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IL VARIARE STORICO NELL’INTERPRETAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI.

TRA PANDEMIE E POLITEIA.

Sergio Benedetto Sabetta

Con la pandemia del 2020 si è manifestato un grosso conflitto, sia sulla qualità legislativa e la sua chiarezza di lettura che sugli obiettivi che si intendeva raggiungere attraverso il diluvio legislativo.

Evitando l’applicazione del Testo unico delle leggi di Pubblica sicurezza (Tulps) che in caso di grandi calamità naturali o umane affidano al ministro dell’Interno, sentito il capo del governo, il potere di dichiarare lo stato di pericolo pubblico (Titolo IX) se si temono gravi disordini, e conseguentemente il potere di emanare ordinanze “anche in deroga alle leggi vigenti, sulle materie che abbiano comunque attinenza all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica” (art. 216).

Il successivo art. 217 prevede la possibilità di estendere all’autorità militare la facoltà di emanare ordinanze a tutela dell’ordine pubblico, in presenza di fatti non più governabili dalle normali Forze di polizia.

Non attribuendo la pandemia ad una volontà umana, ma considerandola quale evento del tutto naturale, si è evitata la militarizzazione del territorio e si è fatto ricorso al codice della Protezione civile, con gestione affidata a Palazzo Chigi, essendo la Protezione civile un suo dipartimento (D. Lgs. 1/2018).

Con delibera del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’art. 24, pubblicata sulla G.U. del 1 febbraio, si dichiarava lo stato di emergenza nazionale con potere di emanare ordinanze “in deroga a ogni disposizione vigente e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico”, entro precisi limiti di oggetto e di costo, per contenere i contagi.

Si succedettero una serie di decreti legge a partire dal n. 6/2020, definiti non sufficientemente precisi nel linguaggio e piuttosto indefiniti nell’attribuzione di gravi poteri di limitazione dei diritti costituzionali, in cui la compressione dei diritti costituzionali avvenivano mediante atti secondari e non con atti aventi forza di legge, a cui si cercò di porre rimedio con il D. L. n. 19/2020 che nell’abrogare in gran parte il precedente decreto legge ne salvava comunque i provvedimenti (Zaccagnini, Facciamolo strano, le illeggibili leggi dell’Italia virata, 287-294, e Dottori, L’Italia alla prova dello Stato d’eccezione, 277-286, in Limes, Rivista italiana di geopolitica, 4/2020).

D’altronde non può nascondersi il conflitto innestato dai negazionisti che considerano il Covid 19 solo quale una polmonite più forte, ma non tale da richiedere il blocco totale del paese, suggerendo per tale via una voluta compressione delle libertà, progetto per un nuovo Stato totalitario informatizzato.

Una posizione estrema, ma che tuttavia mostra bene le problematiche e i conflitti che si sono innestati.

La ha evidenziato il conflitto economico in atto, aumentandone la portata ed accelerandone gli effetti, un conflitto tanto esterno tra Stati che interno all’Italia, in cui la comunicazione diviene arma.

Con la scusa di adeguare la Nazione alla modernità, gli effetti delle chiusure imposte è stato risolto nell’accelerare lo spostamento dell’asse economico verso le nuove realtà informatizzate, tuttavia per il momento vi è stata una crescita della disoccupazione a fronte della creazione di poche decine di migliaia di posti, rinforzate dalle classiche assunzioni nella P.A. quale stanza compensativa.

Tutto questo in presenza di uno Stato istituzionalmente debole e frammentato, come dimostrato nei mesi di pandemia quando si sovrapponevano e si scontravano le varie autorità, senza che vi fosse un vero collante che accrescesse la nostra credibilità in ambito internazionale (Follini, Da noi lo Stato non funziona senza i partiti, 307, in Limes, Il Vincolo interno, 4/2020), con riforme costituzionali frutto di conflitti e accordi sotto traccia, ma non con una visione concordataria.

In tutto questo una serie di atti internazionali di natura imperativa o solo propositiva, tra i quali la Carta delle Nazioni Unite del 1945, la Dichiarazione Universale del 1948, la Proclamazione della Conferenza internazionale di Teheran sui diritti umani del 1968, la Dichiarazione ONU sul progresso e lo sviluppo sociale del 1969 e il Patto sui diritti civili e politici del 1966, nonché le varie convenzioni del 1948, del 1954, del 1957, del 1960 e del 1965 sullo status di rifugiati, sugli apolidi, sulle discriminazioni razziali e nel campo dell’insegnamento, riconosce e allarga i diritti degli individui.

Vi è tuttavia un problema di scontro di libertà come evidenziato dalla Corte di Strasburgo con sentenza del 20/9/1994, in cui la libertà religiosa, garantita dall’art. 9 della Convenzione europea, viene a interferire con la libertà di espressione, di cui all’art. 10, dove la manifestazione del pensiero può diventare vilipendio del sentimento religioso (Caso Otto Preminger – Institute).

