sinergie tipiche dell’in house providing derivanti dall’alterità soggettiva dell’appaltatore rispetto all’amministrazione; e i rischi di contenzioso tra le due parti.
Il Consiglio di Stato sancisce quindi che, attraverso le succitate modalità descritte, la relazione enuncia le «ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta», come richiesto dall’art. 192, comma 2, del Codice dei contratti pubblici.
Orbene, in questo contesto, l’evidenziazione dei vantaggi economico-qualitativi della prestazione, da esplicitare nel corpo della relazione di cui all’art. 34, passa attraverso una serie di fattori inerenti alle condizioni di erogazione del servizio.
Ad esempio, elemento di indubbio favore per la scelta di internalizzare il servizio è la circostanza che il costo medio per abitante sia in linea con quello praticato in altre realtà territoriali da servizi comunali
Sempre a questo proposito, in un recente caso pratico, il Consiglio di Stato sez. IV – con sentenza nr. 3969 del 22 ottobre 2021- ha ritenuto assolto l’onere motivazionale imposto al Comune per l’affidamento in house del servizio di gestione ambientale ex art. 192, co. 2, avendo quest’ultimo svolto un’approfondita disamina comparativa.
Nel caso di specie, il Collegio ha ritenuto che la congruità della relazione fosse resa palese dal riferimento a dati positivamente valutabili nei termini in cui suscettivi di produrre benefici tanto in ragione della convenienza economica dell’operazione quanto in termini di vantaggi per la collettività, concernendo «l’ attivazione di nuove forme di raccolta puntuale dei rifiuti o nuovi servizi di igiene ambientale senza la necessità di una nuova procedura concorsuale, la possibilità di attivare tutti i servizi complementari al servizio principale che la società offre gratuitamente o con costi predefiniti; l’eliminazione dei costi, diretti ed indiretti » o ancora la previsione di elementi innovativi, quali « attività di consulenza tecnica; servizi informatici; organizzazione di eventi formativi; attività di studio e progettazione della tariffa puntuale; attività di ricerca di mercato per la cessione dei rifiuti recuperabili».
Ciò tanto più in quanto, il Comune affidante, si è avvalso di standards che il giudice amministrativo ha valutato attendibili, per via «dei riferimenti operati e della comparazione effettuata con altri Enti con caratteristiche di omogeneità territoriale e geografica».
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Conclusioni
Al netto di ogni valutazione sull’opportunità l’affidamento in house di un servizio pubblico locale come la gestione dei rifiuti, giova ricordare che nella seduta del Consiglio dell’8 settembre 2021, Anac ha approvato la proposta di Nuove Linee guida in fatto di affidamenti in-house per le società pubbliche.
Prima di ricorrere ad assegnazioni di appalti e concessioni in-house, le stazioni appaltanti dovranno, quindi, fornire e rendere pubbliche con precise motivazioni di convenienza economica e sociale le ragioni che portano a scegliere l’in-house, invece della gara.
In tal modo mettendo in grado anche cittadini e operatori economici esclusi dall’in-house di verificare e controllare se tali motivazioni esistano veramente, o sono soltanto uno strumento fittizio da parte di amministrazioni pubbliche e società controllate per evitare la gara.
L’Anac ,infatti, fornisce indicazioni precise su come debba essere effettuata tale dichiarazione.
Soprattutto ribadisce il principio che senza una motivazione adeguata l’affidamento di appalti e concessioni in-house è da considerarsi illegittimo.
L’utilizzo ampio ed eccessivo, finanche indiscriminato, dell’in-house, che porta gli enti locali ad assegnare in affidamento diretto fino al 93% delle assegnazioni, lasciando alle gare per i servizi una quota irrisoria pari a soltanto il 5% del totale, ha spinto Anac a intervenire con forza.
Infatti, l’abuso dell’in-house significa carenza di trasparenza, eccesso di discrezionalità, applicazione del processo senza gara a situazioni opache. Spesso poi le società affidatarie risultano prive di requisiti soggettivi e oggettivi previsti dalla normativa.
E soprattutto non presentano chiare ragioni di convenienza economica per tale affidamento, mostrando più una volontà di evitare la gara e privilegiare l’assegnazione diretta. Tutto questo senza alcuna preventiva verifica comparativa che spieghi in quale posizione stiano gli affidamenti decisi rispetto al benchmark di settore.
Nell’ambito della gestione dei rifiuti, per esempio, gli affidamenti in-house sono quasi il 70% del totale: settanta affidamenti su 105 nel quadriennio 2016-2020.
Diviene, pertanto, auspicabile un intervento normativo di più ampio respiro, che integri le esigenze della collettività, con le necessità delle pubbliche amministrazioni e con le legittime aspettative degli operatori commerciali, tutti chiamati ad interagire in un mercato con regole certe ed uguali per tutti.
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Dottrina Enti Locali e P.A. Giurisprudenza NotizieLa Guerra Finnico – Russa 12/1939 – 3/1940 Una lezione ancora attuale. Sergio Benedetto Sabetta In questa rideterminazione delle aree di influenza che la guerra in Ucraina contribuisce a delineare, nell’evidenziare una crisi di sistema […]
NotizieLa Guerra Finnico – Russa
12/1939 – 3/1940
Una lezione ancora attuale.
