LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giancarlo CORAGGIO;
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo'
ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano
PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN
GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 263, terzo
comma, del codice civile, come modificato dall'art. 28, comma 1, del
decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle
disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell'articolo
2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), promosso dal Tribunale
ordinario di Trento nel procedimento vertente tra B. Z., in proprio e
nella qualita' di esercente la potesta' genitoriale di M. Z., e R.
C., con ordinanza del 30 giugno 2020, iscritta al n. 156 del registro
ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 46, prima serie speciale, dell'anno 2020.
Udita nella camera di consiglio del 12 maggio 2021 la Giudice
relatrice Emanuela Navarretta;
deliberato nella camera di consiglio del 12 maggio 2021.
Ritenuto in fatto
1.- Nel corso di un giudizio di impugnazione del riconoscimento
del figlio per difetto di veridicita', il Tribunale ordinario di
Trento ha sollevato questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 263, terzo comma, del codice civile, come modificato
dall'art. 28, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n.
154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a
norma dell'articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), in
riferimento agli artt. 3, 76 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' (CEDU), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848.
Il comma terzo del citato art. 263 cod. civ. viene ritenuto
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente che,
per l'autore del riconoscimento, il termine per proporre l'azione di
impugnazione decorra dalla conoscenza della non paternita'.
Il giudice, pertanto, censura la norma che, per l'autore del
riconoscimento, fa decorrere il dies a quo, relativo al termine
annuale di decadenza, dalla mera scoperta dell'impotenza al tempo del
concepimento o, in alternativa, dall'annotazione del riconoscimento
sull'atto di nascita. Ritiene, inoltre, che l'azione non debba essere
impedita dal decorso di un termine, come quello quinquennale, che
trascorre a prescindere dalla conoscenza della non paternita'.
2.- In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce che B. Z.
impugnava, con atto di citazione notificato il 7 agosto 2019, il
riconoscimento del minore M. Z., per difetto di veridicita',
chiamando in giudizio la madre, R. C., che aderiva all'impugnazione.
Veniva, inoltre, disposta la nomina di un curatore speciale del
minore M. Z.
2.1.- Il giudice a quo riferisce che l'annotazione del
riconoscimento era avvenuta il giorno stesso della nascita della
bambina, in data 4 agosto 2010, e che solo nel novembre del 2018 la
madre aveva confidato all'autore del riconoscimento di aver avuto,
nel 2009, una breve relazione con una terza persona. Questo induceva
B. Z. a sottoporsi a degli esami ematici, all'esito dei quali aveva
scoperto che il dato scientifico smentiva la sua paternita'
biologica.
2.2.- Il Tribunale di Trento espone che nel giudizio a quo tutte
le parti chiedevano concordemente la rimozione dell'atto di
riconoscimento della paternita', effettuato in contrasto con la
verita' biologica.
Tuttavia, il giudice rileva che sia per l'autore del
riconoscimento, sia per la madre erano decorsi i termini previsti
dall'art. 263, terzo comma, cod. civ.
Il rimettente, d'altro canto, esclude che il curatore nominato
dal giudice istruttore possa ritenersi legittimato ad impugnare
l'atto nell'interesse del minore, ai sensi dell'art. 264 cod. civ.
3.- Sul piano della rilevanza, il giudice a quo osserva che
l'impugnazione risulterebbe intempestiva, pur avendo la disposizione
transitoria di cui all'art. 104, comma 10, del d.lgs. n. 154 del
2013, previsto, per i casi di annotazione del riconoscimento avvenuta
prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina, un differimento
dei termini di cui all'art. 263 cod. civ. alla data dell'entrata in
vigore del citato decreto legislativo (il 7 febbraio 2014).
La notifica dell'atto di citazione era, infatti, avvenuta il 7
agosto 2019 e, a quella data, risultavano decorsi sia il termine
annuale, sia - per pochi mesi - quello quinquennale, sicche' solo
sollevando la questione di legittimita' costituzionale il giudice
ritiene di poter passare all'esame nel merito della domanda.
3.1.- Sempre in punto di rilevanza, il giudice a quo sostiene che
le questioni non potrebbero essere superate in ragione
dell'intervento adesivo di soggetti diversi dal padre.
Il pubblico ministero avrebbe legittimazione ad agire nell'azione
di disconoscimento di paternita', ai sensi dell'art. 244 cod. civ.,
ma non nell'impugnazione del riconoscimento per difetto di
veridicita'.
Parimenti, l'intervento adesivo della madre non sarebbe
risolutivo, essendo anche la sua azione decaduta.
