N. 159 SENTENZA 17 aprile – 25 giugno 2019
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Impiego pubblico - Trattamento economico e previdenziale - Differimento e rateizzazione del pagamento delle indennita' di fine servizio. - Decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica) - convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140 - art. 3, comma 2; decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitivita' economica) - convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122 - art. 12, comma 7.
(GU n.27 del 3-7-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA,
Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca
ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 2,
del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il
riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni,
nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell'art. 12, comma 7, del
decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitivita' economica),
convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122,
promosso dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del
lavoro, nel giudizio instaurato da Amelia Capilli contro l'Istituto
nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 12
aprile 2018, iscritta al n. 136 del registro ordinanze 2018 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima
serie speciale, dell'anno 2018.
Visti gli atti di costituzione di Amelia Capilli e dell'INPS,
nonche' gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri e della Federazione Confsal-Unsa;
udito nella udienza pubblica del 17 aprile 2019 il Giudice
relatore Silvana Sciarra;
uditi gli avvocati Antonio Mirra per Amelia Capilli, Flavia
Incletolli per l'INPS e l'avvocato dello Stato Gianfranco Pignatone
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del
lavoro, con ordinanza del 12 aprile 2018, iscritta al n. 136 del
registro ordinanze 2018, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e
36 della Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure
urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con
modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell'art. 12,
comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitivita'
economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio
2010, n. 122, nella parte in cui dispongono il pagamento differito e
rateale dei trattamenti di fine servizio spettanti ai dipendenti
pubblici.
1.1.- Il rimettente espone di dovere decidere sul ricorso
proposto da Amelia Capilli, dipendente del Ministero della giustizia,
«in pensione per anzianita' dal 1-9-2016», che ha chiesto il
pagamento dell'indennita' di buonuscita senza dilazioni e
rateizzazioni e comunque con il riconoscimento degli interessi e
della rivalutazione dal dovuto al saldo. In virtu' delle disposizioni
censurate, la parte ricorrente nel giudizio principale percepirebbe
l'indennita' di buonuscita «in maniera rateale e dilazionata, con
pagamento dell'ultima rata al settembre del 2020».
In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il rimettente
osserva che solo la declaratoria di illegittimita' costituzionale
dell'art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997 e dell'art. 12, comma
7, del d.l. n. 78 del 2010, renderebbe «illegittima la dilazione e
rateizzazione della indennita' di buonuscita» e condurrebbe
all'accoglimento delle pretese della parte ricorrente.
1.2.- Nell'avvalorare la non manifesta infondatezza delle
questioni proposte, il giudice a quo muove dal rilievo che «il
trattamento per la cessazione del rapporto di lavoro» si configura
come retribuzione, seppure differita, e che consente al lavoratore di
fare fronte alle «principali necessita' di vita» e agli impegni
finanziari gia' assunti.
La disciplina in esame, nel prevedere «una corresponsione
dilazionata e rateale del trattamento di fine rapporto» per i soli
dipendenti delle pubbliche amministrazioni, contravverrebbe al
principio di parita' di trattamento (art. 3 Cost.). Il trattamento
deteriore riservato ai dipendenti pubblici, difatti, non potrebbe
rinvenire alcuna ragionevole giustificazione nella specialita' del
rapporto di lavoro pubblico.
La disciplina in esame contrasterebbe con l'art. 36 Cost., che
tutela il diritto del lavoratore di percepire una retribuzione
proporzionata alla quantita' e alla qualita' del lavoro svolto,
idonea «a garantire al lavoratore una utilita' congrua rispetto al
valore professionale dell'attivita' prestata». Un pagamento
dilazionato comprometterebbe l'adeguatezza stessa della retribuzione.
Il legislatore, in violazione del principio di ragionevolezza
(art. 3 Cost.), avrebbe bilanciato in modo arbitrario il «diritto
tutelato dall'art. 36 Cost. con l'interesse collettivo al
contenimento della spesa pubblica».
Il rimettente, che pure reputa legittime restrizioni generali,
destinate a operare, in una dimensione solidaristica e in un ciclo
pluriennale, per l'intero comparto pubblico, osserva che l'intervento
del legislatore deve fondarsi sulla «particolare gravita' della
situazione economica e finanziaria del momento» e collocarsi «in un
disegno organico improntato a una dimensione programmatica».
Nel caso di specie, il giudice a quo denuncia una «protrazione,
in via permanente, della dilazione e scaglionamento» dei trattamenti
di fine servizio, che rischierebbe di «oscurare il criterio di
proporzionalita' della retribuzione, riferito alla quantita' e alla
qualita' del lavoro svolto» (si menziona la sentenza n. 178 del
2015).
2.- Con atto depositato il 30 ottobre 2018, si e' costituita in
giudizio Amelia Capilli, parte ricorrente nel giudizio principale, e
ha chiesto di accogliere le questioni di legittimita' costituzionale
sollevate dal Tribunale ordinario di Roma.