Sergio Benedetto Sabetta
In questa rideterminazione delle aree di influenza che la guerra in Ucraina contribuisce a delineare, nell’evidenziare una crisi di sistema iniziata nel 2001 ed esplosa nel secondo decennio del nuovo millennio, gli USA si appoggiano sulla resistenza dell’Ucraina per logorare i Russi senza scendere direttamente in campo, non potendo sostenere i costi umani di fronte ad una opinione interna divisa, che non vuole impegnarsi su un teatro lontano e non sentito come essenziale.
I costi economici vengono sostanzialmente scaricati sull’U.E., per altro divisa al suo interno tra coloro ad Est coinvolti in prima persona e gli Stati ad Ovest, in primis Francia e Germania, più sensibili alle relazioni economiche e ai suoi riflessi sociali, ottenendo comunque gli USA una ricompattazione della NATO negli ultimi tempi piuttosto sfilacciata, anche per una serie di errori e ritirate da settori fuori area.
Tutto questo sotto lo sguardo interessato e le autonome manovre della Cina ma anche dell’India, della Turchia e di altre potenze regionali.
La Russia appare a sua volta impantanata, ripiegata su obiettivi minori, tanto che si parla di sconfiggerla, ma questo oltre che dubbio non sembra essere il vero obiettivo degli USA e degli Anglosassoni, oltre che dispendioso e logorante sarebbe anche controproducente creando un pericolosissimo vuoto di potere, con una instabilità dagli scenari imprevedibili, si dovrà quindi, prima o poi, trattare.
Interessante al riguardo l’insegnamento della guerra Finnico-Russa del 1939/1940, dove la guerra si concluse con l’accettazione di alcune condizioni, ma da una posizione di forza a seguito di una serie di vittorie tattiche.
La guerra si sviluppò dai primi del dicembre 1939 a metà marzo 1940 e costò ai Russi uomini e materiali, tuttavia ai primi di marzo il Maresciallo Gustav Mannerheim chiese al governo finnico di accettare le condizioni russe intavolando le trattative.
Anche allora il 30.11.1939, quando i negoziati sembravano ancora possibili, la Russia bombardò Helsinki iniziando le ostilità, così come avvenuto il 24 febbraio 2022 a Kiev.
Alla massa di circa mezzo milione di uomini i finnici non potevano che opporre 9 divisioni di 15 mila uomini ciascuna, con in più una netta superiorità russa in artiglieria e carri d’assalto.
Nonostante questa sproporzione, conoscendo il terreno e con una alta flessibilità, una serie di imboscate bloccò le colonne russe, le quali non riuscirono a dispiegarsi per mancato coordinamento, non conoscenza del territorio e una massa di neve e boschi tale da impedire la manovrabilità.
A differenza della situazione nell’Ucraina attuale, gli aiuti di Francia e Inghilterra furono contenuti nonostante le promesse, si era già in guerra con la Germania nazista ed emergevano tutte le mancanze tecniche e teoriche da parte degli alleati.
Tuttavia i finnici, guidati abilmente dal Maresciallo Mannerheim, inflissero notevoli sconfitte ai Russi ma la sproporzione alla lunga pesava.
La lotta durò dal dicembre 1939 alla metà del marzo 1940 quando, a seguito di trattative di pace, il 13 marzo alle ore 11 i combattimenti cessarono.
L’abilità del Maresciallo Mannerheim fu di vincere sul piano tattico ma nel momento del massimo successo di intavolare le trattative per ottenere una pace con perdite territoriali minime, evitando in tal modo tra l’altro la devastazione del Paese, forse utile a qualcuno ma certamente non per i finnici, una lezione di uno stretto e intelligente rapporto tra politica, diplomazia e guerra.
LIBERALIZZAZIONE DEL MERCATO ELETTRICO: criteri per qualificare come abusiva una posizione dominante in materia di pratiche escludenti, sulla base degli effetti anticoncorrenziali del comportamento di un operatore storico. La causa si inserisce nel […]
Europea Giurisprudenza NotizieLIBERALIZZAZIONE DEL MERCATO ELETTRICO:
criteri per qualificare come abusiva una posizione dominante in materia di pratiche escludenti, sulla base degli effetti anticoncorrenziali del comportamento di un operatore storico.
La causa si inserisce nel contesto della progressiva liberalizzazione del mercato della vendita di energia elettrica in Italia.
Sebbene, dal 1° luglio 2007, tutti gli utenti della rete elettrica italiana, comprese le famiglie e le piccole e medie imprese (PMI), possano scegliere il loro fornitore, in un primo momento, è stata effettuata una distinzione tra clienti ammessi a scegliere un fornitore su un mercato libero e clienti del mercato tutelato, composti dai clienti domestici e dalle piccole imprese, i quali continuavano essere soggetti a un regime regolato, ossia il «servizio di maggior tutela», che comportava, in particolare, speciali tutele in materia di prezzi. Solo in un secondo momento questi ultimi sono stati ammessi al mercato libero.
Ai fini di tale liberalizzazione del mercato, l’ENEL, un’impresa fino ad allora verticalmente integrata, monopolista della produzione di energia elettrica in Italia e operante nella distribuzione di quest’ultima, è stata sottoposta a una procedura di separazione delle attività di distribuzione e di vendita, nonché dei marchi (unbundling). Al termine di tale procedura, le varie fasi del processo di distribuzione sono state attribuite a società figlie distinte. Così, alla E-Distribuzione è stato affidato il servizio di distribuzione, la Enel Energia è stata incaricata della fornitura di elettricità nel mercato libero e al Servizio Elettrico Nazionale (SEN) è stata attribuita la gestione del servizio di maggior tutela.
