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RIMEDI GIUDIZIALI A TUTELA DEI DIRITTI LESI DA COMPORTAMENTI INQUINATORI. LEGITTIMAZIONE, REQUISITI ED ONERE DELLA PROVA. LA NOVITÀ INTRODOTTA DALL’ART. 840 BIS C.P.C.

Luciana MICCOLI, Ciro TRIVISANI, Gualtiero DE FILIPPIS

Sommario: 1. Introduzione; 2. Legittimazione e requisiti nella nuova azione di classe: luci ed ombre; 3. Epistemologia della prova: il titolo VIII-bis del libro IV e le novità dell’articolo 840 quinquies c.p.c.; 4. Conclusioni.

Abstract

La class action recentemente introdotta nel nostro ordinamento rappresenta uno strumento giuridico in grado di garantire una effettiva “tutela collettiva” o, comunque, idoneo a porsi quale valida alternativa agli strumenti processali “tradizionali” contro comportamenti lesivi del bene “ambiente”, inteso nella sua accezione piu’ ampia ? Il quesito appena posto, agli albori della novella del 2019, è certamente di non agevole soluzione, in ragione di una pluralità di profili problematici emergenti da una sia pur sommaria disamina degli aspetti salienti del nuovo istituto, di cui sarà dato conto nel presente elaborato. Agli operatori del diritto sarà rimesso l’arduo, se non impossibile, compito di superare ogni ostacolo con il pragmatismo e la competenza che da sempre connotano il loro agire anche in funzione di stimolo e di pungolo per il Legislatore italiano in prospettiva de iure condendo.

Is the class action, recently introduced in our legal system, a judicial tool capable of guaranteeing effective “collective protection” or, in any case, suitable for being a valid alternative to “traditional” procedural instruments against behaviors harmful to the environment, understood in its broadest sense? The question just formulated, at the down of the 2019 reform, is certainly difficult, due to a plurality of problems emerging from a brief examination of the salient aspects of the new institute, which will be discussed in this paper. Legal practitioners will be entrusted with the arduous, if not impossible, task of overcoming every obstacle through the pragmatism and competence that have always animated their action also as a motivation for the italian Legislator in a “de iure condendo” outlook.

1. Introduzione.

La salvaguardia dell’ambiente e la necessità di contrastare efficacemente, sia in chiave preventiva che in funzione repressiva e risarcitorio/ripristinatoria, comportamenti “inquinatori” in grado di ledere i diritti patrimoniali e non patrimoniali dei consociati, è ormai da diversi anni al centro del dibattito sia nazionale che internazionale. Anche il Legislatore italiano, alla luce della inadeguatezza/insufficienza dei rimedi giudiziali “classici” a tutelare in modo efficace ed incisivo la pletora di interessi giuridicamente rilevanti, specie se super-individuali, suscettibili di essere lesi da condotte imprenditoriali illecite e munite di carattere plurioffensivo, ha intrapreso un tortuoso percorso di “riassetto organico” di interi comparti del diritto penale e di “modernizzazione” e “rimodulazione in senso espansivo” di strumenti processual-civilistici, già esistenti nel nostro ordinamento.

Da un lato, in ambito penale, è stato valorizzato, a partire dall’entrata in vigore del TUA e di poi con l’introduzione nel vigente c.p di un autonomo capo dedicato ai delitti contro l’ambiente1, un approccio di tipo rimediale, espressione di un’idea di giustizia riparativa, incline a favorire e ad agevolare il ripristino dello status quo ante a cura del trasgressore senza oneri per lo Stato e per la collettività. Alla logica squisitamente punitiva si è gradualmente affiancata, in questo specifico settore, una marcata tendenza tesa ad incentivare forme di “cooperazione” da parte del responsabile del comportamento antigiuridico con ricadute premiali significative. Basti pensare, a tale riguardo, alla causa di non punibilità contemplata dall’art 257, co. 4 del d.lgs 152/2006 e alla peculiare procedura di estinzione delle fattispecie contravvenzionali disciplinata dagli artt. 318 bis e ss del TUA. L’effettività della tutela penale e la salvaguardia degli interessi della collettività scalfiti da condotte lesive dell’ambiente, inteso in senso ampio, è garantita inoltre da previsioni come quelle di cui all’art 452-duodecies c.p ed agli artt. 452 decies e 452 undecies, comma IV c.p., nell’ambito delle quali l’attività di bonifica, messa in sicurezza e ripristino dei siti inquinati assurge rispettivamente al rango di sanzione comminabile in caso di sentenza di condanna o di patteggiamento, di circostanza attenuante ad effetto speciale e a causa di esclusione della confisca. Siffatte incisive innovazioni, la cui operatività è rimessa all’iniziativa degli Uffici di Procura e ai poteri ufficiosi delle A.G. procedenti, configurano una serie di rimedi giudiziali ben piu’ pregnanti rispetto alla sterile tutela risarcitoria astrattamente garantita dalla costituzione di parte civile dei danneggiati da reato, costituzione che spesso, a causa della eccessiva lunghezza dei relativi procedimenti penali, dell’emissione di pronunce di condanna generiche al risarcimento, prive di provvisionale, o della scelta di riti alternativi effettuata dagli imputati (in primis, l’applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi degli artt. 444 e ss del c.p.p.), vede frustrata e vanificata la propria ragion d’essere e la propria genuina funzione.