La parte costituita argomenta che per i «soli dipendenti in
rapporto di pubblico impiego», senza alcuna giustificazione
apprezzabile, si dilatano i tempi di erogazione del trattamento di
fine servizio, con evidente disparita' di trattamento rispetto ai
lavoratori privati.
Il pagamento in ritardo dei trattamenti di fine servizio, che
costituiscono retribuzione differita, si porrebbe in contrasto anche
con il principio di proporzionalita' della retribuzione, sancito
dall'art. 36 Cost.
L'esigenza di contenimento della spesa pubblica potrebbe
giustificare un intervento temporaneo e legato a una situazione di
«emergenza contabile», e non gia' una misura definitiva, che, in
mancanza di ogni meccanismo compensativo, «determina una perdita
patrimoniale certa».
Peraltro, il differimento disposto dalle previsioni censurate si
tradurrebbe in un mero rinvio della spesa, che svilirebbe «la
capacita' autorganizzativa» dell'amministrazione datrice di lavoro e
lederebbe l'affidamento «del pubblico dipendente nell'ordinario
sviluppo economico della carriera, comprensivo del trattamento
collegato alla cessazione del rapporto di impiego».
3.- L'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) si e'
costituito in giudizio con atto depositato il 26 ottobre 2018 e ha
chiesto di dichiarare non fondate le questioni di legittimita'
costituzionale.
Le disposizioni censurate supererebbero «lo scrutinio "stretto"
di costituzionalita'», in quanto rispetterebbero tutte le condizioni
che questa Corte ha enucleato nella sentenza n. 173 del 2016 con
riguardo al contributo di solidarieta' sui trattamenti pensionistici
piu' elevati.
Anche nel caso di specie, il sacrificio imposto ai dipendenti
pubblici sarebbe improntato alla solidarieta' previdenziale, in
quanto concorrerebbe a «finanziare gli oneri del sistema
previdenziale, peraltro in un contesto di grave crisi del sistema
stesso», e sarebbe rispettoso del principio di proporzionalita', alla
luce della sua incidenza «sui trattamenti piu' elevati».
Non sussisterebbe la denunciata violazione degli artt. 3 e 36
Cost.
Il trattamento di fine servizio, gestito e liquidato dall'INPS e
finanziato con un contributo previdenziale obbligatorio, non potrebbe
essere equiparato al trattamento di fine rapporto disciplinato
dall'art. 2120 del codice civile e sarebbe comunque - rispetto a
quest'ultimo - piu' vantaggioso.
Quanto alla conformita' all'art. 36 Cost., non dovrebbe essere
valutata con riguardo a singoli istituti, ma alla stregua di tutte le
voci del trattamento complessivo del lavoratore, «peraltro in un arco
temporale di una qualche significativa ampiezza».
4.- Con atto depositato il 30 ottobre 2018, e' intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare non
fondate le questioni di legittimita' costituzionale.
Il differimento dell'erogazione delle indennita' di buonuscita e
di altre indennita' analoghe non pregiudicherebbe la garanzia sancita
dall'art. 36 Cost., in quanto le indennita' spettanti ai dipendenti
pubblici non sarebbero negate o decurtate, ma soltanto, e soltanto in
parte, differite mediante un meccanismo che «privilegia i soggetti
con importi di prestazione piu' bassi». Tale meccanismo, destinato a
operare per tutti i dipendenti pubblici e ispirato a «esigenze di
solidarieta' sociale», sarebbe volto «a fronteggiare la grave
situazione di crisi della finanza pubblica insorta nella recente fase
del processo di integrazione europea».
Non si ravviserebbe, inoltre, alcuna ingiustificata disparita' di
trattamento tra dipendenti pubblici e dipendenti privati. La
disciplina applicabile ai due settori sarebbe, difatti, eterogenea e,
con riguardo al lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni, si apprezzerebbero inderogabili esigenze di
equilibrio finanziario, estranee all'ambito del lavoro privato.
Peraltro, i trattamenti di fine servizio dei dipendenti pubblici,
quanto a criteri di computo e a modalita' di finanziamento,
presenterebbero peculiarita' tali da renderli incomparabili «rispetto
agli omologhi istituti prettamente privatistici».
5.- E' intervenuta ad adiuvandum, con atto depositato il 30
ottobre 2018, la Federazione Confsal-Unsa, per chiedere
l'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale.
La federazione ha sostenuto di essere titolare di un interesse
diretto, attuale e concreto, connesso alla posizione soggettiva
dedotta nel giudizio principale, e di essere, in tale veste,
legittimata all'intervento.
6.- In prossimita' dell'udienza, l'INPS ha depositato una memoria
illustrativa, per svolgere nuove argomentazioni a sostegno delle
conclusioni gia' formulate.
L'INPS ha ribadito le differenze che permangono tra l'indennita'
di buonuscita e il trattamento di fine rapporto regolato dall'art.