Al termine di un’istruttoria condotta dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), nella sua qualità di autorità nazionale garante della concorrenza, la medesima ha adottato, il 20
dicembre 2018, una decisione con la quale ha constatato che il SEN e la Enel Energia, con il coordinamento della loro società madre ENEL, avevano posto in essere, dal gennaio 2012 e fino al maggio 2017, un abuso di posizione dominante, in violazione dell’articolo 102 TFUE, e, di conseguenza, ha inflitto loro, in solido, una sanzione pecuniaria pari a oltre 93 milioni di euro. La condotta contestata è consistita nell’attuazione di una strategia escludente volta a trasferire la clientela del SEN, in quanto gestore storico del mercato tutelato, alla Enel Energia, la quale opera sul mercato libero, al fine di scongiurare il rischio di un passaggio in massa dei clienti del SEN verso nuovi fornitori al momento della successiva apertura del mercato in questione alla concorrenza. A tale scopo, secondo la decisione dell’AGCM, i clienti del mercato tutelato sarebbero stati in particolare invitati dal SEN a prestare il loro consenso a ricevere offerte commerciali relative al mercato libero, con modalità discriminatorie per le offerte dei concorrenti del gruppo ENEL.
L’importo della sanzione pecuniaria è stato ridotto alla somma di EUR 27,5 milioni circa in esecuzione delle decisioni giurisdizionali pronunciate in primo grado nell’ambito di ricorsi presentati dall’ENEL e dalle sue due società figlie contro la decisione dell’AGCM. Adito in appello da queste stesse società, il Consiglio di Stato (Italia) ha sottoposto alla Corte questioni pregiudiziali www.curia.europa.eu relative all’interpretazione e all’applicazione dell’articolo 102 TFUE in materia di pratiche escludenti.
Con la sua sentenza, la Corte fornisce precisazioni sulle condizioni in cui il comportamento di un’impresa può essere considerato, sulla base dei suoi effetti anticoncorrenziali, costitutivo di un abuso di posizione dominante, qualora un simile comportamento si basi sullo sfruttamento di risorse o di mezzi propri di una tale posizione nel contesto della liberalizzazione di un mercato. In tale occasione, la Corte delimita i criteri di valutazione rilevanti e la portata dell’onere della prova gravante sull’autorità nazionale garante della concorrenza che ha adottato una decisione sulla base dell’articolo 102 TFUE.
Rispondendo alle questioni relative all’interesse tutelato dall’articolo 102 TFUE, la Corte precisa, in primo luogo, gli elementi idonei a caratterizzare lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante.
A tal fine, essa osserva, da un lato, che il benessere dei consumatori, sia intermedi sia finali, deve essere considerato l’obiettivo ultimo che giustifica l’intervento del diritto della concorrenza per reprimere lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale del medesimo. Tuttavia, un’autorità garante della concorrenza assolve l’onere della prova a suo carico se dimostra che una pratica di un’impresa in posizione dominante è idonea a pregiudicare, ricorrendo a risorse o a mezzi diversi da quelli su cui si impernia una concorrenza normale, una struttura di effettiva concorrenza, senza che sia necessario che la medesima dimostri che detta pratica ha, in aggiunta, la capacità di arrecare un danno diretto ai consumatori. L’impresa dominante in questione può nondimeno sottrarsi al divieto di cui all’articolo 102 TFUE dimostrando che l’effetto escludente che può derivare dalla pratica di cui trattasi è controbilanciato, se non superato, da effetti positivi per i consumatori.
Dall’altro lato, la Corte ricorda che il carattere abusivo di un comportamento di un’impresa in posizione dominante può essere constatato solo a condizione di aver dimostrato la sua capacità di restringere la concorrenza e, nel caso di specie, di produrre gli effetti escludenti addebitati. Tale qualificazione non impone invece di dimostrare che il risultato atteso di un simile comportamento diretto a escludere i propri concorrenti dal mercato in questione sia stato raggiunto. Ciò premesso, la prova addotta da un’impresa in posizione dominante dell’assenza di effetti escludenti concreti non può essere considerata sufficiente, di per sé, a escludere l’applicazione dell’articolo 102 TFUE. Tale elemento può tuttavia costituire un indizio dell’incapacità del comportamento in questione di produrre gli effetti escludenti dedotti, purché sia corroborato da altri elementi di prova volti a dimostrare tale incapacità.
In secondo luogo, quanto ai dubbi del giudice del rinvio relativamente alla questione se occorra tener conto di un eventuale intento dell’impresa di cui trattasi, la Corte ricorda che l’esistenza di una pratica escludente abusiva da parte di un’impresa in posizione dominante dev’essere valutata sulla base della capacità di tale pratica di produrre effetti anticoncorrenziali. Ne consegue che un’autorità garante della concorrenza non è tenuta a dimostrare l’intento dell’impresa in questione di escludere i propri concorrenti ricorrendo a mezzi o risorse diversi da quelli su cui si impernia una concorrenza basata sui meriti. La Corte precisa tuttavia che la prova di un simile intento costituisce nondimeno una circostanza di fatto che può essere presa in considerazione ai fini della determinazione di un abuso di posizione dominante.