D’altro lato, in ambito civile, agli ordinari rimedi giudiziali esperibili in prospettiva inibitoria ai sensi dell’art 844 cod. civ. ovvero ai sensi dell’art 700 c.p.p ed in ottica risarcitoria post damnum, facendo leva sugli artt. 2043, 2050, 2051 e 2059 cod. civ. attraverso il ricorso ai tradizionali schemi processuali è stato recentemente affiancato altro istituto regolamentato dagli artt. 840 bis e ss del cpc, all’interno del nuovo titolo VIII bis dedicato ai “procedimenti collettivi”, introdotto con legge n. 31 del 2019 ed entrato in vigore solo in data 19 maggio 2021. Trattasi della c.d. class action che, già mutuata dall’esperienza giuridica dei Paesi di common law e normata per la prima volta in Italia in seno all’art 140 bis del decreto legislativo n. 206/2005, è stata da ultimo “svincolata” ed affrancata dal codice del Consumo, facendo ingresso nel vigente codice di rito civile, previo ampliamento del suo ambito applicativo, arricchimento di contenuti e ridefinizione di alcuni aspetti caratterizzanti la previgente disciplina2. Orbene, la citata azione di classe, esercitabile esclusivamente in un momento successivo al verificarsi di un danno di qualsiasi natura arrecato a diritti individuali ed omogenei3 ed ascrivibile ad atti e/o comportamenti posti in essere da imprese ed enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità nell’esercizio delle rispettive attività, prefigura un modello “alternativo” di tutela rispetto a quello individuale, un modello in grado di agevolare la trattazione unitaria e concentrata del tema della responsabilità dei soggetti autori dell’illecito e di consentire ai singoli di godere di un meccanismo di liquidazione altrettanto unitario4. Si è in presenza di un strumento, nato con il dichiarato fine di promuovere l’economia processuale, scongiurando il proliferare di giudizi seriali, e di garantire un piu’ agevole e meno oneroso accesso alla Giustizia in presenza di micro-pregiudizi, al quale non può non riconoscersi, quanto meno in linea astratta, una ulteriore funzione general-preventiva di deterrenza alle condotte contra ius su larga scala ed una consequenziale capacità di generare “esternalità positive”5 anche a beneficio dei non appartenenti al “gruppo” dei danneggiati.

Tanto premesso ed illustrato a grandi linee, l’obiettivo del presente elaborato, che nei paragrafi successivi si concentrerà in maniera sintetica sui principali profili problematici relativi alla legittimazione e ai requisiti contenutistici di ammissibilità del ricorso ex art 840 bis c.p.c ed in maniera altrettanto concisa affronterà le questioni salienti attinenti alla conformazione dell’attività istruttoria e dell’onere della prova nell’ambito del nuovo istituto, è quello di tentare di dare risposta ad alcuni interrogativi di non trascurabile portata circa le concrete potenzialità operative dell’azione di classe, nel suo attuale assetto, ed in ordine all’effettiva possibilità per quest’ultima di assurgere, di qui a breve, al rango di reale “mezzo di tutela collettiva”, così come prefigurato dal Legislatore. Si è al cospetto di uno schema processuale compatibile con il diritto di difesa, costituzionalmente garantito in maniera “assoluta” ed incondizionata in seno all’art 24 della Costituzione? Il nuovo procedimento collettivo, in ragione della sua intrinseca strutturazione, è in grado di assicurare una partecipazione ampia, diffusa ed incisiva al contraddittorio da parte delle persone lese anche per il tramite di un’attività istruttoria ispirata a criteri di snellezza, efficacia ed economicità? Si è in presenza di un rimedio giudiziale presidiato da incentivi concreti ed apprezzabili alla sua proposizione, soprattutto da parte di soggetti diversi dagli enti esponenziali accreditati ed iscritti in apposito elenco pubblico tenuto presso il Ministero della Giustizia? A siffatti interrogativi si cercherà di fornire riscontro all’esito del breve excursus innanzi anticipato e delineato nei suoi tratti essenziali, nella piena consapevolezza che la materia in esame è ancora troppo fluida e che non esistono, ancora ed al momento, precedenti giudiziari idonei a porsi quali adeguati e attendibili parametri di riferimento anche alla luce del significativo differimento temporale dell’entrata a regime della novella introdotta dalla già menzionata legge n. 31/2019. L’unico punto fermo, ad oggi, è quello rappresentato dal sostanziale e fragoroso fallimento dell’omologo e “meno ambizioso” modello delineato dall’art. 140 bis del Codice del Consumo.

A tale dato oggettivo, suscettibile di trovare immediato e diretto riscontro nelle statistiche ufficiali, va ancorato un ulteriore rilievo altrettanto meritevole di attenzione e di doverosa riflessione anche in prospettiva de iure condendo. Le c.d “damages class actions” ovvero il prototipo delle “declaratory judgments and injunctions” di cui alla Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure degli Stati Uniti d’America6, alle quali si è palesemente ispirata la recente riforma del c.p.c., sono, infatti, emanazione tipica di un contesto socio-culturale e di un ordinamento giudiziario ben differente da quello italiano e si configurano come genuina espressione di una tradizione giuridica ispirata a criteri punitivi e non solo compensativo-reintegratori nel comparto della responsabilità extra-contrattuale, costituendo una poderosa ed efficientissima arma nella disponibilità di una classe forense, la cui attività è organizzata, strutturata e gestita secondo logiche sostanzialmente ancora estranee alla realtà del nostro Paese e di dubbia compatibilità con più di un principio-cardine posto a fondamento del vigente Codice deontologico e con più di una disposizione contenuta nella legge n. 247/2012.