2120 cod. civ., differenze che si riscontrerebbero anche per il
trattamento di fine rapporto disciplinato in ambito pubblicistico dal
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999
(Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei
pubblici dipendenti). Inoltre, il carattere piu' vantaggioso
dell'indennita' di buonuscita escluderebbe l'irragionevolezza della
scelta di differirne la liquidazione, quando la cessazione del
rapporto di lavoro non avvenga per inabilita' o decesso.
L'INPS ha soggiunto che le previsioni censurate si collocano in
un articolato insieme di misure, volte a ridurre la spesa corrente
dell'intero settore pubblico, e sono ispirate alla solidarieta'
previdenziale. I lavoratori in servizio, in virtu' di un sistema a
ripartizione, finanzierebbero «il pagamento del trattamento di fine
servizio per coloro che vengono collocati a riposo», in una
prospettiva di «mutualita' intergenerazionale».
L'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale
implicherebbe per le casse dell'istituto, gia' chiamato a
fronteggiare la complessa successione all'Istituto nazionale di
previdenza e assistenza per i dipendenti dell'amministrazione
pubblica (INPDAP), un onere oltremodo gravoso.
L'INPS, difatti, dovrebbe farsi carico del pagamento immediato di
tutte le cessazioni per pensionamento anticipato intervenute nel 2017
e nel 2018, dell'integrazione degli importi relativi alle cessazioni
del 2017 e del 2018 e del pagamento di tutte le rate non ancora
corrisposte, destinate a scadere nel 2019 e nel 2021.
Sulla base di tali rilievi, l'INPS conclude che le disposizioni
censurate attuano «un corretto bilanciamento tra le esigenze
finanziarie dello Stato e, in particolare, dell'Ente previdenziale e
il diritto ad una tutela previdenziale adeguata del dipendente
pubblico, al fine di realizzare quel risparmio di spesa richiesto al
nostro Paese dagli impegni assunti in sede Comunitaria».
7.- All'udienza pubblica del 17 aprile 2019, le parti costituite
e il Presidente del Consiglio dei ministri hanno ribadito le
conclusioni formulate nei rispettivi scritti difensivi.
Considerato in diritto
1.- Con ordinanza del 12 aprile 2018 (reg. ord. n. 136 del 2018),
il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro,
dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 2, del
decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il
riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni,
nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell'art. 12, comma 7, del
decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitivita' economica),
convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, in
riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione.
Il rimettente assume che le disposizioni censurate, nel prevedere
un pagamento differito e rateale dei trattamenti di fine servizio,
comunque denominati, spettanti ai dipendenti pubblici, si pongano in
contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.). I
lavoratori del settore pubblico sarebbero assoggettati a un regime
deteriore rispetto ai lavoratori del settore privato, i quali
ottengono senza ritardo l'erogazione del trattamento di fine
rapporto. La denunciata sperequazione non troverebbe una
giustificazione ragionevole nella specialita' del rapporto di lavoro
alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
La «corresponsione dilazionata e rateale» dei trattamenti di fine
servizio, disposta «in via generale, permanente e definitiva»,
sarebbe, per altro verso, lesiva del principio di ragionevolezza
(art. 3 Cost.) e del diritto di percepire una retribuzione
proporzionata alla quantita' e alla qualita' del lavoro svolto (art.
36 Cost.).
La «particolare gravita' della situazione economica e finanziaria
del momento» potrebbe giustificare esclusivamente «un intervento
temporaneo e mirato sui trattamenti di fine rapporto», applicabile
«all'intero comparto pubblico», secondo le coordinate di «un disegno
organico improntato a una dimensione programmatica», che si proietta
nell'arco pluriennale delle politiche di bilancio. Nondimeno, tale
intervento non potrebbe risolversi in una «irragionevole protrazione,
in via permanente, della dilazione e scaglionamento» dell'erogazione
dei trattamenti di fine servizio.
Un assetto cosi' congegnato, che procrastina il pagamento dei
trattamenti di fine servizio, contrasterebbe con il principio di
proporzionalita' della retribuzione alla quantita' e alla qualita'
del lavoro prestato e ne comprometterebbe l'adeguatezza, in
violazione dell'art. 36 Cost. Tali trattamenti, qualificabili come
retribuzione differita, sarebbero corrisposti alla cessazione del
rapporto di lavoro allo scopo di soddisfare le «principali necessita'
di vita (per esempio, acquisto di una casa, spese per il matrimonio
di un figlio, necessita' di cure mediche [...])», legate anche
all'esigenza di onorare altri impegni finanziari assunti.
2.- Nel giudizio e' intervenuta ad adiuvandum, con atto
depositato il 30 ottobre 2018, la Federazione Confsal-Unsa.
La federazione, che non riveste la qualita' di parte del giudizio
principale, ha fondato la legittimazione all'intervento sulla
titolarita' di un interesse diretto, attuale e concreto, connesso
alla posizione soggettiva dedotta nel giudizio a quo.
L'intervento e' inammissibile.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, ribadita anche con
riguardo alle richieste di intervento di soggetti rappresentativi di
interessi collettivi o di categoria (fra le molte, ordinanza
dibattimentale allegata alla sentenza n. 248 del 2018), la
partecipazione al giudizio incidentale di legittimita' costituzionale
e' circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che
al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge
regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle
Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).