In terzo luogo, la Corte fornisce gli elementi di interpretazione richiesti dal giudice del rinvio per l’applicazione dell’articolo 102 TFUE al fine di distinguere, tra le pratiche attuate da un’impresa in posizione dominante che si basano sullo sfruttamento lecito al di fuori del diritto della concorrenza di risorse o mezzi propri di una tale posizione, quelle che potrebbero sottrarsi al divieto posto da tale articolo, in quanto sarebbero proprie di una concorrenza normale, e quelle che, al contrario, dovrebbero essere considerate «abusive» ai sensi di tale disposizione. A tale riguardo, la Corte ricorda, anzitutto, che il carattere abusivo di tali pratiche presuppone che esse abbiano avuto la capacità di produrre gli effetti escludenti descritti nella decisione impugnata. Le imprese in posizione dominante, indipendentemente dalle cause di una tale posizione, possono senz’altro difendersi dai loro concorrenti, ma devono farlo ricorrendo ai soli mezzi propri di una concorrenza «normale», vale a dire basata sui meriti. Orbene, una pratica che non può essere adottata da un ipotetico concorrente altrettanto efficiente sul mercato in questione, in quanto essa si basa sullo sfruttamento di risorse o mezzi propri di una posizione dominante, non può essere considerata propria di una concorrenza basata sui meriti. Ciò posto, quando perde il monopolio legale che prima deteneva su un mercato, un’impresa deve astenersi, durante tutta la fase di liberalizzazione di tale mercato, dal ricorrere ai mezzi di cui disponeva in forza del suo precedente monopolio e che, a tal titolo, non sono disponibili ai suoi concorrenti, al fine di conservare, con modalità che esulano dai suoi stessi meriti, una posizione dominante sul mercato in questione recentemente liberalizzato.
Ciò detto, una simile pratica può nondimeno sottrarsi al divieto di cui all’articolo 102 TFUE se l’impresa in posizione dominante in questione dimostra che essa era obiettivamente giustificata da circostanze esterne all’impresa e proporzionata a tale giustificazione oppure controbilanciata, se non superata, da vantaggi in termini di efficienza che vanno a beneficio anche dei consumatori.
In quarto luogo, invitata dal giudice nazionale a precisare le condizioni che consentono di imputare la responsabilità del comportamento di una società figlia alla società madre, la Corte dichiara che, quando una posizione dominante è sfruttata in modo abusivo da una o più società figlie appartenenti a un’unità economica, l’esistenza di tale unità è sufficiente per ritenere che la società madre sia anch’essa responsabile di tale abuso. L’esistenza di una simile unità deve essere presunta qualora, all’epoca dei fatti, almeno la quasi totalità del capitale di tali società figlie fosse detenuta, direttamente o indirettamente, dalla società madre. A fronte di simili circostanze, l’autorità garante della concorrenza non è tenuta a fornire alcuna prova aggiuntiva, a meno che la società madre non dimostri che, nonostante la detenzione di una tale percentuale del capitale sociale, essa non aveva il potere di definire i comportamenti delle società figlie, le quali agivano autonomamente.
IL MECCANISMO ELETTORALE. Matteo Boscolo Anzoletti La disciplina del meccanismo elettorale. L’Italia è cresciuta lungo lunghe lotte tra fazioni, come quelle tra guelfi e ghibellini, testimoniate con dovizia di particolari da Dante Alighieri1. E soltanto […]
Diritto Amministrativo Dottrina Enti Locali e P.A. Fascicoli Fascicolo n.2/2022
IL MECCANISMO ELETTORALE.
Matteo Boscolo Anzoletti
La disciplina del meccanismo elettorale.
L’Italia è cresciuta lungo lunghe lotte tra fazioni, come quelle tra guelfi e ghibellini, testimoniate con dovizia di particolari da Dante Alighieri1. E soltanto nel tempo essa è giunta a un sistema politico basato sulla democrazia, uno dei cui punti fondamentali è il meccanismo elettorale.
L’esercizio del diritto di voto, che ha come suoi requisiti la cittadinanza e la maggiore età, rappresenta uno dei punti cardine nella vita democratica di un popolo. Infatti, il diritto di voto rappresenta una delle modalità per mezzo delle quali si concretizza la democrazia2 nella polis: per questo motivo il diritto di voto è un diritto politico. Le sue caratteristiche si configurano nell’articolo 48 della Costituzione3.
La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge4.
Di primaria importanza è considerare il fatto che nell’esercizio del diritto di voto vi è un esplicito riferimento al suffragio universale, cui la legislazione italiana è giunta con il decreto legge luogotenenziale n. 23 dell’1 febbraio 1945, a seguito di un iter che si è dipanato a decorrere dalla legge piemontese n. 680 del 17 marzo 18485.
Il diritto di voto è intimamente connesso alla legge elettorale che lo disciplina, la quale rappresenta il posterius che ha come prius il meccanismo elettorale6.
Entrando nel merito della questione, la nascita della scheda elettorale vera e propria è riconducibile alla Lex Gabinia del 139 a. C. con cui si istituisce il voto per iscritto, attraverso l’uso di una tavoletta, detta tabella. Altre furono le cosiddette Leges tabellariae: si ricordano la Lex Cassia del 137 a. C. e la Lex Papiria del 131 a. C. Oltre all’innovazione del voto per iscritto, si introduceva anche la particolarità (straordinaria per l’epoca) del voto segreto.