Infine, sebbene l'azione da parte del figlio risulti
imprescrittibile (art. 263, comma 2, cod. civ.), il favor per
l'impugnazione espresso dal curatore speciale del minore non
inciderebbe sulla rilevanza. Secondo il rimettente, infatti, la
legittimazione all'esperimento dell'azione non spetterebbe al
curatore nominato dal giudice istruttore, ma richiederebbe, nel
rispetto dell'art. 264 cod. civ. (come modificato dall'art. 29 del
d.lgs. n. 154 del 2013), una designazione effettuata a seguito di una
procedura camerale, ai sensi dell'art. 737 del codice di procedura
civile, assumendo sommarie informazioni ed acquisendo anche il parere
del pubblico ministero, che deve verificare se l'impugnazione
corrisponda all'interesse del minore.
4.- Con riferimento alla non manifesta infondatezza delle
questioni, il giudice a quo ritiene che l'art. 263, terzo comma, cod.
civ. sia contrario «non solo all'art. 8 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, e
quindi all'art. 117, primo comma, Cost., ma anche agli artt. 3 e 76
Cost.».
4.1.- In particolare, relativamente alla decorrenza, per l'autore
del riconoscimento, del termine annuale di decadenza, il rimettente
ravvisa un contrasto con l'art. 3 Cost. sotto un duplice profilo.
Innanzitutto, reputa insussistente qualsivoglia «ragionevole
motivo [per il quale] il termine decorra dalla conoscenza [della non
paternita'] solo in caso di impotenza».
Inoltre, denuncia l'irragionevole disparita' di trattamento fra
la disciplina che, ai sensi dell'art. 244, secondo comma, cod. civ.,
regola i termini per proporre l'azione di disconoscimento della
paternita' e la piu' rigida normativa contemplata dal comma censurato
per l'impugnazione del riconoscimento. Il termine annuale di
decadenza dall'azione nell'art. 244 cod. civ. decorre dalla prova di
una pluralita' di fatti, tra i quali la scoperta dell'adulterio della
moglie al tempo del concepimento; viceversa, la disciplina censurata
in tema di impugnazione del riconoscimento «nulla prevede in
relazione alla specifica ipotesi di ignoranza - da parte del padre -
della relazione della madre con altri uomini al tempo del
concepimento».
4.2.- La medesima norma relativa al termine annuale si porrebbe,
poi, in contrasto con l'art. 76 Cost., per eccesso di delega rispetto
all'art. 2, comma 1, della legge del 10 dicembre 2012, n. 219
(Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali).
Secondo il rimettente «la differenziazione - per il padre
"apparente", rispetto al padre coniugato - del termine per contestare
il rapporto biologico col figlio "apparente", effettuata dal[l']art.
28 del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, che ha
modificato l'art. 263 c.c., appare di dubbia costituzionalita'».
4.3.- Infine, la disciplina sui termini di cui all'art. 263,
terzo comma, cod. civ. contrasterebbe con l'art. 117, primo comma,
Cost., relativamente al parametro interposto di cui all'art. 8 CEDU.
Secondo l'interpretazione offerta dalla giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell'uomo della norma che regola il diritto al
rispetto della vita privata e familiare, l'esigenza di bilanciare, in
una maniera conforme al principio di proporzionalita', il citato
interesse con altre istanze contrapposte verrebbe pregiudicata da
regole che a priori limitassero eccessivamente la possibilita' di
contestare la paternita'.
Tali sarebbero le ipotesi in cui si addebitasse il mancato
rispetto di un termine «per motivi che non potevano essere imputati»
al soggetto legittimato all'azione.
Simile censura riguarda ambo i termini previsti per l'autore del
riconoscimento dall'art. 263, terzo comma, cod. civ.: sia quello
annuale, che, salvo il caso della scoperta dell'impotenza, decorre
dall'annotazione del riconoscimento, sia quello quinquennale, che si
computa sempre a partire da quel medesimo momento.
5.- Da ultimo, il rimettente considera impraticabile una
interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 263, terzo
comma, cod. civ., in quanto esclusa dalla «stringente dizione
letterale» della disposizione.
Considerato in diritto
1.- Nel corso di un giudizio di impugnazione del riconoscimento
del figlio per difetto di veridicita', il Tribunale ordinario di
Trento ha sollevato questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 263, terzo comma, del codice civile, come modificato
dall'art. 28, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n.
154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a
norma dell'articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), in
riferimento agli artt. 3, 76 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali
(CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
L'art. 263, terzo comma, cod. civ. prevede, in particolare, che
«[l]'azione di impugnazione da parte dell'autore del riconoscimento
deve essere proposta nel termine di un anno, che decorre dal giorno
dell'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita. Se l'autore
del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al
tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha
avuto conoscenza; nello stesso termine, la madre che abbia effettuato
il riconoscimento e' ammessa a provare di aver ignorato l'impotenza
del presunto padre. L'azione non puo' essere comunque proposta oltre
cinque anni dall'annotazione del riconoscimento».