2. Legittimazione e requisiti nella nuova azione di classe: luci ed ombre.

La principale e piu’ significativa novità introdotta dal Legislatore nel 2019, come già anticipato nel paragrafo introduttivo, si è estrinsecata nell’ampliamento dell’ambito applicativo dello strumento di tutela collettiva disciplinato dagli art 840 bis e ss del codice di rito civile. A quest’ultimo è stata riconosciuta una portata generale, non più circoscritta e limitata alle sole ipotesi tassativamente indicate a salvaguardia delle prerogative del consumatore e dell’utente in seno all’art. 140 bis cod. cons., ma rivolta alla tutela di tutte le vittime di danni causati da un comune fatto costitutivo, aprendosi, sotto il profilo operativo, al delicato comparto della responsabilità da inquinamento ambientale, tipicamente caratterizzata da illeciti plurioffensivi destinati a riverberare i propri deleteri effetti sui diritti, sia patrimoniali che non patrimoniali, di una pluralità di soggetti e/o, addirittura, di intere comunità. Unico requisito previsto dalla novellata normativa per la identificazione di una “classe” è quello costituito dalla omogeneità dei diritti individuali oggetto di lesione. Trattasi di requisito che non è stato in alcun modo definito dal legislatore ed il cui contenuto va dunque ricostruito, attingendo al contributo della migliore dottrina7 e della giurisprudenza prevalente8, secondo le quali devono reputarsi omogenei soltanto quei diritti al risarcimento del danno o alle restituzioni, non necessariamente uguali, ma per i quali vi sia identità di causa petendi, ovvero che derivino da uno stesso fatto illecito imputabile al medesimo autore. Nonostante gli apprezzabili sforzi alla base della riforma, sono comunque ravvisabili criticità conclamate, e persino latenti -e pertanto più pericolose- che finiscono per mettere a rischio la possibilità di attivare, in ossequio all’assolutezza del diritto di difesa, il nuovo rimedio giudiziale di “massa”. Se un punto di forza dell’art. 840 bis cpc è rinvenibile nell’attribuzione ad associazioni ed organizzazioni senza scopo di lucro della piena legittimazione ad agire, svincolata dal mandato conferito dal singolo danneggiato – contrariamente a quanto previsto nell’azione di classe di cui all’art. 140 bis cod. cons., criticità, invece, sorgono in merito sia ai requisiti9 che associazioni ed organizzazioni devono possedere che al doppio filtro valutativo del tribunale. Nel nuovo strumento si rileva, infatti, l’eliminazione di ogni riferimento al rapporto di mandato tra l’iscritto e l’associazione di appartenenza, novità che pare configurare gli estremi di una legittimazione ad agire iure proprio, la quale si aggiunge a quella del danneggiato, senza tuttavia precludere né l’azione individuale in un giudizio ordinario di cognizione, né l’azione collettiva. Tuttavia, questo vantaggio viene affievolito da una serie di profili problematici di non poco conto. In merito ai requisiti, si rileva che, sebbene nel riferimento ad associazioni e a non meglio identificate organizzazioni, sia compreso un ampio ventaglio di soggetti che prelude ad un ampliamento della platea dei legittimati ad agire, questo tuttavia trova il limite nell’espressa previsione dell’iscrizione di tali enti in apposito elenco ministeriale, elenco che sostituisce la precedente verifica di rappresentatività dell’ente che spettava al giudice a sensi dell’abrogato art. 140 bis cod. cons. Dal novero di tali associazioni ed organizzazioni è scomparso il riferimento esplicito ai comitati, riferimento contenuto nel previgente art. 140 bis del cod. cons. e che sembrerebbe giustificato dal richiamo alla disciplina del terzo settore10. Anche se il motivo è ascrivibile ai principi contenuti nell’art. 196 ter disp. att. cpc, in ragione dei quali non può non dubitarsi che ai comitati, in qualità di enti sorti per uno specifico e concreto obiettivo di tutela, possano essere generalmente riconosciuti i requisiti di stabilità e continuità delle attività, di contro, si palesano e restano irrisolti i dubbi di legittimità costituzionale, in quanto l’esclusione del comitato si pone in aperta e palese violazione dei principi solennemente sanciti negli artt. 3 e 24 della Costituzione. Simili considerazioni sono state formulate e sono formulabili anche in merito alle difficoltà incontrate dalla giurisprudenza11 nell’ammettere la legittimazione dei sindacati, atteso che, anche ai sindacati sembra difficile continuare a negare l’accesso agli strumenti processuali più innovativi senza violare gli articoli 3, 24 e 39 della Costituzione. Infatti, se in prima battuta era prevedibile aspettarsi che tra le associazioni abilitate a promuovere le azioni di classe potessero essere ricomprese quelle sindacali, di fatto ci si imbatte nell’esclusione di queste ultime, attuata non più tardi di qualche mese fa, dal regolamento ministeriale adottato con DM 17 febbraio 2022 n. 27 del Ministero della Giustizia. Questa clamorosa esclusione, a parere degli scriventi, non ha fatto altro che inibire le consistenti potenzialità del sindacato nella promozione di concrete ed incisive azioni di politica giudiziaria a carattere collettivo, indebolendo la forza dello stesso strumento di tutela “di massa” proprio in campo ambientale e proprio contro comportamenti inquinatori posti in essere dai più grandi e potenti poli industriali. Sembra, del resto, di essere in presenza di un vero e proprio paradosso: da un lato si è operato un formale ampliamento del novero dei soggetti legittimati ad esperire l’azione di classe; dall’altro sono state, prima facie, private della relativa legittimazione attiva una serie di “aggregazioni civiche di peso” in violazione di più di un articolo della Carta Costituzionale. Con specifico riguardo, poi, al c.d doppio filtro, non si può sottacere che i previsti meccanismi di ammissibilità delle azioni, che fanno riferimento al preventivo vaglio discrezionale del giudice, hanno in sé la potenzialità di vanificare gli sforzi per una maggiore tutela collettiva nei confronti del danno ambientale, laddove l’operato dell’autorità Giudiziaria procedente dovesse essere ispirato a criteri restrittivi e particolarmente stringenti. Infatti, la scelta del legislatore di ripristinare il filtro valutativo sulla qualità dell’attore collettivo, ossia del singolo soggetto titolare di diritti omogenei, denota l’esigenza di assicurare una concreta tutela giurisdizionale. La stessa finalità si ravvisa nel riconoscimento della legittimazione ad agire soltanto agli enti in possesso dei requisiti organizzativi qualificanti per ancorare la legittimazione alla capacità di condurre l’azione con ampie prospettive di successo e incentivare, conseguentemente, folte schiere di cittadini ad aderire alle class action. Pertanto, si evince che la verifica del giudice non dovrebbe limitarsi al controllo dei requisiti propri del ricorrente collettivo, come immediatamente presumibile e giustificabile, ma anche delle associazioni ed organizzazioni senza scopo di lucro, pur essendo le stesse già legittimate a proporre l’azione in quanto iscritte nell’elenco. Qui, la motivazione di estendere il controllo anche agli enti esponenziali risiede nella possibilità che gli stessi possano non avere adeguate capacità di curare i diritti individuali ed omogenei lesi in riferimento alla specifica situazione antigiuridica oggetto della domanda. Tuttavia, se tale circostanza è allineata al principio costituzionale previsto dagli artt. 24 e 111 della Cost. per evitare il proliferare di azioni che potrebbero essere dichiarate inammissibili, ancora una volta, mette in rilievo che l’ampliamento della platea di soggetti legittimati, di fatto, si restringe dinanzi alle specificità delle situazioni antigiuridiche oggetto della domanda. Inoltre, anche la verifica del giudice in ordine alla sussistenza di profili di conflitto di interessi del ricorrente nei confronti del resistente potrebbe rivelarsi pericolosamente “limitativa” del diritto di agire in giudizio, qualora la discrezionalità del giudice dovesse sconfinare nella valutazione più generale dei possibili conflitti di interesse del ricorrente con la proposizione dell’azione stessa, situazione che ben potrebbe verificarsi nella realtà, atteso che la legge prevede meccanismi di maggiorazione del compenso per il rappresentante e i difensori in caso di accoglimento dell’azione. Criticità latenti sono insite inoltre nella pubblicizzazione dell’azione di classe che, sebbene voluta e valorizzata dal legislatore, sia per portare a conoscenza dei consociati le iniziative intraprese dal ricorrente, offrendo la possibilità agli stessi di aderirvi in diversi momenti del processo, sia per dissuadere i grandi operatori economici da condotte illecite per il conseguente danno di immagine, di fatto potrebbe comportare effetti opposti nei casi di eventuale revoca del potere di rappresentanza in corso di processo per l’inefficacia dell’adesione o di inammissibilità della domanda pronunciata dal giudice, comportando un deciso vantaggio per gli enti responsabili delle condotte “inquinanti”. Al fine di ridurre se non azzerare il rischio di effetti distorsivi, si impone, con tutta evidenza, la necessità di comportamenti deontologicamente ispirati alla massima correttezza, diligenza e trasparenza da parte della classe forense ed un ruolo sussidiario di controllo da assegnarsi al Giudice attraverso l’adozione di eventuali provvedimenti a carattere precauzionale, che, ove assolutamente necessario, limitino potenziali strumentalizzazioni nell’applicazione dello strumento processuale e ne favoriscano un utilizzo concreto ed effettivo indirizzato a salvaguardia esclusiva degli interessi della collettività.