Le matite copiative sono state usate in tutte le votazioni italiane a partire dal referendum tra monarchia e repubblica del 1946; il loro uso era stato introdotto con DLL n. 1 del 7 gennaio 1946. L’uso della matita copiativa durante le votazioni è stato in seguito confermato con il Testo unico n. 26 del 5 febbraio 1948 e con il successivo Testo unico n. 361 del 1957, anche se disposizioni in merito all’uso della matita copiativa non sono state modificate dal dopoguerra a oggi. Negli anni ’80 del XX secolo il Consiglio di Stato affermò la validità del voto espresso anche con matita umettata7.
Attualmente il diritto di voto è esercitato per mezzo della tessera elettorale personale, prevista dall’art. 13 della legge 30 aprile 1999 n. 120, e istituita con D.P.R. n. 299 dell’8 settembre 2000, sostituisce integralmente il vecchio certificato elettorale, è il documento che permette l’esercizio del diritto di voto, e che attesta la regolare iscrizione del cittadino nelle liste elettorali del Comune di residenza.
Derivando dall’articolo 45 del Progetto di Costituzione, l’articolo 48 della Costituzione esordisce affermando che sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore eta`, e continua con l’affermazione secondo la quale il voto e` personale ed eguale, libero e segreto, che costituiscono garanzie del voto8.
Personalità del voto significa:
Il voto deve essere esercitato dalla persona dell’elettore senza possibilità di delegare il proprio voto, né tantomeno di trasferirlo a nessuno per qualsiasi motivo.
Non è ammessa, pertanto, nessuna forma di voto per procura9 (eccezioni sono ammesse per motivi di salute previsti dalla legge10).
Peraltro la costanza di determinate condizioni fisiche consente di farsi accompagnare dentro la cabina elettorale senza per questo violare la personalità del voto, in quanto l’accompagnatore è un aiutante dell’elettore, non un suo sostituto11. Come si vedrà, ciò è penalmente rilevante. Ciò in quanto l’elettore ha ponderato autonomamente la propria intenzione di voto, mentre l’accompagnatore compie un mero gesto materiale e non formativo del voto.
Il voto deve essere attribuito alla persona del candidato che l’elettore ha votato12.
In secondo luogo, l’eguaglianza del voto si manifesta nel senso che ogni voto ha lo stesso valore di tutti gli altri13. Non sono ammessi il voto plurimo o multiplo14, ma il voto deve essere unico e irripetibile15. Con le importanti considerazioni mosse dalla Consulta relativamente a questo requisito del voto16.
Il voto deve, in terzo luogo, essere libero e, affinchè ciò accada, è necessario che la volontà dell’elettore non sia coartata; in secondo luogo, l’elettore stesso può impegnarsi a votare in un certo modo17. Allo scopo la legislazione è stata ordinata allo scopo di garantire la libertà del voto con norme molto minuziose, anche sulla propaganda elettorale.
Come ultimo requisito, ma non certo in ordine di importanza, la segretezza del voto consiste nel fatto che l’elettore ha diritto di isolarsi al momento di votare per poter mantenere il segreto sul suo voto, allo scopo di evitare l’intimidazione, il commercio o, comunque, la corruzione del voto; prima e dopo il momento materiale del voto egli è invece del tutto libero di dichiarare pubblicamente per chi voterà o ha votato18.
Il voto elettronico.
Da tempo sono allo studio nuove forme di espressione del voto19. Infatti, già negli anni ’80 la Commissione Affari costituzionali di Montecitorio aveva avviato un esame dei nuovi sistemi di voto elettronico. Furono convocati i rappresentanti delle industrie (Sweda, Enidata, Olivetti e Italsiel) ma alla fine nessuna decisione venne presa. Rimase così la vecchia, familiare, semplice scheda di carta.
Per superare questo problema, il 9 luglio 2021 è stato emanato un decreto interministeriale in base al quale “sono approvate le Linee guida per la sperimentazione di modalità di espressione del voto in via digitale per le elezioni politiche ed europee e per i referendum previsti dagli articoli 75 e 138 della Costituzione limitata a modelli che garantiscano il concreto esercizio del diritto di voto degli italiani all’estero e degli elettori che, per motivi di lavoro, studio o cure mediche, si trovino in un comune di una regione diversa da quella del comune nelle cui liste elettorali risultano iscritti20”, che garantisca il voto come previsto dalla Costituzione e dalla legislazione in materia21, in modo che sia garantita la segretezza sia del voto, sia delle operazioni ad esso propedeutiche, impedendo, al contempo, la perdita o l’alterazione dei suffragi22. Ciò potrà avvenire dopo una fase di sperimentazione.
Dovere civico.
Se l’esercizio del diritto di voto come dovere civico fosse soltanto un dato formale, per garantirne l’adempimento sarebbero sufficienti le sanzioni previste dalle leggi elettorali per l’elezioni della Camera23 e del Senato24 del 1948 le quali, salvo alcune eccezioni puntualmente indicate, prevedevano che l’elettore che ingiustificatamente non avesse votato fosse iscritto in una lista esposta per 30 giorni all’Albo comunale a cura del sindaco, mentre nel certificato di buona condotta dell’elettore sarebbe stata riportata per cinque anni la menzione “non ha votato”. Queste sanzioni sono state abrogate per effetto dell’articolo 11 della L. 277/1993. Nessuna sanzione fu mai prevista, invece, in occasione delle elezioni comunali, provinciali e regionali.