A tale disciplina e' possibile derogare - senza contraddire il
carattere incidentale del giudizio di costituzionalita' - soltanto a
favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse
qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto
in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro,
dalla norma o dalle norme oggetto di censura (fra le molte, sentenza
n. 153 del 2018, punto 3. del Considerato in diritto). In tale
prospettiva, un interesse qualificato sussiste allorche' si configuri
una «posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata
immediatamente e irrimediabilmente dall'esito del giudizio
incidentale» (ordinanza dibattimentale allegata alla sentenza n. 194
del 2018).
La Federazione Confsal-Unsa non vanta un interesse qualificato,
ma soltanto «un mero indiretto, e piu' generale, interesse connesso
agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e
professionali degli iscritti» (sentenza n. 77 del 2018, punto 4. del
Considerato in diritto, con riguardo all'intervento della
Confederazione generale italiana del lavoro), che non vale a rendere
ammissibile l'intervento spiegato.
3.- Allo scopo di definire il tema del decidere rimesso all'esame
di questa Corte, occorre delineare i tratti salienti della disciplina
riguardante la liquidazione dei trattamenti di fine servizio e le
particolarita' della fattispecie concreta che ha dato origine al
dubbio di costituzionalita'.
3.1.- L'art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997 fissa i termini
per la liquidazione dei «trattamenti di fine servizio, comunque
denominati», spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni,
oggi definite dall'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e al personale in regime
di diritto pubblico di cui all'art. 3, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 165
del 2001.
Alla liquidazione l'ente erogatore provvede «decorsi ventiquattro
mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e, nei casi di
cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di eta' o di
servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento
a riposo d'ufficio a causa del raggiungimento dell'anzianita' massima
di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento
applicabili nell'amministrazione, decorsi dodici mesi dalla
cessazione del rapporto di lavoro». All'effettiva corresponsione si
deve dar corso «entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono
dovuti gli interessi».
Al differimento della liquidazione dei trattamenti di fine
servizio si affiancano le disposizioni in tema di pagamento rateale,
introdotte dall'art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010 con
l'obiettivo di concorrere «al consolidamento dei conti pubblici
attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel
rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti
dall'Aggiornamento del programma di stabilita' e crescita».
L'originaria scansione dei pagamenti, modulata in una rata
annuale per le indennita' di fine servizio fino a 90.000,00 euro, in
due rate annuali per le indennita' oltre i 90.000,00 e fino ai
150.000,00 e in tre rate annuali per le indennita' pari o superiori a
150.000,00 euro, sempre al lordo delle trattenute fiscali, e' stata
modificata dall'art. 1, comma 484, lettera a), della legge 27
dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita'
2014)».
Per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, «come
individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi
del comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196»,
l'indennita' di buonuscita, l'indennita' premio di servizio, il
trattamento di fine rapporto e «ogni altra indennita' equipollente
corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a seguito di
cessazione a vario titolo dall'impiego» sono oggi riconosciuti «in un
unico importo annuale se l'ammontare complessivo della prestazione,
al lordo delle relative trattenute fiscali, e' complessivamente pari
o inferiore a 50.000 euro» (lettera a), «in due importi annuali se
l'ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative
trattenute fiscali, e' complessivamente superiore a 50.000 euro ma
inferiore a 100.000 euro» (lettera b) e «in tre importi annuali se
l'ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative
trattenute fiscali, e' complessivamente uguale o superiore a 100.000
euro» (lettera c).
3.1.1.- Sulle questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Roma
non incidono le novita' introdotte dall'art. 23 del decreto-legge 28
gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di
cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella
legge 28 marzo 2019, n. 26, che prevedono la facolta' di richiedere
il finanziamento di una somma, pari all'importo massimo di 45.000,00
euro, dell'indennita' di fine servizio maturata.
Tale facolta', accordata, tra l'altro, al ricorrere dei
presupposti definiti dalla legge, ai «lavoratori dipendenti delle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165», non altera i termini delle
questioni proposte, che si incentrano sui tempi di corresponsione
delle indennita' di fine servizio, tempi che lo ius superveniens non
interviene a modificare.
3.2.- Il rimettente espone di dovere decidere sul ricorso
proposto da una dipendente del Ministero della giustizia «in pensione
per anzianita' dal 1-9-2016», che percepisce il trattamento di fine
servizio «in maniera rateale e dilazionata, con pagamento dell'ultima
rata al settembre 2020».
Nell'atto di costituzione, la parte ricorrente nel giudizio
principale ha specificato che operano le modalita' di corresponsione
regolate dall'art. 12, comma 7, lettera c), del d.l. n. 78 del 2010,
«mediante tre importi annuali successivi».