Il comma citato viene ritenuto costituzionalmente illegittimo
nella parte in cui non consente che, per l'autore del riconoscimento,
il termine per proporre l'azione di impugnazione decorra dalla
conoscenza della non paternita'.
Il giudice, pertanto, censura la norma che, per l'autore del
riconoscimento, fa decorrere il dies a quo, relativo al termine
annuale di decadenza, dalla mera scoperta dell'impotenza al tempo del
concepimento o, in alternativa, dall'annotazione del riconoscimento
sull'atto di nascita. Ritiene, inoltre, che l'azione non debba essere
impedita dal decorso di un termine, come quello quinquennale, che
trascorre a prescindere dalla conoscenza della non paternita'.
2.- Sotto il profilo della rilevanza, il rimettente evidenzia che
entrambi i termini disciplinati dal comma censurato - quello annuale
e quello quinquennale - sono, nella fattispecie oggetto del giudizio
a quo, scaduti e, per questo, solleva le questioni di legittimita'
costituzionale, chiedendo che l'autore del riconoscimento possa
impugnare l'atto a partire dalla scoperta della non paternita'.
3.- Quanto alla non manifesta infondatezza, l'ordinanza investe
l'intero art. 263, terzo comma, cod. civ., rilevando il contrasto con
una pluralita' di parametri che variamente si riverberano su ambedue
i termini ivi regolati.
Le motivazioni riferite agli artt. 3 e 76 Cost. riguardano il
solo termine di decadenza annuale, che decorre o dalla prova
dell'impotenza al tempo del concepimento o, in mancanza di questa,
dall'annotazione del riconoscimento; viceversa, l'argomentazione
incentrata sull'art. 117, primo comma, Cost., relativamente al
parametro interposto di cui all'art. 8 CEDU, mette in discussione
qualunque termine impeditivo dell'azione, quando decorra per ragioni
che non consentono di ritenere imputabile al legittimato l'inerzia.
3.1.- Il rimettente ravvisa, in particolare, una violazione
dell'art. 3 Cost. sotto un duplice profilo.
L'autore del riconoscimento, onde giovarsi di un dies a quo
relativo al termine annuale diverso dall'annotazione dell'atto,
sarebbe irragionevolmente ammesso a dimostrare la mera conoscenza
dell'impotenza, anziche' la scoperta della non paternita' per altre
ragioni.
Inoltre, il medesimo termine comporterebbe una irragionevole
disparita' di trattamento rispetto alla disciplina del
disconoscimento di paternita'. Ai fini della sua decorrenza, l'art.
244 cod. civ. consente al padre di provare una pluralita' di fatti,
tra i quali la scoperta dell'adulterio al tempo del concepimento;
viceversa, l'art. 263, terzo comma, cod. civ. «nulla prevede in
relazione alla specifica ipotesi di ignoranza - da parte del padre -
della relazione della madre con altri uomini al tempo del
concepimento».
3.2.- La diversita' di previsioni, sopra richiamata, si porrebbe,
altresi', in contrasto con l'art. 76 Cost., per avere la norma
ecceduto rispetto ai limiti tracciati dall'art. 2, comma 1, della
legge delega 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di
riconoscimento dei figli naturali).
3.3.- Infine, la disciplina sui termini di cui all'art. 263,
terzo comma, cod. civ. violerebbe l'art. 117, primo comma, Cost., in
relazione all'art. 8 CEDU, in quanto la giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell'uomo avrebbe ritenuto non conformi ad un
bilanciamento proporzionato fra gli interessi in conflitto meccanismi
impeditivi dell'azione legati alla decorrenza di termini, che non
consentono di ritenere imputabile l'inerzia.
Tale parametro costituzionale chiama in causa sia il termine
annuale sia quello quinquennale.
4.- Preliminarmente, si deve rilevare che il giudice a quo ha
ricostruito in maniera completa il quadro normativo, dando conto
della norma transitoria di cui all'art. 104, comma 10, del d.lgs. n.
154 del 2013, secondo la quale «[f]ermi gli effetti del giudicato
formatosi prima dell'entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012,
n. 219, nel caso di riconoscimento di figlio annotato sull'atto di
nascita prima dell'entrata in vigore del presente decreto
legislativo, i termini per proporre l'azione di impugnazione,
previsti dall'art. 263 e dai commi secondo, terzo e quarto dell'art.
267 del codice civile, decorrono dal giorno dell'entrata in vigore
del medesimo decreto legislativo». Il rimettente, in particolare,
chiarisce che il meccanismo di differimento, previsto dalla citata
norma, non ha, comunque, impedito la scadenza di entrambi i termini,
rispetto ai quali solleva le questioni di legittimita'
costituzionale.