Un cenno a parte merita la disamina dei profili relativi alla legittimazione passiva nell’ambito dei procedimenti collettivi, la quale viene testualmente riservata alle imprese ed ai gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, in relazione a condotte poste in essere nello svolgimento delle rispettive attività. A questo riguardo, non si può non dar conto del consolidato e pacifico orientamento della dottrina che, privilegiando un’interpretazione estensiva della nozione di impresa, la fa coincidere con quella generale di professionista, includendo altresì ditte individuali, società, piccoli imprenditori commerciali e agricoli in ossequio alla ratio della legge. Di contro, un’interpretazione restrittiva configurerebbe un deciso e non giustificabile arretramento rispetto alla tutela consumeristica. Medesimi rilievi, in chiave estensiva, non possono che essere effettuati con riguardo alla nozione di gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, soggetti che non essendo precisamente definiti dal legislatore, non possono ragionevolmente coincidere con i soli concessionari dei suindicati servizi, ma devono includere anche gli enti pubblici incaricati della gestione diretta dei servizi stessi. Tanto si evidenzia brevemente e per mero dovere di completezza, in attesa che la giurisprudenza fornisca criteri il più possibile limpidi e lineari, in sede di attività ermeneutica da effettuarsi sull’art 840 bis, comma III, cpc in ordine all’identificazione della platea di potenziali destinatari delle azioni di classe nell’attuale assetto novellato nell’anno 2019.