Sui dati di fatto menzionati dal rimettente con riguardo al
collocamento in pensione per anzianita' il 1° settembre 2016 e al
termine quadriennale per conseguire il saldo del trattamento di fine
servizio, l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e il
Presidente del Consiglio dei ministri non hanno articolato rilievi
critici di sorta.
3.3.- Dalle indicazioni, peraltro non contestate, che offre il
giudice a quo si puo' desumere in maniera inequivocabile che la parte
ricorrente percepisce il trattamento di fine servizio «in tre importi
annuali». Alla liquidazione del primo importo annuale l'ente
erogatore non puo' che provvedere solo dopo che siano «decorsi
ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro» (art. 3,
comma 2, del d.l. n. 79 del 1997). La ricorrente, difatti, e' «in
pensione per anzianita'» e non beneficia dell'applicazione del piu'
favorevole termine annuale, che il legislatore sancisce per la
liquidazione dei trattamenti di fine servizio nelle diverse ipotesi
di «cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di eta' o
di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per
collocamento a riposo d'ufficio a causa del raggiungimento
dell'anzianita' massima di servizio prevista dalle norme di legge o
di regolamento applicabili nell'amministrazione».
La necessita' - riferita dal rimettente - di attendere quattro
anni per il «pagamento» del trattamento di fine servizio discende
dunque dall'applicazione congiunta delle disposizioni dell'art. 12,
comma 7, lettera c), del d.l. n. 78 del 2010 e dell'art. 3, comma 2,
del d.l. n. 79 del 1997, che stabiliscono, rispettivamente, il
pagamento rateale in tre importi annuali e la liquidazione del primo
importo annuale non prima del decorso di ventiquattro mesi dalla
cessazione del rapporto di lavoro.
4.- Alla luce di tali precisazioni, devono essere
conseguentemente dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza,
le questioni di legittimita' costituzionale che vertono sull'art. 3,
comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, nella parte in cui individua un
termine di dodici mesi per la liquidazione dei trattamenti di fine
servizio nelle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro per
raggiungimento dei limiti di eta' o di servizio o per collocamento a
riposo d'ufficio a causa del raggiungimento dell'anzianita' massima
di servizio. Tale previsione non e' applicabile al giudizio
principale, rientrante invece nella autonoma disciplina che, per la
liquidazione, contempla il termine di ventiquattro mesi dalla
cessazione del rapporto di lavoro.
Quanto all'art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, pur
provvisto di portata generale e caratterizzato da previsioni tra loro
concatenate di soglie crescenti, non puo' che essere scrutinato dalla
peculiare angolazione che rileva nel giudizio principale.
Devono essere dunque dichiarate inammissibili, per difetto di
rilevanza, anche le questioni di legittimita' costituzionale della
normativa sul pagamento rateale delle indennita' spettanti a seguito
della cessazione dall'impiego, nella parte in cui si applica alle
ipotesi - estranee alla cognizione del rimettente - di cessazione del
rapporto di lavoro per raggiungimento dei limiti di eta' o di
servizio o per collocamento a riposo d'ufficio a causa del
raggiungimento dell'anzianita' massima di servizio.
Lo scrutinio di costituzionalita' e' dunque circoscritto alle
disposizioni dell'art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997,
riguardanti il termine di liquidazione di ventiquattro mesi, e alla
speculare disciplina del pagamento rateale dei trattamenti di fine
servizio (art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010), che si applica
in tale specifica ipotesi.
5.- Le questioni, cosi' delimitate, non sono fondate, in
relazione a tutti i profili che il rimettente ha prospettato.
6.- Il giudice a quo denuncia, in primo luogo, un'arbitraria
disparita' di trattamento tra il settore pubblico e il settore
privato, quanto ai tempi di liquidazione delle indennita' di fine
rapporto.
La censura non e' fondata.
Per costante giurisprudenza di questa Corte - ricordata dallo
stesso giudice rimettente - il lavoro pubblico e il lavoro privato
«non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120
del 2012 e n. 146 del 2008) e le differenze, pur attenuate,
permangono anche in seguito all'estensione della contrattazione
collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni» (sentenza n. 178 del 2015, punto 9.2. del
Considerato in diritto).
Il lavoro pubblico rappresenta un aggregato rilevante della spesa
di parte corrente, che, proprio per questo, incide sul generale
equilibrio tra entrate e spese del bilancio statale (art. 81 Cost.).
L'esigenza di esercitare un prudente controllo sulla spesa,
connaturata all'intera disciplina del rapporto di lavoro pubblico ed
estranea all'ambito del lavoro privato, preclude il raffronto che il
rimettente prospetta.