In realtà, l’esercizio del diritto di voto e il suo adempimento come dovere civico è un dato sostanziale che discende dal fatto di essere cittadino, e ciò perché l’esercizio del diritto di voto è un evento di popolo. In un tempo caratterizzato dal particolare, cui già al suo tempo faceva riferimento lo storico Francesco Guicciardini25, la Costituzione afferma che l’esercizio del voto e` dovere civico, e ciò non una mera esortazione di carattere metagiuridico. Per chi è cittadino votare è un compito molto importante in quanto per suo mezzo egli contribuisce alla costruzione della polis nella quale vive, ed è anche per questo che il diritto di voto è un diritto politico.
Tuttavia tale diritto non si esercita in modo mero e puntuale recandosi alle urne nel giorno designato, ma si sviluppa in modo lineare attraverso la partecipazione politica dei cittadini, che l’articolo 3, comma 2, della Costituzione26 considera un elemento di eguaglianza sostanziale, diritto inviolabile dell’uomo per l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica27. Che, concretamente, nella storia repubblicana si è sviluppato all’interno dei corpi intermedi con particolare efficacia, anche in un’Italia spesso lacerata da forti divisioni. Ciò risulta di particolare rilevanza a fronte di un forte astensionismo del tempo presente, un tempo a livelli quasi inesistenti proprio perché il popolo lo superava e lo preveniva attraverso una costante partecipazione.
A maggior ragione oggi. Infatti, affinchè sia adempiuto l’esercizio doveroso del diritto di voto, è necessaria e indispensabile una diuturna partecipazione dei cittadini.
1 D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, Firenze 1988.
2 C. MORTATI, Commento all’articolo 1 della Costituzione, in Commentario della Costituzione, Bologna 1978, p. 5-9.
3 La competenza ad approvare le leggi è dello Stato, ex articolo 117, comma 2, lettera f) della Costituzione.
4 In base al D.P.R. 223/1967 sono esclusi dall’elettorato: a) i condannati a pena che importa l’interdizione perpetua dei pubblici uffici; b) coloro i quali sono stati sottoposti all’interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata della sua durata; c) coloro i quali sono sottoposti a misure di sicurezza detentive o alla libertà vigilata o al divieto di soggiorno in uno o più Comuni o in uno o più Province, ex articolo 215 c.p., finchè durano gli effetti dei provvedimenti stessi, e ciò in forza di provvedimenti definitivi. Le sentenze penali producono la perdita del diritto di voto soltanto quando sono passate in giudicato.
5 Che rimase in vigore sino al 1882.
6 Su questo tema, in particolare, G. PASQUINO, Nuovo corso di scienza politica, Bologna 2009.
7 Consiglio di Stato, sentenza n. 660 del 26 ottobre 1987.
8 Corte costituzionale, sentenza n. 96/1968.
9 Articolo 55 D.P.R. 361/1957.
10 Corte costituzionale, sentenza n. 48/2021.
11 T. MARTINES, Diritto costituzionale, Milano 2011, p. 153.
12 Corte costituzionale, Ordinanza n. 277/2018. Corte costituzionale, sentenza n. 239/2018.
13 G. U. RESCIGNO, Corso di diritto pubblico, Bologna 2012, p. 340.
14 G. ROLLA, Il sistema costituzionale italiano. L’organizzazione costituzionale dello Stato, Vol.1, Milano 2010, p. 173.
15 BETTINELLI, Diritto di voto, elettorali (sistemi), elezioni politiche, (voci del “Digesto – Discipline pubblicistiche”), Torino 1990, p. 226.
16 Corte costituzionale, sentenze n. 96/1968 e 39/1973, con nota di Bartole in Le Regioni, anno 1973, p. 961.
17 G. U. RESCIGNO, Corso di diritto pubblico, cit. p. 340.
18 G. U. RESCIGNO, Corso di diritto pubblico, cit. p. 340.
19 M. ROSINI, Il voto elettronico tra standard europei e principi costituzionali. Prime riflessioni sulla difficoltà di implementazione dell’e-voting nell’ordinamento costituzionale italiano, su AIC, N. 1/2021.
20 Articolo 1.
21 Articolo 4.
22 Articolo 5.
23 Articolo 90 T.U. 26/1948.
24 Articolo 25 L. 29/1948.
25 F. GUICCIARDINI, Storia d’Italia, Firenze 1561.
26 U. ROMAGNOLI, Commento all’articolo 3, comma 2, della Costituzione, in Commentario della Costituzione, Bologna 1978, p. 162-164.
27 Articolo 2 della Costituzione.
“Risarcimento danni da occupazione illegittima ed accessione invertita” I presupposti per l’adozione del provvedimento di inibitoria degli effetti della sentenza di primo grado FRANCESCO MELONE (Avvocato del Foro di Santa Maria Capua Vetere) […]
Civile Fascicoli Fascicolo n.2/2022 Giurisprudenza
“Risarcimento danni da occupazione illegittima ed accessione invertita”
I presupposti per l’adozione del provvedimento di inibitoria degli effetti della sentenza di primo grado
(Avvocato del Foro di Santa Maria Capua Vetere)
CORTE D’APPELLO DI NAPOLI, prima sezione civile – ordinanza 20 Aprile 2022 – Dott. Fulvio Dacomo (Presidente) Dott. Antonio Mungo (Consigliere Relatore) – Consorzio ASI di Caserta, Appellante (Avv. Palmiero) c. I.D.S.C. di Capua (Avv. F. Melone) e Comune di Pignataro Maggiore, Appellante Incidentale (Avv. Mercone).