Deve, inoltre, precisarsi che il giudice a quo ha censurato il
solo art. 263, terzo comma, cod. civ. e non anche l'art. 104, comma
10, del d.lgs. n. 154 del 2013, in quanto ha chiesto una integrazione
della prima disposizione, che facesse decorrere il termine a partire
da un momento - la scoperta della non paternita' - che, nel caso
oggetto del giudizio, si era verificato dopo l'entrata in vigore
della legge n. 219 del 2012.
5.- Passando ora all'esame del merito, occorre premettere che la
riforma dell'art. 263 cod. civ., introdotta con il d.lgs. n. 154 del
2013, ha profondamente innovato la precedente disciplina, nell'ambito
di una novella legislativa che, pur avendo mantenuto distinte le
azioni di stato, si e' ispirata all'obiettivo di «eliminare ogni
discriminazione tra i figli [...] nel rispetto dell'articolo 30 della
Costituzione» (art. 2, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n.
219).
Al precedente regime in materia di impugnazione del
riconoscimento per difetto di veridicita', tutto improntato al favor
veritatis, e' subentrata una regolamentazione che ha notevolmente
rafforzato l'esigenza di stabilita' dello status filiationis e di
tutela del figlio.
La modifica del dato normativo e' stata, poi, accompagnata dagli
interventi di questa Corte, che ha provveduto a precisare la
necessaria sussistenza di uno spazio di bilanciamento in concreto fra
gli interessi implicati, affidato alla valutazione giudiziale. L'art.
263 cod. civ. sottende «l'esigenza di operare una razionale
comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta
situazione dei soggetti coinvolti», posto che «la regola di giudizio
che il giudice e' tenuto ad applicare in questi casi [deve] tenere
conto di variabili molto piu' complesse della rigida alternativa vero
o falso (sentenza n. 272 del 2017)» (sentenza n. 127 del 2020).
Sullo sfondo, dunque, di un'azione nella quale il giudice non
procede ad un mero accertamento della verita' biologica, ma opera un
bilanciamento in concreto tra gli interessi coinvolti, si collocano
le questioni poste dal rimettente, il quale dubita della legittimita'
costituzionale della disciplina relativa al duplice termine con cui
l'art. 263, terzo comma, cod. civ. filtra la possibilita', per
l'autore del riconoscimento, di far valere in giudizio uno degli
interessi che entrano nel bilanciamento, vale a dire l'identita'
biologica.
In particolare, ravvisa un contrasto con gli artt. 3, 76 e 117,
primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU,
rispetto alla disposizione che regola il dies a quo relativo al
termine di decadenza annuale, nonche' una violazione sempre dell'art.
117, primo comma, Cost., coordinato con la citata norma interposta,
relativamente al termine quinquennale, che decorre dall'annotazione
del riconoscimento e, dunque, a prescindere dalla conoscenza della
non paternita'.
6.- In via prioritaria, e' necessario esaminare la censura che
ritiene violato l'art. 76 Cost.
Secondo il rimettente, l'art. 263, terzo comma, cod. civ. avrebbe
ecceduto i limiti tracciati dalla legge di delega, differenziando la
disciplina del dies a quo, relativo al termine annuale di decadenza
per l'impugnazione da parte dell'autore del riconoscimento, rispetto
alla previsione che regola, per il "padre coniugato", la decorrenza
del termine annuale nell'azione di disconoscimento della paternita'.
La norma censurata prevede, infatti, che il termine annuale
decorra o dalla scoperta della impotenza al tempo del concepimento o,
altrimenti, dall'annotazione del riconoscimento. Per converso, l'art.
244 cod. civ. stabilisce, nel secondo e nel terzo comma, che il
marito puo' disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre
«dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa
nel luogo in cui e' nato il figlio; se prova di aver ignorato la
propria impotenza di generare ovvero l'adulterio della moglie al
tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha
avuto conoscenza. Se il marito non si trovava nel luogo in cui e'
nato il figlio il giorno della nascita, il termine, di cui al secondo
comma, decorre dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno
nella residenza familiare se egli ne era lontano. In ogni caso, se
egli prova di non aver avuto notizia della nascita in detti giorni,
il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia».
6.1.- La questione non e' fondata.
L'art. 2, comma 1, della legge delega n. 219 del 2012 ha
stabilito, quale principio generale, l'esigenza di «eliminare ogni
discriminazione tra i figli, anche adottivi, nel rispetto
dell'articolo 30 della Costituzione», statuendo, poi, alla lettera a)
del medesimo comma la «sostituzione, in tutta la legislazione
vigente, dei riferimenti ai "figli legittimi" e "figli naturali" con
riferimenti ai "figli", salvo l'utilizzo delle denominazioni di
"figli nati nel matrimonio" e di "figli nati fuori del matrimonio"
quando si tratta di disposizioni a essi relative». Infine, con
specifico riferimento all'impugnazione del riconoscimento, ha
previsto, alla lettera g) del citato comma, la modifica della
disciplina «con la limitazione dell'imprescrittibilita' dell'azione
solo per il figlio e con l'introduzione di un termine di decadenza
per l'esercizio dell'azione da parte degli altri legittimati».