3. Epistemologia della prova: il titolo VIII-bis del libro IV e le novità dell’articolo 840-quinquies c.p.c.

Il percorso per giungere alla verifica del thema probandum, e per trarne conseguenze giuridiche, può assumere forme assai diverse. Ogni ordinamento ha avvertito l’esigenza di dotarsi di un proprio diritto probatorio, che viene sempre posto al centro di complicate valutazioni, condizionate da fattori storici, culturali e finanche religiosi (si pensi all’ordalia). Secondo l’impostazione classica degli ordinamenti di common law, il migliore sistema probatorio per addivenire all’accertamento del thema probandum è quello in cui al giudice viene fornito il potere di utilizzare qualsiasi elemento per motivare la propria sentenza12. L’affermazione risulta coerente con quei sistemi che, pur con qualche correttivo, forniscono al giudice l’enorme potere di creare il precedente vincolante. Nei sistemi di civil law, o meglio di Roman Civil Law, o pandettistici, come si definiscono quelli discendenti dal diritto romano, il giudice sottostà alla Legge ed è vincolato al rispetto del contenuto delle prove legali. Nei sistemi misti, come quello italiano, il giudice conserva la facoltà di motivare la propria sentenza utilizzando anche altri mezzi di prova, tutti però subordinati gerarchicamente alla prova legale, nel rispetto del principio del libero convincimento secondo il proprio prudente apprezzamento, come sancito in seno all’art. 116 del codice di procedura civile.13 La polemica che storicamente è scaturita dalla preferenza per un sistema piuttosto che per l’altro è fondamentalmente legata alla gnoseologia della prova. Da una parte c’è chi sostiene che quella del giudice è la stessa operazione che affronta lo storico nel ricostruire i fatti oggetto della sua ricerca e che, per raggiungere un rigoroso risultato scientifico, universalmente accettato, tale ricerca deve essere la più libera possibile, aperta ad ogni possibile esperienza. Dall’altra c’è chi, al contrario, afferma che ci sono “ristrette barriere” che differenziano l’indagine del giudice da quella dello storico14. La gerarchia delle prove – e l’obbligo del giudice di sottostare al contenuto di quelle legali – si pone come strumento irrinunciabile per evitare prassi giudiziarie autoritarie ed eccessivamente creative. In risposta poi a chi ha accusato questi teorici di essere eccessivamente diffidenti nei confronti dei giudici e delle prove empiriche si è autorevolmente sostenuto che la disciplina legale della prova non è stata mai informata all’arbitrio e non è più informata al pregiudizio, bensì viene costituita secondo lo scopo di ottenere la conoscenza dei fatti controversi per la via più rapida e sicura15. Un’opinione moderna e molto più concreta appare essere quella di chi, in ragione dell’esigenza di correre alla stessa velocità della società e delle sue evoluzioni socio-economico-scientifiche, vede nelle norme di prova legale un residuo storico di sistemi obsoleti, che avevano dominato gli ordinamenti europei sino alla metà del XVIII secolo e che andrebbero oggi espunte, salvo ipotesi del tutto peculiari e marginali16. Non si può certo affermare che i paesi più industrializzati abbiano prestato particolare attenzione al tema dell’utilizzo di mezzi di accertamento empirici. Solo per citare un esempio, la Commissione Europea sulla Cooperazione Giudiziaria del Consiglio d’Europa ha adottato il 30.01.2019 la famosa “Guidelines On Elettronic Evidence in Civil and Administrative Proceedings”17, ignorata dalla maggior parte degli ordinamenti interni. Vi si indica la necessità di introdurre nei processi le c.d. prove elettroniche, che ormai riguardano ogni aspetto della vita del cittadino moderno. Si pensi ai pagamenti elettronici attraverso le App messe a disposizione dalle banche, alle e-mail, agli SMS, alla messaggistica di WhatsApp, ai file video e audio, alle webpages, agli screenshot, al GPS, alle informazioni ricavabili dagli ID digitali e, in generale alla dematerializzazione dei documenti. Tuttavia, conquiste ve ne sono state, anche in Italia. Un esempio è quello rappresentato dal già citato decreto legislativo n. 206 del 2005 che ha introdotto per la prima volta l’azione di classe nell’ambito del codice dei consumatori, poi ampliata e riformata con l‘introduzione del nuovo titolo VIII-bis del libro quarto del codice di procedura civile. Vero è che il primo progetto di questa ultima legge reca la data del 9 luglio 2013 e che la sua effettiva entrata in vigore si è avuta solo otto anni dopo, ma è notorio che il legislatore italiano, pur animato dalle migliori intenzioni, sconta storicamente gli effetti della instabilità dei propri governi e deve fare i conti con la diffusa tendenza a dare priorità ad altri temi. Resta da capire se, sul piano dell’indagine cui è chiamata a operare la prova (in senso epistemologico, appunto), lo strumento introdotto con tanta fatica nel codice di procedura civile sia efficace, specialmente nei casi di danno ambientale diffuso, ambito che interessa purtroppo sempre più spesso il giurista moderno. Accettando il rischio di apparire prosaici, l’attività “sul campo” riferisce di cause di risarcimento da danno ambientale diffuso in cui uno degli aspetti che più scoraggia i potenziali attori è la necessità di svolgere indagini scientifiche spesso complicate e costose da far confluire nel processo come “prova” nell’accezione indicata in precedenza. Fondamentale in questi casi è la possibilità di utilizzare con successo, ai fini delle decisioni, sia le CTU, notoriamente esposte al rischio di non essere ammesse perché qualificate come “esplorative” o giudicate inconferenti, sia mezzi empirico- tecnici consistenti nei rilievi, nelle misurazioni e negli esami di laboratorio svolti da Enti, pubblici e privati, o dal Sistema Sanitario Nazionale. Al riguardo occorre ricordare che la questione è stata ampiamente affrontata e risolta dalla Cassazione già in un’epoca in cui non erano ancora stati introdotti specifici istituti processual-civilistici come quello ultimo del 201918. In quella occasione furono fatti richiami a giurisprudenza ancora più risalente (1985) in cui già si faceva espresso richiamo al concetto di danno ambientale, e la Suprema Corte si sforzava di individuare, tra gli strumenti “in dotazione” all’epoca, quelli più idonei a tutelare i diritti dei danneggiati. Interessante il riferimento alla sanzione civile, suggestione anche questa di matrice anglo-sassone, mai veramente recepita dal nostro ordinamento.19

La normativa sull’azione di classe, quindi, si inserisce in un un contesto giurisprudenziale già favorevolmente orientato all’allargamento e all’apprezzamento di mezzi di prova empirici utilizzabili nelle cause di risarcimento del danno ambientale. Tuttavia essa ha un merito di fondo innegabile: riunendo le istanze di una molteplicità di soggetti, veicola le richieste di questi ultimi nell’ambito di uno stesso rimedio, con evidenti benefici in termini di abbattimento dei costi e di potenziamento degli strumenti processuali. E gli intenti “politici” del legislatore appaiono in tal senso chiari se si considerano disposizioni come quella inserita al comma terzo dell’art. 840-quinquies cpc, laddove è esplicitamente previsto che l’onere economico degli anticipi ai consulenti è posto sempre a carico del resistente, soggetto normalmente in posizione dominante e, pertanto, capace di dotarsi dei migliori strumenti di difesa. Ma le norme che promettono di aprire davvero nuovi scenari nel campo della prova – e dell’assolvimento del relativo onere che incombe ei qui dicit – sono quelle di cui ai commi due e quattro dello stesso articolo: il comma due perché fornisce al giudice la facoltà di procedere come meglio crede agli atti d’istruzione in corso di procedura; il comma quattro perché consente al giudice di avvalersi di dati statistici e presunzioni semplici per l’accertamento della responsabilità del resistente. Contenuti, toni e linguaggio delle formulazioni sono davvero una novità: il raffronto con quelli delineati nell’ambito dell’articolo 115 cpc, norma-principio a cui si informa tutto il “sistema”, ci restituisce il senso del trascorrere del tempo e dell’evoluzione che la storia ha impresso al diritto. Non mancheranno di certo le occasioni per il riaccendersi di polemiche e dibattiti, ma la portata del cambiamento è evidente ed è finalmente “politica”, confermata nel suo trend dalla rivoluzionaria riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione ad opera della Legge Costituzionale n. 1 dell’11 febbraio 202220