Ai fini dell’adozione del provvedimento di inibitoria degli effetti della sentenza di primo grado, i presupposti del fumus boni juris (in termini di prognosi favorevole all’appellante dell’esito del giudizio di appello) e del periculum in mora (in termini di pericolo di un grave pregiudizio derivante al soccombente dall’esecuzione della sentenza) debbono sempre ricorrere cumulativamente e non alternativamente. I gravi motivi di cui all’art. 283 c.p.c. (periculum in mora) non possono essere rappresentati dalla sola esecuzione del provvedimento appellato, atteso che nel sistema delineato dagli artt. 282 e ss. c.p.c. detta esecuzione costituisce un effetto del tutto fisiologico della decisione in prime cure della controversia.
L’ordinanza in oggetto ha dettato importanti regole sull’inibitoria in appello, soprattutto in ordine al periculum in mora. In primo luogo, l’ordinanza ricorda come i presupposti per concedere la sospensiva della sentenza gravata siano il fumus boni iuris (ossia, la prognosi favorevole all’appellante dell’esito del giudizio di appello) e il periculum in mora (ossia il pericolo di un grave pregiudizio derivante al soccombente dall’esecuzione della sentenza impugnata).
A tal fine è utile precisare che in tema di istanza cautelare, il carattere meramente patrimoniale del danno lamentato comporta la carenza del fumus boni iuris. Dunque, la Corte condivide appieno l’orientamento pressoché maggioritario secondo cui tali requisiti debbano sussistere in via necessariamente cumulativa e, quindi, il periculum debba affiancare quello del fumus, in simbiosi con la locuzione “gravi e fondati motivi” dell’art. 283 c.p.c.; quindi, accanto ad una prognosi di fondatezza del gravame, si richiede, altresì, una valutazione di gravità delle conseguenze dell’esecuzione della sentenza.
Ove i gravi motivi (periculum in mora) di cui all’art. 283 c.p.c. non possono essere evidentemente rappresentati dalla sola esecuzione del provvedimento appellato, atteso che nel sistema delineato dagli artt. 282 e ss. c.p.c. detta esecuzione costituisce un effetto del tutto fisiologico della decisione in prime cure della controversia.
È interessante evidenziare che – come condiviso anche da altra pronuncia della IV° sezione della Corte di Appello di Roma, ordinanza del 21 gennaio 2021 – deve ritenersi escluso che il periculum possa sostanziarsi nella mera allegazione di “un pregiudizio gravissimo che deriverebbe dall’esecuzione della sentenza e, dunque, un pregiudizio che si esaurisce nella mera fisiologica produzione degli effetti propri dell’esecuzione”.
Ed infatti, atteso che nella struttura dell’art. 283 c.p.c. è insita una precisa scelta di campo del legislatore in tema di favor dell’immediata esecutività della sentenza di primo grado, è gioco forza ritenere come, per derogare alla regola generale, occorra l’allegazione e la prova di ulteriori e concrete conseguenze pregiudizievoli, idonee a integrare delle conseguenze patologiche e ingiustificate della decisione in prime cure della lite, rispetto alla semplice esecuzione del provvedimento appellato.
Corte d’Appello di Napoli
Ordinanza del 20 Aprile 2022
La Corte d’Appello di Napoli,
prima sezione civile, riunita in camera di consiglio
nella seguente composizione:
Dott. Fulvio Dacomo Presidente
Dott. Antonio Mungo Consigliere Relatore
Dott. Francesco Gesue’ Rizzi Ulmo Consigliere
ha pronunciato la seguente
O R D I N A N Z A
Nel procedimento contrassegnato con il n. 5132/2021 R.G., avente ad oggetto “Risarcimento danni da occupazione illegittima ed accessione invertita”, fissato per la trattazione scritta all’udienza collegiale del 20.4.2022,
La Corte,
Letto il provvedimento emesso in data 16.3.2022 con il quale è stato disposto che l’udienza del 20 aprile 2022 venisse celebrata nelle modalità previste dall’art. 221 comma 4 legge 77/2020, ovvero mediante il deposito in telematico di note scritte;
Viste le note depositate dalle parti e le richieste ivi contenute;
Vista l’istanza dell’appellante principale, cui si è associato l’appellante incidentale Comune di Pignataro Maggiore, di sospensione della provvisoria esecutività e/o esecuzione dell’impugnata sentenza n.3199/2021 pronunciata in data 30.09.2021 dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere, I Sez. Civile, resa nel giudizio iscritto al n. R.G. 2390/2007, con la quale il Giudice adito, accogliendo l’originaria domanda dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero di Capua, in persona del legale rappresentante p.t., volta ad ottenere il risarcimento del danno da occupazione usurpativa relativo al terreno di sua proprietà sito nel Comune di Pignataro Maggiore, identificato al catasto terreni al foglio 15, particella 5233, , ha così statuito: “1. ………….”;
Considerato, in linea di principio, che, come costantemente affermato da questa Corte, per l’adozione del provvedimento di inibitoria i presupposti del fumus boni juris (in termini di prognosi favorevole all’appellante dell’esito del giudizio di appello) e del periculum in mora (in termini di pericolo di un grave pregiudizio derivante al soccombente dall’esecuzione della sentenza) debbono sempre ricorrere cumulativamente e non alternativamente.