Sulla base delle disposizioni richiamate, non si puo' sostenere
che al legislatore delegato fosse preclusa la possibilita' di
mantenere distinte azioni demolitorie dello status filiationis,
purche' l'esito - in conformita' con l'art. 30 Cost. - non conducesse
ad una discriminazione in pregiudizio al figlio nato fuori dal
matrimonio.
Un tale risultato deve certamente escludersi con riferimento alla
disciplina censurata.
Il legislatore delegato non solo ha introdotto - come
espressamente richiesto dalla delega - l'imprescrittibilita'
dell'azione a beneficio del solo figlio, nonche' un termine
impeditivo dell'azione per gli altri legittimati, ma ha anche
contemplato - come nel disconoscimento della paternita' - un
ulteriore termine riferito al padre. Tale norma, d'altro canto, pur
non priva - come si dira' - di criticita', non comporta in alcun modo
una discriminazione in pregiudizio al figlio nato fuori dal
matrimonio.
Tanto premesso, va precisato che la giurisprudenza costituzionale
in tema di eccesso di delega e' da tempo costante nell'affermare che
«la previsione di cui all'art. 76 Cost. non osta all'emanazione, da
parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un
coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal
legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo
sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni
stabilite dal secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega
legislativa deve, cosi', svolgersi attraverso un confronto tra gli
esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato,
le disposizioni che determinano l'oggetto, i principi e i criteri
direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall'altro, le
disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel
significato compatibile con i principi e i criteri direttivi della
delega. Il che, se porta a ritenere del tutto fisiologica
quell'attivita' normativa di completamento e sviluppo delle scelte
del delegante, circoscrive, d'altra parte, il vizio in discorso ai
casi di dilatazione dell'oggetto indicato dalla legge di delega, fino
all'estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse
(sentenza n. 194 del 2015 e sentenze n. 182 e n. 50 del 2014)»
(sentenza n. 212 del 2018).
Deve, dunque, ritenersi che la norma censurata non abbia, in
alcun modo, travalicato i confini tracciati dal perimetro della legge
delega.
7.- Sempre con riferimento alla disciplina sul dies a quo, per
l'autore del riconoscimento, del termine annuale di decadenza
dall'azione (art. 263, terzo comma, prima parte, cod. civ.), il
rimettente solleva ulteriori dubbi di legittimita' costituzionale in
riferimento all'art. 3 Cost.
7.1.- L'esame di tali censure richiede, preliminarmente, di
ricostruire come si sia giunti ad una norma che fa decorrere, per
l'autore del riconoscimento, il dies a quo del termine annuale dalla
scoperta dell'impotenza al tempo del concepimento, quale unica
alternativa alla sua decorrenza dall'annotazione dell'atto di
riconoscimento.
La disciplina richiamata origina da una traslazione meramente
parziale, nell'ambito dell'impugnazione del riconoscimento del figlio
nato fuori dal matrimonio, delle regole dettate dal legislatore per
il disconoscimento della paternita' del figlio nato nel matrimonio.
Queste, a loro volta, hanno subito un processo evolutivo non privo di
increspature, che e' opportuno brevemente ripercorrere.
7.1.1.- Quando, in materia di prova del disconoscimento della
paternita', vigeva l'art. 235 cod. civ., ora abrogato, che ammetteva
il padre coniugato a dimostrare la non paternita' solo dopo aver
provato una serie di fatti idonei a superare l'allora presunzione di
concepimento (la non coabitazione in quel periodo, o, nel medesimo
arco di tempo, l'impotenza o l'adulterio o la dissimulazione della
gravidanza o della nascita), questa Corte aveva dichiarato
costituzionalmente illegittimo l'art. 244 cod. civ., nella parte in
cui, regolando il termine di decadenza annuale per l'esercizio
dell'azione, non aveva previsto che esso potesse decorrere anche
dalla scoperta dell'adulterio (sentenza n. 134 del 1985) nonche'
dalla conoscenza dell'impotenza (sentenza n. 170 del 1999). La
giurisprudenza costituzionale aveva rilevato, in proposito:
«l'irragionevole esclusione del diritto del padre di agire per il
disconoscimento, nel caso di scoperta dell'adulterio oltre un anno
dopo la nascita del figlio, poiche' l'azione sarebbe inutiliter data»
(sentenza n. 134 del 1985), cosi' come aveva contestato la
ragionevolezza di una previsione che negava l'azione a chi «non [era]
stato a conoscenza di un elemento costitutivo dell'azione medesima»
(sentenza n. 170 del 1999).