Sempre in tema di prova, l’articolo 840-quinquies cpc prevede la possibilità di ottenere dal giudice un ordine, da impartire al resistente, di esibire le prove rilevanti che rientrano nella sua disponibilità. Anche questo è un istituto nato nei sistemi di common law anglo-sassoni, ove prende il nome di “Disclosure” (letteralmente “chiarimento”), ma giuridicamente inteso nel senso di “divulgazione” o “informazione”21: su istanza motivata dell’attore il giudice ordina all’azienda convenuta di esibire gli elementi di prova in suo possesso. Tali prove devono essere rilevanti per la decisione della causa. Qualcosa di simile si era già riscontrato in Italia in seno alla disciplina nelle azioni di risarcimento dei danni antitrust. Sono previste, tuttavia, opportune garanzie per contemperare i diversi interessi del resistente, compreso il diritto dello stesso di essere sentito prima dell’ordine di “disclosure”. In commissione alcuni gruppi parlamentari avevano presentato emendamenti al fine di limitare fortemente l’applicabilità della “disclosure”, temendone un’applicazione eccessiva, in ragione, si era detto, dei costi elevati che l’esibizione può comportare per l’azienda22. Si era inoltre avanzato il dubbio che attraverso l’obbligo di esibizione si venissero a svelare informazioni sensibili in relazione a strategie commerciali o, addirittura, segreti industriali23. Il rischio appare concreto; tuttavia anche in questi casi potrà trovare applicazione il comma secondo dello stesso articolo 840-quinquies cpc che, attraverso decisioni di semplice buon senso da parte del giudice, vadano a scongiurarlo. Sarà interessante vedere che applicazione ne verrà fatta. Ancora in tema di prova, nel capo VIII-bis si rinvengono norme sparse di un certo interesse e, probabilmente, una svista del legislatore. Infatti all’art. 840-bis cpc si stabilisce espressamente che l’aderente non assume la qualità di parte processuale. Tuttavia, a dispetto di una simile previsione, all’art. 840-septies, comma terzo, si prevede la facoltà per l’aderente di produrre nel fascicolo di causa dichiarazioni scritte di terzi, capaci di testimoniare, e rese d’avanti a un avvocato, che assume la veste di pubblico ufficiale. Il giudice valuterà queste dichiarazioni “secondo il suo prudente apprezzamento”. La testimonianza scritta non è una novità assoluta: si era sperimentato qualcosa di analogo già con l’introduzione dell’art. 257-bis, sempre nel codice di rito civile. C’è però da fare i conti con il disposto di cui al primo comma dell’art. 115 cpc, il quale statuisce chiaramente che il giudice “deve”, dunque è obbligato, a porre a fondamento della propria decisione le prove proposte dalle parti o dal PM. Non si fa menzione di soggetti ulteriori e diversi dalle parti, quali stricto iure devono essere considerati gli aderenti ad una azione di classe. Potrà quindi il giudice della class action porre utilmente a fondamento della propria decisione le sole dichiarazioni raccolte dagli aderenti, che non possono reputarsi tecnicamente “parti” della procedura ai sensi dell’articolo 840-bis? La propensione è quella di fornire risposta positiva a tale interrogativo, proprio in virtù di una interpretazione teleologica orientata che si deve dare all’impianto normativo introdotto con la Legge 31 del 2019 e, di conseguenza, in virtù delle più ampie facoltà di utilizzo e valutazione delle prove di cui è stato dotato il giudice.

Concludendo, un limite notevole all’impianto della riforma esiste ed è di tipo strutturale. Per usare un’espressione colorita, la class action è un attrezzo molto utile da avere nella cassetta degli utensili, ma non idoneo a tutti i lavori, specialmente a quelli più impegnativi. Agire in forma aggregata con il meccanismo dell’adesione, del opt-in24, comporta un sicuro abbattimento dei costi di accesso alla giustizia (in particolar modo non avendo gli aderenti spese di rappresentanza tecnica), e garantisce un più facile accesso alla giurisdizione. Si è, però, al cospetto di un meccanismo destinato a rivelarsi efficace soprattutto per far valere pretese risarcitorie di modesta entità, relative a danni, prevalentemente di natura patrimoniale, che in ragione della loro ridotta portata, risulterebbe antieconomico far valere autonomamente in giudizio e che riguardano vaste platee di consumatori o vaste porzioni di popolazione. A ciò si aggiunga una lodevole funzione di deterrenza che l’utilizzo di tale strumento può esercitare sulle imprese rispetto al compimento di illeciti e all’esercizio di pratiche scorrette, con un ulteriore stimolo per queste ultime al miglioramento degli standard qualitativi delle rispettive attività produttive. Infatti, pur a fronte di risarcimenti di non elevato valore da liquidarsi in favore di ciascun aderente, il dato aggregato di tutti i singoli ristori rischia di tradursi per l’azienda colpevole in una perdita enorme, che dovrebbe indurla a comportamenti più leali e corretti. Ma probabilmente, allo stato, ci si deve accontentare solo di questo. D’altro lato, infatti, in contesti nei quali ad essere coinvolti sono diritti non patrimoniali e, nello specifico, diritti primari come quello alla salute, con implicazioni di tipo medico-scientifico, solitamente soggettive, particolari, a livelli diversissimi di gravità, gli strumenti analizzati della class action non sembrano più fornire utili rimedi sotto il profilo della efficacia e della velocità delle tutele. Nessun problema fino all’accertamento dell’an e del nesso di causalità, ma il limite strutturale si presenta ineluttabilmente al momento di stabilire il quantum. E’ del tutto evidente che la quantificazione del danno segue proprie rigide regole probatorie ed è governata da principi particolari dai quali non si può prescindere: una cosa è quantificare il danno cagionato da un prodotto di massa per il quale un’azienda viene condannata al pagamento di una cifra uguale per tutti i danneggiati, dove la serialità fa corrispondere ogni posizione e rende ciascuna di esse agevolmente sovrapponibile; altra cosa, è liquidare, ad esempio, un danno alla salute o, addirittura, un danno da decesso, con riguardo a soggetti la cui posizione è logicamente inserita in ambiti diversi, pochissime o nessuna delle quali sovrapponibili.