Con riferimento alla liquidazione delle somme dovute, lo stesso
giudice a quo, nell'accogliere nei limiti indicati le eccezioni di
illegittimita' costituzionale formulate dalla parte ricorrente, non
propone un'integrale equiparazione delle indennita' di fine rapporto
vigenti nei settori pubblico e privato, ma prefigura il ripristino
del termine di novanta giorni, stabilito per l'effettiva erogazione
dell'indennita' di buonuscita dall'art. 26, terzo comma, del decreto
del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032
(Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni
previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato),
cosi' come modificato dall'art. 7 della legge 20 marzo 1980, n. 75
(Proroga del termine previsto dall'articolo 1 della legge 6 dicembre
1979, n. 610, in materia di trattamento economico del personale
civile e militare dello Stato in servizio ed in quiescenza; norme in
materia di computo della tredicesima mensilita' e di riliquidazione
dell'indennita' di buonuscita e norme di interpretazione e di
attuazione dell'articolo 6 della legge 29 aprile 1976, n. 177, sul
trasferimento degli assegni vitalizi al Fondo sociale e riapertura
dei termini per la opzione).
Anche il rimettente, dunque, nell'evocare la pregressa disciplina
sui termini di erogazione delle indennita' di buonuscita, mostra di
riconoscere la peculiarita' del regime applicabile in tale materia al
settore pubblico, in considerazione della preminente esigenza di
ordinata e trasparente programmazione nell'impiego delle limitate
risorse disponibili. Tanto basta per rendere ragione delle differenze
censurate e per escludere la denunciata violazione dell'art. 3 Cost.
sotto il profilo della dedotta disparita' di trattamento.
7.- Il secondo nucleo di censure, formulate con riferimento agli
artt. 3 e 36 Cost., riguarda l'intrinseca irragionevolezza dei
termini relativi alla liquidazione, che pregiudicherebbero il diritto
del dipendente pubblico di percepire una retribuzione differita
proporzionata alla quantita' e qualita' del lavoro prestato.
In considerazione della finalita' unitaria che ispira le
disposizioni denunciate e del legame inscindibile che intercorre tra
le censure di irragionevolezza e quelle di lesione della
proporzionalita' e dell'adeguatezza della retribuzione differita,
esse devono essere esaminate congiuntamente. Tali censure non sono
fondate.
7.1.- Le indennita' di fine rapporto, pur nella differente
configurazione che hanno assunto nel volgere degli anni, si
atteggiano come «una categoria unitaria connotata da identita' di
natura e funzione e dalla generale applicazione a qualunque tipo di
rapporto di lavoro subordinato e a qualunque ipotesi di cessazione
del medesimo» (sentenza n. 243 del 1993, punto 5. del Considerato in
diritto).
L'evoluzione normativa, «stimolata dalla giurisprudenza
costituzionale» (sentenza n. 243 del 1993, punto 4. del Considerato
in diritto), ha ricondotto le indennita' di fine rapporto erogate nel
settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con
concorrente funzione previdenziale, nell'ambito di un percorso di
tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato
dall'art. 2120 del codice civile (decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999, recante «Trattamento di fine
rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti»).
Tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un
ruolo rilevante dell'autonomia collettiva (sentenza n. 213 del 2018),
rispecchia la finalita' unitaria dei trattamenti di fine rapporto,
che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase
dell'uscita dalla vita lavorativa attiva.
Nel settore pubblico, le indennita' in esame presentano una
natura retributiva, avvalorata dalla correlazione della misura delle
prestazioni con la durata del servizio e con la retribuzione di
carattere continuativo percepita in costanza di rapporto. Esse
rappresentano il frutto dell'attivita' lavorativa prestata (sentenza
n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto) e
costituiscono parte integrante del patrimonio del beneficiario, che
spetta ai superstiti «nel caso di decesso del lavoratore in servizio»
(sentenza n. 243 del 1997, punto 2.3. del Considerato in diritto).
Le indennita' sono corrisposte al momento della cessazione dal
servizio allo scopo precipuo di «agevolare il superamento delle
difficolta' economiche che possono insorgere nel momento in cui viene
meno la retribuzione» (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del
Considerato in diritto). In questo si coglie la funzione
previdenziale che coesiste con la natura retributiva e rappresenta
l'autentica ragion d'essere dell'erogazione delle indennita' dopo la
cessazione del rapporto di lavoro.
7.2.- Il carattere di retribuzione differita, comune a tali
indennita', le attira nella sfera dell'art. 36 Cost., che prescrive,
per ogni forma di trattamento retributivo, la proporzionalita' alla
quantita' e alla qualita' del lavoro prestato e l'idoneita' a
garantire, in ogni caso, un'esistenza libera e dignitosa.
La garanzia costituzionale della giusta retribuzione, proprio
perche' trascende la logica meramente sinallagmatica insita nei
contratti a prestazioni corrispettive e investe gli stessi valori
fondamentali dell'esistenza umana, si sostanzia non soltanto nella
congruita' dell'ammontare concretamente corrisposto, ma anche nella
tempestivita' dell'erogazione. E' tale tempestivita' che assicura «al
lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa
attraverso il soddisfacimento delle quotidiane esigenze di vita»
(sentenza n. 82 del 2003, punto 2. del Considerato in diritto; nello
stesso senso, sentenza n. 459 del 2000, punto 7. del Considerato in
diritto).