Dopo che le richiamate pronunce avevano riallineato la disciplina
della decorrenza dei termini alle prove allora richieste dall'art.
235 cod. civ., questa Corte dichiarava, di seguito, l'illegittimita'
costituzionale della norma appena citata, nella parte in cui, ai fini
dell'azione di disconoscimento, condizionava l'esame delle prove
tecniche sulla non paternita' alla previa dimostrazione di fatti
ulteriori: nello specifico, alla prova dell'adulterio. La sentenza n.
266 del 2006 rilevava, infatti, che «[i]l subordinare [...] l'accesso
alle prove tecniche, che, da sole, consentono di affermare se il
figlio e' nato o meno da colui che e' considerato il padre legittimo,
alla previa prova dell'adulterio e', da una parte, irragionevole,
attesa l'irrilevanza di quest'ultima prova al fine dell'accoglimento,
nel merito, della domanda proposta; e, dall'altra, si risolve in un
sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione garantito
dall'art. 24 della Costituzione».
Con la novella introdotta dal d.lgs. n. 154 del 2013, la
disciplina relativa alla prova oggetto del disconoscimento di
paternita' e' stata conformata alla sentenza n. 266 del 2006, con
l'eliminazione del filtro di ammissibilita' e con l'abrogazione
dell'art. 235 cod. civ., sostituito dalla semplice previsione
dell'art. 243-bis, secondo comma, cod. civ., secondo cui «chi
esercita l'azione e' ammesso a provare che non sussiste rapporto di
filiazione tra il figlio e il presunto padre». Tuttavia, la nuova
regolamentazione della prova non si e' riverberata sulla disciplina
del termine annuale di decadenza dall'azione, che e' stata adeguata
esclusivamente a quanto deciso dalle sentenze n. 170 del 1999 e n.
134 del 1985. L'art. 244 cod. civ. prevede, infatti, che il termine
annuale di decadenza decorra per il padre dal momento della nascita
del figlio (o, in caso di lontananza in quel momento, dai fatti
previsti dall'art. 244, terzo comma, cod. civ.), oppure dalla prova
della conoscenza dell'adulterio o dell'impotenza a generare al tempo
del concepimento. In sostanza, le precedenti ragioni, che integravano
il filtro di ammissibilita', continuano a dover essere provate, sia
pur al mero fine di impedire la decadenza dall'azione.
7.1.2.- Venendo, ora, alla disciplina dell'impugnazione del
riconoscimento del figlio, emerge come l'art. 263, terzo comma, cod.
civ. abbia preso a modello proprio le regole dettate dall'art. 244
cod. civ. e si sia, poi, limitato a considerare la sola scoperta
dell'impotenza al tempo del concepimento, quale dies a quo
alternativo a quello dell'annotazione del riconoscimento.
A fronte di tale disposizione, il rimettente censura la norma per
non aver previsto la decorrenza del termine annuale dalla conoscenza
tout court della non paternita', a prescindere dalla causa da cui
essa dipenda, sollevando un duplice dubbio di legittimita'
costituzionale, in riferimento all'art. 3 Cost.
Per un verso, rileva l'irragionevolezza del richiamo esclusivo
alla scoperta dell'impotenza, posto che il padre puo' ben ignorare (e
non avere ragioni per sospettare) la non paternita', anche in ipotesi
diverse da quella citata. Tale censura reca con se' il dubbio di
un'irragionevole disparita' di trattamento fra chi possa dimostrare
la propria impotenza, onde sottrarsi alla decadenza dall'azione, e
chi non sia affetto da tale patologia.
Per un altro verso, contesta l'irragionevole disparita' di
trattamento rispetto alla disciplina sul disconoscimento di
paternita', che contempla, oltre alla scoperta dell'impotenza, un
piu' ampio novero di fatti, la cui dimostrazione fa decorrere il dies
a quo del termine annuale.
7.2.- Le questioni sono fondate.
7.2.1.- Sotto il primo profilo, occorre rilevare che l'art. 263
cod. civ. regola qualsivoglia ipotesi di impugnazione per difetto di
veridicita', abbracciando tanto casi di riconoscimento effettuato
nella consapevolezza della non paternita' (su cui si vedano le
sentenze n. 127 del 2020 e n. 272 del 2017), quanto ipotesi in cui il
consenso all'atto personalissimo si fondi sull'erronea supposizione
del legame biologico.
Sennonche', mentre puo' ritenersi non irragionevole che il
termine annuale decorra dall'annotazione del riconoscimento per chi
abbia posto in essere l'atto nella consapevolezza della non
paternita' biologica, per converso, evidenzia una palese
irragionevolezza far decorrere il medesimo termine dall'annotazione
del riconoscimento, per chi ignorasse il difetto di veridicita',
limitando la possibilita' di far valere la decorrenza del termine
dalla scoperta della non paternita' alla sola ipotesi dell'impotenza.