Non risulta infatti suscettibile di accoglimento la tesi secondo cui la ricorrenza di un evidente fumus boni juris potrebbe in buona sostanza far prescindere dalla valutazione circa la ricorrenza del periculum, atteso che l’esecuzione di una sentenza palesemente ingiusta costituirebbe di per sé un danno grave.
Tale tesi, pur fatta propria da parte della giurisprudenza di merito (Corte d’Appello Bari, ord. 7.7.2004), non risulta tuttavia condivisibile nella misura in cui implicitamente comporta la valorizzazione del solo profilo della gravità del danno derivante dall’esecuzione della sentenza e non anche la necessaria valorizzazione dell’ulteriore profilo dell’irreparabilità di tale danno, quando invece entrambi i suindicati profili debbono ricorrere onde superare il favor del legislatore per l’esecutività delle sentenze di primo grado (in tal senso, Cass., sent. n. 4060/2005; Corte d’Appello Milano, ord. 14.10.2008).
Se è vero, infatti, che è astrattamente ipotizzabile che integri un pregiudizio di per sé grave eseguire una sentenza il cui gravame presenta una prognosi di accoglimento assolutamente favorevole, è parimenti vero che ciò non comporta automaticamente che detto danno sia anche irreparabile (ossia insuscettibile di riparazione integrale in caso di successivo accoglimento del gravame).
E’ invece proprio tale irreparabilità, in uno alla serietà del pregiudizio ed alla prognosi favorevole circa l’esito dell’impugnazione, che può giustificare, in sede latamente cautelare e di delibazione meramente sommaria, una deroga al principio di generale esecutività delle sentenze di primo grado, anche tenuto conto, non ultimo, del fatto che trattasi di delibazione destinata a sfociare in un
provvedimento non impugnabile e che quindi è a maggior ragione opportuno procedere ad una ponderazione globale di tutti i contrapposti interessi.
Tale opzione ermeneutica ha peraltro trovato conferma con la riforma del 2005, atteso che il novellato art. 283 c.p.c., richiedendo tanto la gravità tanto la fondatezza dei motivi, comporta la necessità di procedere sia ad una prognosi di “fondatezza” del gravame sia ad una valutazione di “gravità” delle conseguenze dell’esecuzione della sentenza di prime cure.
Tenuto conto peraltro che, con specifico riferimento al requisito del periculum in mora, che i gravi motivi di cui all’art. 283 c.p.c. non possono essere evidentemente rappresentati dalla sola esecuzione del provvedimento appellato, atteso che nel sistema delineato dagli artt. 282 e ss. c.p.c. detta esecuzione costituisce un effetto del tutto fisiologico della decisione in prime cure della controversia. Deve quindi richiedersi, ai fini della concessione dell’inibitoria, l’allegazione e la prova di ulteriori conseguenze pregiudizievoli che possano derivare alla parte dall’esecuzione della sentenza gravata e che, come tali, integrino una conseguenza patologica ed ingiustificata della decisione in prime cure della lite (in tal senso, ex multis, Corte Appello Napoli, ord. 24.9.2015).
Considerato che, nella specie, l’appellante principale ha, di fatto, fondato la propria richiesta preliminare sulla sola asserita fondatezza dell’atto di impugnazione, desumibile a suo dire prima facie dai motivi di gravame e, quindi, sulla presumibile riforma della gravata decisione;
Rilevato, quanto al profilo del “periculum in mora”, che l’appellante ha dedotto che, a fronte della propria solvibilità, l’esistenza di tale presupposto andrebbe individuata, in caso di eventuale esecuzione forzata per un consistente importo per l’Ente appellante, nell’evidente difficoltà, nel caso di corresponsione in via esecutiva degli importi indicati nella sentenza oggetto di impugnazione, di recuperare gli stessi in caso di ritenuta fondatezza del gravame e riforma dell’impugnata decisione, e ciò alla luce della situazione patrimoniale degli appellati;
Tenuto conto che di tale affermazione l’appellante non fornisce alcuna dimostrazione, neanche allegando gli elementi in base ai quali questa Corte dovrebbe effettuare un simile giudizio prognostico e, quindi, eventualmente, attraverso il giudizio di comparazione dei contrapposti interessi, al quale fa riferimento, disporre la chiesta sospensione;
Rilevato che l’appellante incidentale Comune di Pignataro Maggiore, chiedendo anch’esso la sospensione dell’efficacia esecutiva della decisione impugnata, si è limitato a dedurre, in maniera totalmente generica, che “sussistono tutti i presupposti sia del “funus boni iuris”, sia del “periculum in mora”.
Ritenuta in conseguenze la infondatezza della menzionata istanza di sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza impugnata, posto che, pur volendo prescindere da ogni questione riguardante il fumus boni iuris, non è stato minimamente specificamente dedotto, né tantomeno dimostrato, da nessuno degli istanti il presupposto del “periculum in mora”;
Tenuto conto che, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 283 c.p.c., se l’istanza prevista dal comma che precede è inammissibile o manifestamente infondata, il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000 che, nella specie, tenuto conto nella natura e del valore della controversia, si ritiene di quantificare in € 1.000,00 (mille/00).
Considerato che la causa va rinviata per la precisazione delle conclusioni e la conseguente decisione nel merito della stessa;