Anche per le indennita' di fine rapporto, legate a una
particolare e piu' vulnerabile stagione dell'esistenza umana, la
garanzia costituzionale opera in tutta la pregnanza delle sue
implicazioni. La funzione previdenziale di tali trattamenti, che
sopperiscono alle molteplici necessita' del lavoratore e della
comunita' di vita cui appartiene, rischia di essere vanificata da una
liquidazione in tempi irragionevolmente protratti.
Alla stregua dei principi richiamati, occorre dunque verificare
se la disciplina dei tempi di pagamento apprestata dal legislatore
sia conforme ai canoni di proporzionalita' e di adeguatezza di cui
all'art. 36 Cost. e attui un equilibrato componimento dei
contrapposti interessi in gioco.
Il sindacato devoluto a questa Corte postula la valutazione della
globalita' del trattamento retributivo (sentenza n. 213 del 2018,
punto 8.1. del Considerato in diritto) e della complessiva disciplina
in cui esso si colloca (sentenza n. 366 del 2006, punto 3. del
Considerato in diritto) e non puo' non considerare la pluralita' di
variabili che vengono in rilievo nell'apprezzamento discrezionale del
legislatore, vincolato a «tenere conto anche delle esigenze della
finanza pubblica» (sentenza n. 91 del 2004, punto 4. del Considerato
in diritto) e di quelle di razionale programmazione nell'impiego di
risorse limitate.
8.- La disciplina del pagamento rateale e differito delle
indennita' di fine rapporto, nei limiti oggi devoluti all'esame di
questa Corte, riguarda i lavoratori che non hanno raggiunto i limiti
di eta' o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza.
Per costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza
n. 104 del 2018, punto 6.1. del Considerato in diritto), ben puo' il
legislatore «disincentivare i pensionamenti anticipati (fra le molte,
sentenza n. 416 del 1999, punto 4.1. del Considerato in diritto) e,
in pari tempo, promuovere la prosecuzione dell'attivita' lavorativa
mediante adeguati incentivi a chi rimanga in servizio e continui a
mettere a frutto la professionalita' acquisita, come questa Corte ha
avuto occasione di affermare in riferimento alla valutazione dei
particolari servizi prestati da dipendenti civili e militari dello
Stato (sentenza n. 39 del 2018, punto 4.4. del Considerato in
diritto) e in tema di coefficiente di trasformazione della
contribuzione versata, piu' elevato per chi presti servizio piu' a
lungo (sentenza n. 23 del 2017, punto 4.1. del Considerato in
diritto)».
Le scelte discrezionali adottate in tale ambito dal legislatore,
anche in un'ottica di salvaguardia della sostenibilita' del sistema
previdenziale, non possono tuttavia sacrificare in maniera
irragionevole e sproporzionata i diritti tutelati dagli artt. 36 e 38
Cost.
8.1.- Nel caso di specie, i limiti posti dai principi di
ragionevolezza e di proporzione non sono stati valicati.
Il termine di ventiquattro mesi per l'erogazione dei trattamenti
di fine servizio, nelle ipotesi diverse dal raggiungimento dei limiti
di eta' o di servizio, e' stato introdotto gia' dall'art. 1, comma
22, lettera a), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo),
convertito, con modificazioni nella legge 14 settembre 2011, n. 148.
L'intervento del legislatore travalica l'obiettivo contingente di
conseguire immediati e cospicui risparmi, puntualmente stimati dalla
relazione tecnica allegata al disegno di legge di conversione del
d.l. n. 138 del 2011, e si raccorda, in una prospettiva di piu' ampio
respiro, a una consolidata linea direttrice della legislazione, che
si ripromette di scoraggiare le cessazioni del rapporto di lavoro in
un momento antecedente al raggiungimento dei limiti di eta' o di
servizio. La misura restrittiva in esame si colloca dunque in una
congiuntura di grave emergenza economica e finanziaria, che registra
un numero cospicuo di pensionamenti in un momento anteriore al
raggiungimento dei limiti massimi di eta' o di servizio.
Nel caso oggi all'attenzione della Corte il differimento
dell'erogazione dei trattamenti di fine servizio fa riscontro a una
cessazione del rapporto di lavoro che puo' intervenire anche quando
non sia ancora maturato il diritto alla pensione. Il trattamento piu'
rigoroso si correla alla particolarita' di un rapporto di lavoro che,
per le ragioni piu' disparate, peraltro in prevalenza riconducibili a
una scelta volontaria dell'interessato, cessa anche con apprezzabile
anticipo rispetto al raggiungimento dei limiti di eta' o di servizio.
La disciplina e' graduata in funzione di tale elemento distintivo
sul presupposto che, proprio con il raggiungimento dei limiti
indicati, si manifestino in maniera piu' pressante i bisogni che le
indennita' di fine servizio mirano a soddisfare e che impongono tempi
di erogazione piu' spediti.