4. CONCLUSIONI

A poco più di anno dall’entrata in vigore della novella introdotta nel codice di rito civile in materia di procedimenti collettivi, ogni tipo di bilancio o di giudizio aprioristico sull’incisività e sulla reale forza trainante del “nuovo strumento di tutela di massa” sarebbe affrettato e privo di sufficienti ed oggettivi riscontri. Unico elemento certo è che, ad oggi, previa consultazione dell’apposito spazio dedicato sul Portale dei Servizi Telematici del Ministero della Giustizia, è possibile rinvenire la pendenza di sole sei procedure intraprese ex art. 840 bis c.p.c, la metà delle quali incardinate innanzi al Tribunale di Roma. Si tratta di un dato, ovviamente provvisorio, ma altrettanto certamente in grado di evidenziare un “trend” non incoraggiante e tale da non infondere alcuna forma di ottimismo per l’immediato futuro.

Le criticità correlate all’entrata a regime del nuovo rimedio, sotto l’aspetto squisitamente giuridico, esistono e sono molteplici. Nessuna di esse appare, tuttavia, insormontabile e non superabile attraverso l’attività attenta, sensibile e diligente degli operatori del diritto anche in funzione di “pungolo” per il Legislatore e, dunque, in una prospettiva de iure condendo. Sussistono probabilmente seri e fondati profili di incostituzionalità in quelle disposizioni che limitano la legittimazione ad agire in giudizio esclusivamente ad associazioni ed organizzazioni censite in apposito albo ministeriale, apparendo decisamente censurabile ogni tipo di ricognizione/accreditamento preventivo demandato ad organi di natura amministrativa. E’ certamente incongrua e perfettibile, in chiave di mezzo di sollecitazione nei confronti dei potenziali aderenti, la forma di pubblicità prevista dal Legislatore in ordine alle class actions già avviate, allo scopo di agevolare una eventuale partecipazione consapevole ed informata alle stesse, così come assai “limitante” e non ampiamente inclusiva appare la procedura esclusivamente informatizzata di adesione ai procedimenti collettivi, per la quale, tra l’altro, non è neppure prevista la necessità di assistenza/difesa tecnica. Sono del pari insufficienti, pur se apprezzabili e migliorabili, le novità introdotte in materia di semplificazione dell’attività istruttoria, regolamentazione delle spese e anticipazioni al CTU designato, rivalutazione del ruolo delle prove c.d empiriche ed astensione del principio di non contestazione anche ai soggetti aderenti, aspetti ai quali è stato già fatto sintetico riferimento esplicativo nelle pagine che precedono. Gli unici ostacoli, realmente condizionanti e ben difficilmente superabili, che impediscono ed impediranno, allo stato ed in concreto, l’effettivo attecchimento di rimedi potenzialmente poderosi e dissuasivi come le class actions, a modesto avviso degli scriventi, sono di carattere “ideologico” e “di sistema” e dovrebbero finalmente stimolare una seria e ponderata riflessione politica sul ruolo di primaria importanza da riconoscere senza remore e senza vincoli di “mera facciata” all’intera classe forense in funzione di ultimo e più agguerrito baluardo per la salvaguardia di interessi super-individuali, particolarmente sensibili ed esposti al pericolo di serio pregiudizio in presenza di comportamenti illeciti ascrivibili ai grandi poli industriali. Il successo delle c.d damages class action in Paesi evoluti come gli Stati Uniti d’America è da ricercare, infatti, essenzialmente nella posizione di assoluta ed indiscussa preminenza riconosciuta agli avvocati, i quali operano secondo logiche imprenditoriali, all’interno di strutture dotate di ingenti capitali acquisiti anche da “fonti esterne” allo studio professionale, organizzate in modo “aziendalistico” secondo prospettive ed orizzonti ancora estranei alla nostra tradizione e alla nostra cultura. Sono i lawiers ad ergersi a protagonisti principali delle promovende azioni collettive, ad essere i finanziatori della lite, a “reclutare” di fatto il rappresentante di classe, sostituendosi a quest’ultimo nella gestione dei vari momenti in cui si articola il processo ed assumendo sulle proprie spalle il rischio economico del fallimento della procedure intraprese, ma anche, a contrario, beneficiando di onorari assai sostanziosi e gratificanti in caso di successo, i quali non vengono quantificati sulla scorta di astratti parametri tabellari per fasi, ma formano oggetto di libera pattuizione calibrata in termini percentuali sull’entità del ristoro riconosciuto ai soggetti lesi. Non è ultroneo rammentare, ove ve ne fosse bisogno, che il sistema risarcitorio statunitense in materia di responsabilità extracontrattuale è governato da criteri punitivi e non meramente compensativi allorquando risulti comprovata in sede giudiziale la sussistenza di comportamenti antigiuridici sorretti da malice (dolo o colpa grave), condotte che rappresentano “la regola” in materia di danno ambientale diffuso e generalizzato da inquinamento. A ciò si aggiungano una serie di ulteriori elementi non meno significativi ed incentivanti: la tassa da versare alle casse dello Stato per incardinare la relativa procedura “di massa” è determinata in misura fissa ed in media non supera i trecento dollari; non è prevista la condanna alla refusione delle competenze e spese di lite sostenute dal resistente nell’ipotesi di rigetto della domanda né, del pari, esiste il rischio di risultare destinatari di pronunce di condanna alle spese per lite temeraria. Si è al cospetto, in definitiva, di un sistema, sicuramente discutibile sotto molteplici punti di vista, ma nel quale le scelte di fondo sono chiare, convergenti e tra loro coerenti: la sostanza ha netto sopravvento sulla forma. Sino a quando un simile modello di tutela non risulterà esportabile e “replicabile” all’interno del nostro Paese, quanto meno nelle sue linee portanti e quanto meno nel limitato comparto dei procedimenti collettivi, ostandovi, in linea teorica, il pericolo di violazione di una serie di obblighi o di principi cardine sanciti nel Codice deontologico e nella vigente legge di ordinamento professionale forense (si pensi, a titolo meramente esemplificativo e non esaustivo, al divieto di patto di quota lite, al divieto di accaparramento della clientela, al divieto di abuso della strumento processuale) e lo stesso assetto attuale del c.p.c (si pensi alla disciplina della iscrizione a ruolo basata su contributo proporzionale al valore della causa, alla regolamentazione delle spese di lite in caso di soccombenza e alle disposizioni sulla liquidazione delle competenze legali), i rimedi di tutela collettiva introdotti dal Legislatore italiano con la legge n. 31/2019, sia pure ispirati da encomiabili, condivisibili e meritorie finalità, saranno destinati, con tutta probabilità, a rimanere nel “limbo” e a restare sostanzialmente inapplicati. Preoccupanti segnali in tal senso esistono già e non possono essere assolutamente trascurati o, peggio ancora, ignorati.