I diritti sono letti con il prisma della cultura, ognuno sottolinea quella parte che è espressione del proprio contesto culturale, fino all’eccesso e al possibile arbitrio, ecco intervenire sia la necessità di una rielaborazione culturale che conduca, attraverso un’osmosi, ed una lettura tendenzialmente complementare, ma anche la durezza legislativa che società multimediali hanno quale proprio collante nell’immediato, essendo il processo di adattamento culturale piuttosto lungo e sempre sottoposto al rischio di devianze rispetto all’originale matrice culturale su cui si è costituito e si regge lo Stato e la Nazione, sia all’interno che nel raffronto esterno.

Si può quindi benissimo osservare che i diritti variano nella loro interpretazione a seconda del contesto storico in cui vengono calati, una osservazione banale che tuttavia spesso sfugge all’interprete.

Ne è un esempio la difficoltà incontrata nell’U.E. dall’interpretazione del diritto alla libertà religiosa, una delle varie forme di libertà in cui si esplica l’azione umana e rientrante nei diritti fondamentali dell’uomo proclamati fin dal Settecento.

L’incontro di molti fattori, dalla crescita della tecnologia alla mobilità che mescola le carte, fa sì che vengano meno i confini nazionali delle confessioni religiose (Kurtz) e il loro naturale essere fonte di identità, si cerca quindi spesso di fronte allo sfaldarsi di cementare nuovamente l’identità con il richiamo alla religione quale cultura comune.

Il fattore religioso diventa pertanto uno degli elementi fondamentali delle crisi che agitano il mondo (Huntington), con un ritorno in Occidente a tempi precedenti all’Illuminismo settecentesco (Bertrand).

La stessa capacità normativa dell’U.E. trova talvolta un limite negli ordinamenti giuridici di natura religiosa, rientranti negli ordinamenti giuridici statuali di alcuni paese membri e difesi dalle loro Costituzioni.

Le confessioni religiose per alcuni Stati sono corporazioni pubbliche, per altri associazioni di diritto privato speciale o generale, infine in altri casi sono incorporate nelle stesse strutture dello Stato.

Senza passare per il caso della religione islamica e del correlato diritto, richiamati in alcuni casi mediante il meccanismo del rinvio, basti pensare nella religione cristiana al caso della Politeia ortodossa del Monte Athos, la cui speciale autonomia, già riconosciuta dalla Costituzione greca (art. 108), è stata confermata nell’U.E. da una Dichiarazione comune dei paesi membri della Comunità europea.

La Dichiarazione non crea obblighi strettamente giuridici ma obbliga politicamente, impegnando istituzioni e Stati membri dell’Unione a considerare tale peculiarità nell’applicazione delle regole comunitarie.

La Politeia è una comunità costituita da 20 monasteri che si autogovernano attraverso un consiglio (Santa Comunità), composto dai rappresentanti dei singoli monasteri, mentre l’intero territorio della Sacra Montagna, autonomo e con potere di autogoverno, fa parte dello Stato ellenico, ma con giurisdizione spirituale del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli (Istanbul).

Nel suo territorio di circa 336 Kmq. è vietata l’installazione di eterodossi o scismatici contro il principio di libera circolazione dei cittadini dell’Unione, la presenza di donne contro il principio di eguaglianza, è vietata la costituzione di associazioni contro il principio di libera associazione, proibisce qualsiasi tipo di propaganda contro la libertà di pensiero, vieta qualsiasi attività commerciale se non finalizzata ai beni necessari ai monaci contro il principio della libera iniziativa commerciale e, infine, occorre una speciale autorizzazione per l’eventuale visita da parte di estranei.

Una serie di trattati tutelano le sue peculiarità: il Trattato di Santo Stefano (art. 22) e il Trattato di Berlino (art. 62) del 1878, i Trattati di Bucarest, Londra e Atene del 1913, il Protocollo di Londra del 1913, il Trattato di Neully del 1919 e quello di Sevres del 1920, il Trattato di Losanna del 1923 e la serie di Costituzioni greche dal 1927 in avanti.

Lo stesso concetto di diritto di libertà è usato da nuove istanze religiose, estranee al dibattito della cultura occidentale, quale scudo per proporre visioni restrittive e richiedere l’estraneità del proprio gruppo da una interpretazione tollerante dei rapporti sociali.

D’altronde già nel ‘900 le dittature erano nate da regimi democratici, nel momento in cui il contesto storico attraverso una serie di crisi aveva fatto prevalere altre urgenze immediate di sicurezza e sopravvivenza.

Altro caso tipico è l’interpretazione della Costituzione e dei diritti in essa contenuti che in Italia, le necessità del contrapporsi ideologico nella Guerra Fredda e la predominanza politica della corrente cattolica espressa dalla Democrazia Cristiana, determinò nella sua lettura, fino al suo superamento da parte della Corte Costituzionale tra gli anni 80/90 del superamento dei blocchi e della nuova ideologia economicista neo-liberale proveniente dagli USA.

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