L'assetto delineato dal legislatore non solo e' fondato su un
presupposto non arbitrario, ma e' anche temperato da talune deroghe
per situazioni meritevoli di particolare tutela, come la «cessazione
dal servizio per inabilita' derivante o meno da causa di servizio,
nonche' per decesso del dipendente», che impone all'amministrazione
competente, entro quindici giorni dalla cessazione dal servizio, di
trasmettere la documentazione competente all'ente previdenziale,
obbligato a corrispondere il trattamento «nei tre mesi successivi
alla ricezione della documentazione» (art. 3, comma 5, del d.l. n. 79
del 1997).
Il regime di pagamento differito, analizzato nel peculiare
contesto di riferimento, nelle finalita' e nell'insieme delle
previsioni che caratterizzano la relativa disciplina, non risulta
dunque complessivamente sperequato.
8.2.- Le medesime considerazioni possono essere svolte per il
pagamento rateale delle indennita' di fine servizio, disciplinato
dall'art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010 e poi irrigidito
dall'art. 1, comma 484, lettera a), della legge n. 147 del 2013.
In questo caso l'ulteriore sacrificio imposto ai dipendenti delle
pubbliche amministrazioni discende pur sempre da una cessazione
anticipata dal servizio e nelle particolarita' di tale fattispecie,
appena passate in rassegna, rinviene la sua ragione giustificatrice.
Il meccanismo introdotto dal legislatore prevede, inoltre, una
graduale progressione delle dilazioni, via via piu' ampie con
l'incremento delle indennita', ed e' pertanto calibrato in modo da
favorire i beneficiari dei trattamenti piu' modesti e da individuare,
anche per questa via, un punto di equilibrio non irragionevole.
8.3.- La disciplina censurata, esaminata nel suo complesso e
riferita alla cessazione anticipata del rapporto di lavoro,
contempera, allo stato, in modo non irragionevole i diversi interessi
di rilievo costituzionale, con particolare attenzione a situazioni
meritevoli di essere piu' intensamente protette.
9.- Restano impregiudicate, in questa sede, le questioni di
legittimita' costituzionale della normativa che dispone il pagamento
differito e rateale delle indennita' di fine rapporto anche nelle
ipotesi di raggiungimento dei limiti di eta' e di servizio o di
collocamento a riposo d'ufficio a causa del raggiungimento
dell'anzianita' massima di servizio.
Nonostante l'estraneita' di questo tema rispetto all'odierno
scrutinio, questa Corte non puo' esimersi dal segnalare al Parlamento
l'urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti
problematici, nell'ambito di una organica revisione dell'intera
materia, peraltro indicata come indifferibile nel recente dibattito
parlamentare.
La disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di
erogazione delle prestazioni dovute alla cessazione del rapporto di
lavoro ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale
connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l'aveva
giustificata. Con particolare riferimento ai casi in cui sono
raggiunti i limiti di eta' e di servizio, la duplice funzione
retributiva e previdenziale delle indennita' di fine rapporto,
conquistate «attraverso la prestazione dell'attivita' lavorativa e
come frutto di essa» (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del
Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in contrasto
con i principi costituzionali che, nel garantire la giusta
retribuzione, anche differita, tutelano la dignita' della persona
umana.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile l'intervento spiegato dalla Federazione
Confsal-Unsa;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997,
n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica),
convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140,
nella parte in cui prevede che alla liquidazione dei trattamenti di
fine servizio, comunque denominati, l'ente erogatore provveda «nei
casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di eta'
o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per
collocamento a riposo d'ufficio a causa del raggiungimento
dell'anzianita' massima di servizio prevista dalle norme di legge o
di regolamento applicabili nell'amministrazione, decorsi dodici mesi
dalla cessazione del rapporto di lavoro», sollevate dal Tribunale
ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento
agli artt. 3 e 36 della Costituzione, con l'ordinanza indicata in
epigrafe;
3) dichiara inammissibili le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio
2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria
e di competitivita' economica), convertito, con modificazioni, nella
legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui prevede il pagamento
rateale delle indennita' spettanti a seguito di cessazione
dall'impiego «nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento
dei limiti di eta' o di servizio previsti dagli ordinamenti di
appartenenza, per collocamento a riposo d'ufficio a causa del
raggiungimento dell'anzianita' massima di servizio prevista dalle
norme di legge o di regolamento applicabili nell'amministrazione»,
sollevate dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del
lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., con l'ordinanza
indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come
convertito nella legge n. 140 del 1997, nella parte in cui prevede
che alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque
denominati, l'ente erogatore provveda «decorsi ventiquattro mesi
dalla cessazione del rapporto di lavoro», e dell'art. 12, comma 7,
del d.l. n. 78 del 2010, come convertito nella legge n. 122 del 2010,
nella parte in cui prevede il pagamento rateale delle indennita'
spettanti a seguito di cessazione dall'impiego nelle ipotesi diverse
dalla «cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di eta'
o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per
collocamento a riposo d'ufficio a causa del raggiungimento
dell'anzianita' massima di servizio prevista dalle norme di legge o
di regolamento applicabili nell'amministrazione», sollevate dal
Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in
riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., con l'ordinanza indicata in
epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 17 aprile 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 giugno 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