Ne discende una irragionevole disparita' di trattamento fra autori
del riconoscimento, che possano provare l'impotenza, e autori del
riconoscimento non affetti da tale patologia, che siano parimenti
venuti a conoscenza della non veridicita' della paternita' biologica,
quando oramai sia decorso il termine annuale conteggiato a partire
dall'annotazione del riconoscimento.
La disciplina censurata si pone, in tal modo, in contrasto con
quanto affermato da questa Corte, che ha ritenuto irragionevole far
decorrere il termine annuale di decadenza dall'azione volta ad
impugnare lo status filiationis, quando il padre non era a conoscenza
dei fatti oggetto della prova (sentenze n. 170 del 1999 e n. 134 del
1985). E se, quando le sentenze richiamate venivano pronunciate,
l'onere probatorio che vigeva nella disciplina sul disconoscimento
della paternita' riguardava fatti quali l'adulterio o l'impotenza al
tempo del concepimento, viceversa, unico ed esclusivo oggetto della
prova nell'impugnazione del riconoscimento ex art. 263, primo comma,
cod. civ., e' - ed e' sempre stato anche prima della riforma del 2013
- la mera non paternita' biologica. E', dunque, dalla scoperta della
non paternita' che deve decorrere il termine annuale di decadenza
dall'azione per l'autore del riconoscimento, onde evitare
l'irragionevolezza di negare l'azione a chi «non [era] stato a
conoscenza di un elemento costitutivo dell'azione medesima» (sentenza
n. 170 del 1999).
7.3.- Quanto sopra premesso evidenzia che la norma censurata
comporta una irragionevole disparita' di trattamento anche nel
confronto tra le regole dettate per il padre che intenda far valere
la verita' biologica, impugnando il riconoscimento, e quelle previste
per il padre che agisca per il disconoscimento di paternita'.
Il padre non coniugato puo' dimostrare solo l'impotenza, onde far
decorrere il termine annuale di decadenza da un dies a quo diverso
rispetto all'annotazione del riconoscimento; il padre coniugato puo',
invece, avvalersi anche di altre prove, tra cui quella
dell'adulterio, onde sottrarsi al dies a quo che altrimenti decorre
dalla nascita.
Anche a fronte di tale diversita' di trattamento, che finisce per
rendere piu' stabile lo status filiationis sorto al di fuori del
matrimonio rispetto a quello del figlio concepito o nato durante il
matrimonio, deve, dunque, ritenersi fondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 263, terzo comma, cod. civ.,
nella parte in cui non prevede che il termine annuale di decadenza
decorra per l'autore del riconoscimento dalla mera scoperta della non
paternita', che in se' abbraccia qualsivoglia ragione l'abbia
determinata.
In tal modo, si garantisce al padre non coniugato una disciplina
sul termine di decadenza annuale dall'azione, che presenta una
latitudine analoga a quella spettante al padre coniugato, pur se
questi, per sottrarsi alla decadenza del termine, e' onerato dalla
prova delle singole ragioni di sospetto o di acquisita certezza della
non paternita', individuate dall'art. 244, secondo e terzo comma,
cod. civ.
D'altro canto, non puo' certo ritenersi costituzionalmente
vincolata l'esatta riproduzione nella disciplina dell'impugnazione
del riconoscimento di tali singole ragioni previste dall'art. 244
cod. civ. per il disconoscimento della paternita'.
Per un verso, infatti, rispetto a quest'ultima azione, il
legislatore ha ritenuto di mantenere, sia pure al mero fine di
impedire la decadenza dall'azione, un onere probatorio che, invero,
rispetto alla dimostrazione richiesta per il disconoscimento di
paternita', la sentenza n. 266 del 2006 aveva reputato
costituzionalmente illegittimo. Non a caso, la riforma del 2013 ha
previsto come prova per l'azione di disconoscimento la mera
dimostrazione della non paternita' (art. 243-bis cod. civ).
Per un altro verso, il mantenimento del richiamo a fatti, che un
tempo operavano da filtro di ammissibilita' dell'azione, collegato
con la precedente presunzione di concepimento, palesa una logica del
tutto estranea all'impugnazione del riconoscimento.
Appare, invece, decisivo che il superamento dell'irragionevolezza
insita nell'art. 263, terzo comma, cod. civ., avvenga, per l'autore
del riconoscimento, nel segno di un coordinamento tra la disciplina
del termine di decorrenza dell'azione e l'oggetto della prova che,
nell'impugnazione del riconoscimento, e' la mera dimostrazione della
non paternita' biologica.
7.4.- In conclusione, deve dichiararsi costituzionalmente
illegittimo, per contrasto con l'art. 3 Cost., l'art. 263, terzo
comma, cod. civ., nella parte in cui non prevede che, per l'autore
del riconoscimento, il termine annuale per proporre l'azione di
impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non
paternita'.