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1 . Cfr. testo della legge 22 maggio 2015, n. 68 pubblicata in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 122, del 28 maggio 2015.

2Cfr, per una prima disamina della tematica, B. Sassani, Class action- Commento sistematico alla legge 12 aprile 2019 n. 31, Pisa, Pacini Giuridica, 2019, pag. 7.

3Tra i primi autori a fare espresso riferimento a diritti individuali omogenei vedasi A.Carratta, L’azione collettiva risarcitoria e restitutoria: presupposti ed effetti, in Riv. Dir. Proc. 2008, p. 725.

4Così B. Sassani, Interessi collettivi e scelte irrazionali, in www.ilsole24ore.com

5Così., sul punto, W.B. Rubenstain, Why enable litigation? A positive externalities theory of the small claims class action, in www.ssrn.com (http// www.ssrn.com/) ed inoltre G. Calabresi, Il futuro del law and economics, Saggi per una rimeditazione ed un ricordo, Milano, Giuffè Editore, 2018, Cap II.

6Per un approfondimento delle relativa tematica vedasi Geoffrey C. Hazard- Michele Taruffo, La giustizia civile negli Stati Uniti, Bologna, 1993, Il Mulino Editore, pagg. 187-190 ed ancora Andrea Giussani, Studi sulle “class actions”. Padova, 1996, Cedam.

7 Cfr S.Menchini, La tutela giurisdizionale dei diritti individuali omogenei: aspetti critici e prospettive ricostruttive, Le azioni seriali, a cura di Menchini, Napoli-Roma, 2008, 57 ss. 4

8 Cfr. Trib. Venezia del 25.05.2017; App. Milano, 9 novembre 2013, inedita; Trib. Roma, 27 aprile 2012, inedita

9 In merito alla legittimazione processuale ad agire, l’art. 840 bis cpc attribuisce la legittimazione attiva a ciascun componente della classe, alle organizzazioni o associazioni senza fine di lucro, i cui obiettivi statutari comprendano la tutela dei diritti individuali omogenei, purché iscritte nell’elenco istituito dal Ministero della Giustizia con decreto ministeriale del 17 febbraio 2022 n. 27 ed entrato in vigore in data 27 aprile 2022. Dall’esame di tale disposizione si evidenzia come il legislatore, pur prevedendo un ampliamento della legittimazione attiva, riconoscendo la stessa non solo a ciascun componente della classe ma anche alle organizzazioni o associazioni senza fine di lucro, ha nello stesso tempo individuato dei limiti consistenti nella necessità di alcuni requisiti che le suddette associazioni ed organizzazioni devono possedere. I requisiti riguardano sia la presenza di obiettivi statutari, che devono contenere la tutela di diritti omogenei, sia l’iscrizione nell’elenco sopra citato che, a sua volta, presuppone la verifica delle finalità programmatiche, dell’adeguatezza a rappresentare e tutelare i diritti azionati; la verifica dello svolgimento delle attività statutarie in modo continuativo, stabile ed adeguato, nonché la verifica delle fonti di finanziamento.

10 Cfr. D.lgs n. 117/2017 che individua diversi enti dotati di soggettività giuridica e privi di scopi lucrativi

11 Cfr., sul punto, O. Razzolini, “Azione di classe e legittimazione ad agire del sindacato a prescindere dall’iscrizione nel pubblico elenco: prime considerazioni”, in Lavoro Diritto Europa, Rivista n. 4/2021

12James Bradley THAYER, A preliminary Treatise on Evidence at the Common Law, Adamant Media Corporation, 2000, reprint of a 1898 edition by Little Brown, and Company, Boston.

13Cfr Enrico REDENTI, Diritto processuale civile, II, Giuffré, Milano, 1985, p. 64

14Così CALAMANDREI, citato in PASTORE B., Giudizio, prova, ragion pratica. Un approccio ermeneutico, Giuffrè. Milano, 1996

15Così testualmente, CARNELUTTI, La prova civile, 2^ Edizione, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1947, p.27

16Cfr Michele TARUFFO, La valutazione della prova. Prova libera e prova legale. Prova e argomenti di prova, Relazione in Atti del convegno “La prova nel processo civile”, Frascati/Roma 1997

17Guidelines On Elettronic Evidence in Civil and Administrative Proceedings in www.coe.int

18Cfr. sentenza Cassazione Civ. Sez. 1, n. 9211 del 01.09.1995

19Sentenza Cassazione cit., passim

20In G.U. Serie Generale n. 44 del 22.02.2022

21Nel significato di “divulgazione” si portano ad esempio i c.d. patti NDA (non-disclosure agreement) definibili come patti di riservatezza, molto utilizzati nel sistema giuridico americano, oggetto di dibattito proprio in ragione degli ordini di esibizione nelle class action.

22Cfr. resoconti XVIII Legislatura, sedute della Commissione Parlamentare Giustizia, C. 791 Salafia, in www.camera.it, documenti di seduta del 25 luglio 2018.

23Cfr. resoconti seduta Commissione Parlamentare XVIII Legislatura cit.

24 Opt-in: nell’ambito dell’ e-mail marketing, è l’opzione attraverso la quale l’utente esprime il proprio consenso ad essere inserito in una mailing list per ricevere comunicazioni di natura informativa e/o commerciale; tipicamente, all’utente viene richiesto di fornire il proprio indirizzo e-mail e di confermare la volontà di aderire al servizio.