In riferimento a tale oggetto resta assorbita l'ulteriore
questione di legittimita' costituzionale, posta con riguardo all'art.
117, primo comma, Cost., relativamente alla norma interposta di cui
all'art. 8 CEDU.
8.- Il contrasto con il medesimo art. 117, primo comma, Cost.,
sempre in rapporto alla norma interposta di cui all'art. 8 CEDU, deve
essere, invece, indagato rispetto al termine quinquennale, di cui
all'art. 263, terzo comma, cod. civ.
Nella disciplina di tale termine il tempo decorre, inibendo
l'azione, a prescindere dalla circostanza che il richiedente fosse
consapevole della sua possibile non paternita'. Questo sembrerebbe
evocare gli orientamenti della Corte EDU che, in effetti, ha
censurato alcuni meccanismi impeditivi di azioni di impugnazione
dello status filiationis, ove al legittimato non fosse imputabile
l'inerzia.
8.1.- La questione non e' fondata.
Vero e' che, nell'interpretazione del diritto al rispetto della
vita personale e familiare, la Corte EDU, in vari precedenti (Corte
EDU, sentenza 10 gennaio 2007, Paulik contro Slovacchia; Corte EDU,
sentenza 24 febbraio 2006, Shofman contro Russia), compreso il
recente caso citato dal rimettente, Doktorov contro Bulgaria (Corte
EDU, sentenza 10 settembre 2018), ha ritenuto che non realizzino un
bilanciamento proporzionato, tra gli interessi rilevanti, discipline
volte a far decorrere un termine di decadenza per l'impugnazione
dello stato di filiazione dal momento costitutivo dello stesso,
anziche' da quello in cui il richiedente abbia maturato la
consapevolezza della sua possibile non paternita': «rather than from
the moment the applicant became aware that he might not be the father
of the child» (Corte EDU, sentenza 10 settembre 2018, non tradotta in
italiano). In particolare, con riguardo alla legislazione bulgara, la
Corte contesta la rigidita' di previsioni che non consentono di
prendere in considerazione le circostanze individuali di persone che,
come il ricorrente, risultassero decadute per motivi a loro non
imputabili.
Tuttavia, l'interpretazione sopra richiamata e' correlata in
maniera inscindibile alle fattispecie normative oggetto dei giudizi
sottoposti alla Corte EDU, che si riferiscono a termini (semestrali o
annuali) decisamente piu' brevi rispetto a quello quinquennale
previsto dall'art. 263, terzo comma, ultima parte, cod. civ.
Un cosi' lungo decorso del tempo (cinque anni dal riconoscimento)
radica il legame familiare e sposta il peso assiologico, nel
bilanciamento attuato dalla norma, sul consolidamento dello status
filiationis, in una maniera tale da giustificare che la prevalenza di
tale interesse sia risolta in via automatica dalla fattispecie
normativa.
Nessuna censura di non proporzionalita' puo', dunque, muoversi -
anche nel coordinamento fra l'interpretazione dell'art. 8 CEDU,
offerta dalla Corte EDU, e il quadro dei principi costituzionali -
alla scelta operata dal legislatore che, nella sua discrezionalita',
ha ritenuto di sacrificare l'interesse dell'autore del
riconoscimento, a far valere in via giudiziale l'identita' biologica,
a beneficio dell'interesse allo status filiationis consolidatosi dopo
cinque anni dal suo sorgere.
Da ultimo, deve, peraltro, rilevarsi che l'interesse a far valere
la verita' biologica non risulta in assoluto estromesso dal giudizio,
in quanto esso puo' essere fatto valere dallo stesso figlio, per il
quale l'azione di impugnazione del riconoscimento risulta
imprescrittibile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 263, terzo
comma, codice civile, come modificato dall'art. 28, comma 1, del
decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle
disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell'articolo
2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), nella parte in cui non
prevede che, per l'autore del riconoscimento, il termine annuale per
proporre l'azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto
conoscenza della non paternita';
2) dichiara non fondata la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 263, terzo comma, cod. civ., come modificato
dall'art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 154 del 2013, nella parte in cui
non prevede che, per l'autore del riconoscimento, il termine annuale
per proporre l'azione di impugnazione, decorra dal giorno in cui ha
avuto conoscenza della non paternita', sollevata, in riferimento
all'art. 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Trento con
l'ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 263, terzo comma, cod. civ., come modificato
dall'art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 154 del 2013, nella parte in cui
prevede che «l'azione non puo' essere comunque proposta oltre cinque
anni dall'annotazione del riconoscimento», sollevata, in riferimento
all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 8 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di
Trento con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 maggio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Emanuela NAVARRETTA, Redattrice
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 25 giugno 2021.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA