Corte Costituzionale 23 ottobre – 4 dicembre 2019 SENTENZA N. 253
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Ordinamento penitenziario - Detenuti per i delitti di associazione mafiosa e di "contesto mafioso" - Concessione di permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia - Possibilita' allorche' siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti - Omessa previsione - Violazione dei principi di ragionevolezza e della finalita' rieducativa della pena - Illegittimita' costituzionale in parte qua. Ordinamento penitenziario - Detenuti per i delitti di cui all'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, diversi da quelli di associazione mafiosa e di "contesto mafioso" - Concessione di permessi premio anche in mancanza di collaborazione con la giustizia - Possibilita' allorche' siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti - Omessa previsione - Illegittimita' costituzionale consequenziale in parte qua. - Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 4-bis, comma 1. - Costituzione, artt. 3 e 27, terzo comma.
(GU n.50 del 11-12-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA,
Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca
ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma
1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
della liberta'), promossi dalla Corte di cassazione e dal Tribunale
di sorveglianza di Perugia con ordinanze del 20 dicembre 2018 e del
28 maggio 2019, rispettivamente iscritte ai nn. 59 e 135 del registro
ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 17 e 34, prima serie speciale, dell'anno 2019.
Visti gli atti di costituzione di S. C. e P. P., gli atti di
intervento ad adiuvandum di M. D., dell'Associazione Nessuno Tocchi
Caino, del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o
private della liberta' personale e dell'Unione camere penali
italiane, nonche' gli atti di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 22 ottobre 2019 il Giudice
relatore Nicolo' Zanon;
uditi gli avvocati Ladislao Massari per M. D., Andrea Saccucci
per l'Associazione Nessuno Tocchi Caino, Emilia Rossi per il Garante
nazionale dei diritti delle persone detenute o private della liberta'
personale, Vittorio Manes per l'Unione camere penali italiane,
Valerio Vianello Accorretti per S. C., Mirna Raschi e Michele
Passione per P. P. e gli avvocati dello Stato Marco Corsini e
Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 20 dicembre 2018 (r.o. n. 59 del 2019), la
Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975,
n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della liberta'), in riferimento agli
artt. 3 e 27 della Costituzione, «nella parte in cui esclude che il
condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle
condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di
agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste, che non
abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla
fruizione di un permesso premio».
1.1.- Il collegio rimettente premette di essere investito del
ricorso avente ad oggetto il provvedimento con cui il Tribunale di
sorveglianza dell'Aquila ha rigettato il reclamo proposto da S. C.
avverso il decreto con il quale il magistrato di sorveglianza
dell'Aquila aveva dichiarato inammissibile la richiesta di permesso
premio avanzata dal medesimo condannato.
Espone il rimettente che il condannato si trova in espiazione
della pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata di un
anno, irrogatagli «per i delitti di associazione mafiosa, omicidio,
soppressione di cadavere, porto e detenzione illegale di armi»,
eseguiti tra il 1996 e il 1998 «per agevolare l'attivita'» di
un'associazione mafiosa, come desumibile dalla sentenza di condanna
per i reati di omicidio, per i quali e' stata applicata l'aggravante
dei motivi abietti, «individuati nel fine di affermare l'egemonia e
il prestigio della consorteria alla quale l'imputato era affiliato».
Precisa il giudice a quo che il Tribunale di sorveglianza
dell'Aquila ha ritenuto non concedibile il beneficio richiesto in
quanto precluso dai titoli di reato, trattandosi di delitti tutti
ricompresi nell'elenco dei reati ostativi ai sensi dell'art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit. - pur in assenza di una contestazione formale
dell'aggravante speciale di cui all'art. 7 del decreto-legge 13
maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla
criminalita' organizzata e di trasparenza e buon andamento
dell'attivita' amministrativa), convertito, con modificazioni, nella
legge 12 luglio 1991, n. 203 - e non sussistendo condotte di
collaborazione con la giustizia rilevanti ai sensi dell'art. 58-ter
ordin. penit., richiamato dal medesimo art. 4-bis.
Ricorda la Corte rimettente che l'art. 4-bis ordin. penit.
stabilisce il divieto di concessione di benefici penitenziari in
assenza di collaborazione con la giustizia, sia per le ipotesi di
reato previste dagli artt. 416-bis (Associazioni di tipo mafioso
anche straniere) e 416-ter (Scambio elettorale politico-mafioso) del
codice penale, sia per i reati commessi avvalendosi delle condizioni
previste dall'art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare
l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo.
Espone, quindi, che il condannato S. C. ha sostenuto, per quanto
qui interessa, che «la preclusione assoluta stabilita dalla norma
censurata» si porrebbe «in contrasto con la funzione rieducativa
della pena costituzionalmente garantita», sia perche' impedirebbe «il
raggiungimento delle finalita' riabilitative proprie del trattamento
penitenziario», sia perche' sarebbe «disarmonica rispetto ai principi
affermati dall'art. 3 CEDU», invitando quindi la Corte di cassazione
a sollevare questione di legittimita' costituzionale, «dell'art.
4-bis, comma 1, Ord. Pen., con riferimento agli articoli 17, 18 e 22
cod. pen., per violazione degli artt. 27, comma terzo, 117 Cost., in
relazione all'art. 3 CEDU».
1.2.- Cio' premesso, il collegio rimettente ritiene rilevante e
non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale prospettata in relazione all'art. 4-bis ordin. penit.
1.2.1.- In punto di rilevanza, ricorda come l'art. 30-ter ordin.
penit., nel disciplinare la concessione dei permessi premio,
considera decisivo l'apprezzamento di pericolosita' sociale, ai fini
dell'accoglimento o del rigetto della domanda di permesso premio, ed
evidenzia che tale profilo «non e' stato oggetto di specifica
valutazione ad opera del Tribunale di sorveglianza che ha ritenuto
impeditivo di un concreto esame il disposto normativo dell'art.
4-bis, comma 1, Ord. Pen.».
A giudizio del collegio a quo, tuttavia, cio' non priva di
rilevanza la questione, «perche' la rimozione dell'ostacolo
costituito dalla presunzione assoluta di pericolosita' sarebbe
l'unico modo per consentire la rimessione al giudice del merito, come
giudice del rinvio, del compito di verificare in concreto la
ricorrenza dei presupposti richiesti dall'art. 30-ter Ord. Pen. per
la concessione del beneficio, in particolare l'assenza di
pericolosita' sociale».
1.2.2.- In ordine alla non manifesta infondatezza della questione
di legittimita' costituzionale, la Corte rimettente osserva, in primo
luogo, che il tema della pericolosita' sociale di indagati o imputati
per reati di criminalita' organizzata e' gia' stato vagliato dalla
giurisprudenza costituzionale in relazione ai criteri che devono
orientare il giudice nell'applicazione delle misure cautelari
personali previste dall'art. 275, comma 3, del codice di procedura
penale.
A tale proposito, viene richiamata la sentenza n. 57 del 2013,
che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 275,
comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., come modificato dall'art.
2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti
in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza
sessuale, nonche' in tema di atti persecutori) convertito, con
modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui
prevedeva, per coloro per i quali sussistono gravi indizi di
colpevolezza in ordine a delitti commessi avvalendosi delle
condizioni previste dall'art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di
agevolare l'attivita' delle associazioni mafiose, l'applicazione
della custodia cautelare in carcere come unica misura adeguata a
soddisfare le esigenze cautelari, senza fare salva - rispetto al
concorrente esterno - l'ipotesi in cui fossero stati acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali
risultasse che le esigenze cautelari potevano essere soddisfatte con
altre misure. Il collegio rimettente ricorda che, secondo la Corte
costituzionale, le presunzioni assolute, ove limitative di diritti
fondamentali, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie
e irrazionali ovvero «se non rispondono a dati di esperienza
generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque
accidit» e che, al contempo, la possibile estraneita' dell'autore di
tali delitti a un'associazione mafiosa fa escludere che si sia sempre
in presenza di un reato che presupponga la necessita' di un vincolo
di appartenenza alla consorteria considerata.
Il collegio rimettente richiama, altresi', la sentenza della
Corte costituzionale n. 48 del 2015, che ha analogamente eliminato la
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in
carcere per gli imputati o indagati di concorso esterno in
associazione mafiosa. Anche in tal caso, rammenta la Corte
rimettente, secondo la giurisprudenza costituzionale non sarebbe
ravvisabile, nei confronti del concorrente esterno, quel vincolo di
adesione permanente al sodalizio mafioso necessario a legittimare,
sul piano giurisdizionale, il ricorso esclusivo alla custodia
cautelare in carcere, quale unico strumento idoneo a recidere i
rapporti dell'indiziato con l'ambiente associativo, neutralizzandone
la pericolosita'.
In questo contesto, secondo il giudice a quo, l'art. 4-bis ordin.
penit. si inserirebbe «problematicamente», dal momento che, in
relazione alla concessione del permesso premio, «ne preclude
l'accesso, in senso assoluto, a tutte le persone condannate per
delitti ostativi che non hanno fornito una collaborazione con la
giustizia rilevante ai sensi dell'art. 58-ter Ord. Pen.». Tale
preclusione assoluta, «non distinguendo tra gli affiliati di
un'organizzazione mafiosa» e gli autori di delitti commessi
avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen. ovvero
al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dalla
stessa norma, appare al rimettente confliggente con
«l'incompatibilita' costituzionale» delle presunzioni assolute di
pericolosita' sociale, quando applicate alle condotte illecite che
non presuppongono l'affiliazione a un'associazione mafiosa, secondo i
principi che sarebbero stati affermati dalla Corte costituzionale
nelle sentenze in precedenza richiamate.
Il giudice a quo, ancora, richiama ulteriori pronunce della Corte
costituzionale in materia di compatibilita' tra il divieto di
concessione dei benefici penitenziari previsto dall'art. 4-bis, comma
1, ordin. penit., e i principi che governano l'esecuzione della pena.
In particolare, evidenzia che, con la sentenza n. 239 del 2014, la
Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., nella parte «in cui non
esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso
stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista
dall'art. 47-quinquies della medesima legge» nonche' nella parte in
cui «non esclude dal divieto di concessione dei benefici
penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione
domiciliare prevista dall'art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b),
della medesima legge, ferma restando la condizione dell'insussistenza
di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti». Per la
Corte costituzionale, la scelta legislativa di accomunare nel regime
detentivo prefigurato dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
fattispecie e misure alternative tra loro eterogenee sarebbe lesiva
dei parametri costituzionali evocati (si trattava degli artt. 3, 29,
30 e 31 Cost.), in quanto illogica rispetto all'obiettivo di
incentivare la collaborazione processuale quale strategia di
contrasto alla criminalita' organizzata: la subordinazione
dell'accesso ai benefici penitenziari a un effettivo ravvedimento del
condannato sarebbe giustificata solo quando si discuta di misure
alternative che mirano alla rieducazione del condannato e non quando
«al centro della tutela si collochi un interesse "esterno" ed
eterogeneo».
La Corte rimettente attribuisce «[a]nalogo rilievo ermeneutico»
alla sentenza n. 76 del 2017, con cui la Corte costituzionale ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 47-quinquies,
comma 1-bis, ordin. penit., limitatamente all'inciso «salvo che nei
confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati
nell'art. 4-bis», evidenziando, con riferimento alla detenzione
domiciliare speciale di cui alla disposizione allora censurata,
l'inammissibilita' di presunzioni assolute che neghino l'accesso
della madre alle modalita' agevolate di espiazione della pena,
impedendo al giudice di valutare in concreto la pericolosita' sociale
e facendo ricorso a indici presuntivi che comportano «il totale
sacrificio dell'interesse del minore».
Infine, il giudice a quo richiama la sentenza n. 149 del 2018,
con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 58-quater, comma 4, ordin. penit., nella
parte in cui si applica ai condannati all'ergastolo per i delitti di
cui agli artt. 289-bis e 630 cod. pen. che abbiano cagionato la morte
del sequestrato, ribadendo i principi della progressivita'
trattamentale e della flessibilita' della pena «radicati nell'art.
27, comma terzo, Cost., che garantisce il graduale inserimento del
condannato all'ergastolo nel contesto sociale».
Tutto cio' premesso, la Corte rimettente espone che, che nel caso
sottoposto al suo scrutinio, il condannato risulta ininterrottamente
detenuto dal 27 giugno 1998 e ha sempre mantenuto un comportamento
carcerario rispettoso del programma rieducativo attivato nei suoi
confronti.
Per il giudice a quo, subordinare l'accesso ai benefici
penitenziari alla collaborazione con la giustizia, indistintamente
per tutte le categorie di condannati per uno dei reati contemplati
nell'elenco dell'art. 4-bis, ordin. penit., avrebbe «l'effetto di
valorizzare la scelta collaborativa, come momento di rottura e di
definitivo distacco dalle organizzazioni criminali, anche nei
confronti di detenuti non inseriti in contesti associativi». Al
contempo, se l'obiettivo prioritario della norma censurata e'
individuato nell'incentivazione alla collaborazione, quale strategia
di contrasto della criminalita' organizzata attraverso la rescissione
definitiva dei legami con le associazioni di appartenenza, a giudizio
del rimettente appare priva di ragionevolezza una disposizione che
assimili condotte delittuose tanto diverse tra loro, precludendo ad
una categoria cosi' ampia e diversificata di condannati il diritto di
ricevere un trattamento penitenziario rivolto alla risocializzazione,
senza che sia data al giudice la possibilita' di verificare in
concreto la permanenza o meno di condizioni di pericolosita' sociale
tali da giustificare percorsi penitenziari non aperti alla realta'
esterna.
Il giudice a quo considera «dato consolidato» - conformemente
alla costante giurisprudenza di legittimita' - che la scelta di
fornire un contributo collaborativo, rilevante ai sensi dell'art.
58-ter ordin. penit., rappresenta, per un detenuto appartenente a una
consorteria mafiosa, una manifestazione inequivocabile «del suo
definitivo distacco dal sodalizio in cui gravitava». Ritiene pero'
che non possa assumere «valore incontrovertibile e assurgere a canone
valutabile in termini di presunzione assoluta, a prescindere dalle
emergenze concrete», l'affermazione che la cessazione dei legami di
un detenuto con il gruppo criminale di riferimento possa essere
dimostrata, durante la fase di esecuzione della pena, soltanto
attraverso le condotte collaborative di cui all'art. 58-ter ordin.
penit., dato che tale assunto non troverebbe «copertura» nella
giurisprudenza costituzionale in precedenza illustrata che, «come ha
bandito dal sistema le presunzioni assolute di pericolosita', cosi'
non puo' avallare la conclusione che la scelta collaborativa
costituisca prova legale esclusiva di ravvedimento».
A parere del collegio rimettente, peraltro, la scelta del
condannato all'ergastolo di non collaborare con la giustizia non
risulterebbe univocamente dimostrativa dell'attualita' della
pericolosita' sociale e non necessariamente implicherebbe la volonta'
di restare legato al sodalizio mafioso di appartenenza, potendo
essere determinata anche da altri fattori, estranei al percorso
rieducativo, quali: il «rischio per l'incolumita' propria e dei
propri familiari»; il «rifiuto morale di rendere dichiarazioni di
accusa nei confronti di un congiunto o di persone legate da vincoli
affettivi»; il «ripudio di una collaborazione di natura meramente
utilitaristica».
I dubbi di costituzionalita' aumentano, a parere del rimettente,
se si considerano le peculiarita' del permesso premio previsto
dall'art. 30-ter ordin. penit, che possiede «una connotazione di
contingenza che non ne consente l'assimilazione integrale alle misure
alternative alla detenzione», perche' non modifica le condizioni
restrittive del condannato: soltanto rispetto a queste ultime le
ragioni di politica criminale sottese alla «preclusione assoluta di
cui all'art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen.», potrebbero apparire
rispondenti alle esigenze di contrasto alla criminalita' organizzata.
A parere del giudice a quo, in particolare, i permessi premio
costituirebbero parte essenziale del trattamento rieducativo,
sicche', ove non concessi a causa di una «presunzione di
pericolosita' non altrimenti vincibile», sarebbero compromesse le
stesse finalita' costituzionali della pena detentiva.
Tale tipologia di beneficio penitenziario, infatti, troverebbe
fondamento anzitutto nella realizzazione di una finalita' immediata,
costituita dalla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro,
caratterizzandosi «come strumento di soddisfazione di esigenze anche
molto limitate seppure non rientranti nella portata meno ampia del
permesso di necessita'».
In ragione di questa peculiare funzione, il collegio rimettente
ritiene che sussista la possibilita', anche in assenza di
collaborazione con la giustizia, di verificare in concreto «la
mancanza di elementi significativi di collegamenti con la
criminalita' organizzata» o di accertare «addirittura» elementi
denotanti «un significativo distacco dal sistema subculturale
criminale».
Per la Corte di cassazione, del resto, «anche una concessione
premiale per una finalita' limitata e contingente potrebbe sortire
l'effetto di incentivare il detenuto a collaborare con l'istituzione
carceraria».
2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
Ad avviso della difesa statale, la questione sollevata sarebbe
manifestamente infondata sotto piu' punti di vista.
Premette l'Avvocatura che, al fine di contrastare «l'odioso
fenomeno della criminalita' organizzata», il legislatore avrebbe
stabilito di subordinare la concessione dei benefici per gli autori
di tali delitti «ad una e una sola condizione»: che il condannato
decida, quando sia materialmente possibile, di collaborare con la
giustizia. Con tale disciplina speciale si sarebbe scelto di
«divaricare nettamente la posizione dei "collaboratori" da quella
degli "irriducibili"», privilegiando, per una serie di reati
«tassativamente elencati», le finalita' di prevenzione generale e di
sicurezza della collettivita'.
La soluzione prefigurata dall'art. 4-bis, ordin. penit., in ogni
caso, non rappresenterebbe «un automatismo che opera
incondizionatamente, in quanto la collaborazione del condannato
restituisce al giudice i poteri di valutare discrezionalmente la
sussistenza dei presupposti "normali" per accordare il permesso
premio». In sostanza, il detenuto che ha collaborato verrebbe posto
sullo stesso piano del condannato nei cui riguardi opera l'art.
30-ter, ordin. penit.
Si tratterebbe di una scelta discrezionale del legislatore
connessa a valutazioni di politica criminale, secondo le quali
l'unico mezzo con il quale il detenuto puo' dimostrare l'assenza di
pericolosita' - che nel caso di detenuti per delitti previsti
dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., consiste nella persistenza
di legami con la criminalita' organizzata - e' quello di scegliere la
via della collaborazione.
In tal modo, a parere dell'Avvocatura, sarebbe stata incentivata
la stessa collaborazione, che «nell'esperienza giudiziaria della
storia nazionale» si sarebbe rivelata come «mezzo insostituibile»
della ricerca della prova e del perseguimento dei responsabili.
A parere dell'interveniente, il rigore che connota il sistema
delineato dall'art. 4-bis, ordin. penit., si applica anche ai
permessi premio, «apparendo del tutto irrilevante la sua natura
contingente piuttosto che di alternativa vera e propria alla pena
detentiva», poiche' la ratio della norma e' quella «di evitare
l'uscita dal carcere - anche solo per poche ore - di condannati
verosimilmente ancora pericolosi, in particolare in ragione dei loro
persistenti legami con la criminalita' organizzata» (si cita la
sentenza n. 149 del 2018). Lo stesso legislatore, «nel circoscrivere
l'ambito oggettivo della preclusione», pur consapevole delle
diversita' strutturali, affianca espressamente i permessi premio alle
misure alternative alla detenzione, per l'esigenza di evitare che i
condannati per tali reati siano rimessi, anche solo temporaneamente,
in liberta'.
Secondo l'Avvocatura, la stessa giurisprudenza costituzionale
avrebbe ritenuto che «la collaborazione con la giustizia assuma "non
irragionevolmente, la diversa valenza di criterio di accertamento
della rottura dei collegamenti con la criminalita' organizzata, che a
sua volta e' condizione necessaria, sia pure non sufficiente, per
valutare il venir meno della pericolosita' sociale ed i risultati del
percorso di rieducazione e di recupero del condannato"» (sentenza n.
273 del 2001). La scelta collaborativa sarebbe stata assunta dal
legislatore a criterio legale di valutazione del comportamento del
detenuto, rappresentando una condotta necessaria ai fini
dell'accertamento del «sicuro ravvedimento» del condannato.
Dunque, l'opzione legislativa sarebbe frutto di un potere
discrezionale in materia di politica penitenziaria, come tale
sindacabile nei soli limiti in cui risulti esercitato in modo
arbitrario. A tale proposito, l'Avvocatura generale richiama la
sentenza della Corte costituzionale n. 306 del 1993, secondo cui
«certamente risponde all'esigenza di contrastare una criminalita'
organizzata aggressiva e diffusa la scelta del legislatore di
privilegiare finalita' di prevenzione generale e di sicurezza della
collettivita', attribuendo determinati vantaggi ai detenuti che
collaborano con la giustizia».
3. - In data 13 maggio 2019 si e' costituito in giudizio S. C.,
parte ricorrente nel giudizio a quo, per chiedere l'accoglimento
delle questioni di legittimita' costituzionale, sviluppando gli
argomenti gia' esibiti nell'ordinanza della Corte di cassazione.
Secondo S. C., inoltre, la disposizione censurata violerebbe non
soltanto gli artt. 3 e 27 Cost., ma anche l'art. 117 Cost., in
relazione all'art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848, in base alla giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell'uomo (viene citata la sentenza della Grande Camera 9
luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito).
3.1.- In data 1° ottobre 2019 S. C. ha depositato una memoria in
cui ribadisce quanto sostenuto nell'atto di costituzione, in
particolare in merito alle caratteristiche peculiari del permesso
premio in relazione agli altri benefici penitenziari, ai quali ultimi
non potrebbe essere omologato, pena la violazione dei principi
costituzionali evocati.
La parte richiama, inoltre, la sentenza pronunciata dalla Corte
EDU il 13 giugno 2019, nel caso Viola contro Italia, di cui vengono
riprodotti ampi stralci di motivazione.
Aggiunge la parte che appare «inammissibile» che il «diritto di
non collaborare», garantito processualmente come espressione del
principio nemo tenetur se detegere, possa trasformarsi in fase
esecutiva in un vero e proprio dovere, necessario per poter usufruire
di «strumenti che dovrebbero essere invece gli ordinari risultati
della partecipazione proficua al trattamento penitenziario».
Infine, la parte reputa «certamente discutibile» che una condotta
di tipo meramente utilitaristico sia proposta dallo stesso
legislatore come requisito per evitare il «danno aggiuntivo» della
preclusione ai benefici, trasformandosi cosi' in «una vera e propria
costrizione», ricordando che la Corte costituzionale ha di recente
affermato (e' richiamata l'ordinanza n. 117 del 2019) che il diritto
a mantenere il silenzio da parte degli imputati o condannati
costituisce un «corollario essenziale dell'inviolabilita' del diritto
di difesa, riconosciuto dall'art. 24 Cost.».
4.- In data 30 aprile 2019 il detenuto M. D. ha depositato atto
di intervento ad adiuvandum, sostenendo di avere uno specifico
interesse ad intervenire nel giudizio attesa la posizione processuale
di «perfetta sovrapponibilita'» rispetto a quella di S. C.,
trovandosi in esecuzione - da oltre ventisette anni - della pena
dell'ergastolo cosiddetto ostativo, con diniego di accesso alle
misure alternative alla detenzione, in assenza di collaborazione con
la giustizia. M. D., in data 19 settembre 2019, ha depositato una
memoria per riaffermare il suo interesse qualificato connesso alla
circostanza che la Corte di cassazione, nel giudizio che lo riguarda
(celebrato innanzi alla medesima sezione che ha sollevato la
questione di legittimita' costituzionale da cui origina il giudizio
r.o. n. 59 del 2019), ha disposto il rinvio della trattazione in
attesa della «decisione della Corte Costituzionale sulla legittimita'
dell'art. 4 bis ord. pen. - per quanto riguarda la concedibilita' dei
permessi premio per il detenuto non collaborante».
Ha concluso, dunque, per l'accoglimento delle questioni di
legittimita' costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione,
sezione prima penale.
5.- In data 13 maggio 2019 ha depositato atto di intervento ad
adiuvandum l'associazione Nessuno Tocchi Caino, argomentando di
essere «portatrice di un interesse "qualificato" nella questione
relativa alla legittimita' costituzionale» prospettata, in quanto
associazione senza fini di lucro fondata con lo scopo di condurre una
campagna volta a far abrogare in tutto il mondo le norme che
prevedono la pena di morte ovvero che costituiscono «una sorta di
pena di morte "mascherata"», come l'ergastolo cosiddetto ostativo
previsto dall'art. 4-bis, ordin. penit. In vista dell'udienza
pubblica del 22 ottobre 2019, l'associazione ha depositato, in data
1° ottobre 2019, una memoria in cui richiama e sviluppa gli argomenti
gia' esibiti nell'atto di costituzione, con la quale si chiede
l'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale
sollevate dalla Corte di cassazione, sezione prima penale.
6.- Con ordinanza del 28 maggio 2019 (r.o. n. 135 del 2019), il
Tribunale di sorveglianza di Perugia ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.,
in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., «nella parte in cui esclude
che il condannato all'ergastolo per delitti commessi al fine di
agevolare l'attivita' dell'associazione a delinquere ex art. 416 bis
cod. pen. della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso alla
fruizione di un permesso premio».
6.1.- Il collegio rimettente premette di essere investito del
ricorso avverso il provvedimento con cui il Magistrato di
sorveglianza di Spoleto ha dichiarato inammissibile l'istanza diretta
ad ottenere un permesso premio ai sensi dell'art. 30-ter, ordin.
penit. avanzata da P. P., in espiazione della pena dell'ergastolo con
isolamento diurno in relazione ad un provvedimento di cumulo
comprendente condanne tutte per delitti rientranti nel disposto
dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., percio' ostative alla
concessione del permesso richiesto.
Aggiunge che la difesa del condannato ha, quindi, proposto
reclamo dinanzi al tribunale di sorveglianza rimettente, chiedendo la
sospensione della decisione in attesa della pronuncia sulla questione
di legittimita' costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione,
sezione prima penale, con l'ordinanza 20 dicembre 2018.
6.2.- Cio' posto, il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha
ritenuto di sospendere il procedimento per sollevare, a sua volta, le
questioni di legittimita' costituzionale innanzi descritte.
6.2.1.- Il giudice a quo ripercorre, richiamandoli integralmente,
anche con riferimento alla citazione della giurisprudenza
costituzionale ritenuta pertinente, i passaggi essenziali
dell'ordinanza con cui la prima sezione penale della Corte di
cassazione (r.o. n. 59 del 2019) ha sollevato le innanzi illustrate
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1,
ordin. penit., sia perche' dichiara di condividerli, sia «per
evidenziarne tratti di non completa sovrapponibilita'» con la
fattispecie sottoposta al suo scrutinio, ma che pure ritiene di
sottoporre all'esame della Corte costituzionale.
Ancora con riferimento al profilo della rilevanza delle questioni
sollevate, il rimettente evidenzia che, in entrambi i procedimenti da
cui sono scaturite le questioni oggi all'esame della Corte
costituzionale, viene in rilievo la richiesta di un condannato alla
pena dell'ergastolo di fruire di un permesso premiale, rigettata dal
magistrato di sorveglianza competente - e, nel caso vagliato dalla
Corte di cassazione, con decisione confermata in sede di reclamo dal
Tribunale di sorveglianza - poiche' soltanto la scelta di collaborare
con la giustizia, «invece non avvenuta, potrebbe comportare la
fuoriuscita dal regime di assoluta ostativita'».
Ne consegue che nessuna valutazione puo' essere condotta in
concreto sulla pericolosita' sociale del condannato, perche' «la
magistratura di sorveglianza deve, di fronte a tale assoluta
ostativita', dichiarare soltanto l'inammissibilita' dell'istanza, con
la conseguenza della rilevanza per il giudizio sottopostole della
questione di legittimita' costituzionale prospettata che, in caso di
accoglimento, consentirebbe la rimessione al giudice del merito, come
giudice di rinvio, con il compito di verificare l'eventuale
meritevolezza del beneficio premiale».
Per il rimettente, in sostanza, soltanto l'eventuale declaratoria
di illegittimita' costituzionale della «preclusione assoluta» alla
concessione del permesso premio consentirebbe al tribunale di
sorveglianza «di non provvedere con rigetto del reclamo per
inammissibilita' dell'istanza di permesso premio e di vagliarne
invece la meritevolezza nel caso concreto», e cioe' di verificare se
sussistano i requisiti di merito indicati nell'art. 30-ter ordin.
penit. in ordine al mantenimento di una regolare condotta da parte
del condannato nel corso della sua detenzione nonche', trattandosi di
condannato per delitti compresi nell'art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit., di accertare «il requisito dell'acquisizione di elementi tali
da escludere l'attualita' di collegamenti con la criminalita'
organizzata».
Il giudice a quo, in ogni caso, riferisce che il reclamante e'
ininterrottamente detenuto dal marzo 1995, sicche' ha «vissuto oltre
ventiquattro anni di pena effettiva», fruendo di 2160 giorni di
liberazione anticipata per aver partecipato all'opera rieducativa
condotta nei suoi confronti, e soddisfa dunque l'altro requisito di
ammissibilita' (raggiunto nell'anno 2005) per la concessione di un
permesso premio al condannato alla pena dell'ergastolo, consistente
nell'aver espiato la quota di pena di almeno dieci anni indicata
dall'art. 30-ter, comma 4, lettera d), ordin. penit.
6.2.2.- In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente
evidenzia che, sebbene si tratti in entrambi i casi di condannati
all'ergastolo per reati ricompresi nell'elenco dell'art. 4-bis,
ordin. penit., che hanno chiesto di ottenere un permesso premio, la
posizione all'esame del Tribunale di sorveglianza di Perugia
differisce da quella esaminata dalla Corte di cassazione, poiche' il
ricorrente e' stato condannato per delitti commessi al fine di
agevolare il gruppo criminale organizzato ex art. 416-bis cod. pen.
del quale e' stato riconosciuto partecipe, con ruolo sviluppatosi nel
corso del tempo nelle diverse vicende criminose che lo hanno visto
protagonista.
Tuttavia, ritiene il rimettente che anche la situazione del
condannato ricorrente nel giudizio a quo «meriti un vaglio circa la
pericolosita' sociale realizzato in concreto dal competente
magistrato di sorveglianza e non precluso assolutamente», come invece
accade in ragione della disposizione di ordinamento penitenziario
della cui legittimita' costituzionale si dubita.
Grande rilievo viene attribuito alla giurisprudenza della Corte
costituzionale relativa al superamento degli automatismi e delle
preclusioni assolute per la concessione dei benefici penitenziari
alle detenute madri di prole in tenera eta' (sentenza n. 239 del
2014) e ai condannati alla pena dell'ergastolo per sequestro di
persona a scopo di estorsione che abbiano cagionato la morte del
sequestrato (sentenza n. 149 del 2018). Pronunce di cui vengono
riprodotti ampi passaggi, seguendo la traccia della motivazione
disegnata dalla Corte di cassazione nel sollevare le analoghe
questioni in precedenza illustrate.
Il rimettente sottolinea in modo particolare che, in materia di
permessi premio, «i dubbi si accrescono», alla luce della
peculiarita' del beneficio, per ottenere il quale sono sufficienti
requisiti diversi e meno pregnanti del ravvedimento, richiesto per
ottenere la liberazione condizionale (fattispecie scrutinata in
passato dalla Corte costituzionale «rispetto alle ostativita'
dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit.»: e' richiamata la sentenza n.
135 del 2003), e della sua «necessita'» per favorire ulteriori
progressioni trattamentali e soddisfare esigenze di cura di interessi
affettivi, culturali o lavorativi.
Il Tribunale di sorveglianza di Perugia ritiene, dunque, di
condividere i dubbi sulla legittimita' costituzionale dell'art.
4-bis, comma 1, ordin. penit. gia' espressi dalla Corte di cassazione
con l'ordinanza in precedenza ampiamente illustrata e di cui riporta
ampi stralci, estendendo pero' la questione di legittimita'
costituzionale «alla preclusione alla possibilita' di essere ammesso
alla fruizione di un permesso premio per il condannato alla pena
dell'ergastolo che abbia commesso delitti con la finalita' di
agevolazione di un gruppo criminale ex art. 416-bis cod. pen. del
quale sia stato riconosciuto partecipe».
Anche in relazione a tale posizione, infatti, il giudice a quo
dubita che sia compatibile con gli artt. 3 e 27 Cost. «l'elevazione
della collaborazione con la giustizia a prova legale del venir meno
della pericolosita' sociale del condannato», impedendo che la
magistratura di sorveglianza vagli nel caso concreto la sussistenza
di tale «comportamento (di sicura centrale importanza), ma al fianco
di altri che possono avere particolare importanza». Ricorda il
rimettente, del resto, che anche oggi, pur in presenza di una
condotta di collaborazione rilevante ai sensi dell'art. 58-ter ordin.
penit., il tribunale di sorveglianza e' chiamato a verificare in
concreto l'evoluzione personologica del condannato e anche le ragioni
che lo hanno condotto alla collaborazione, sicche', con la
proposizione delle questioni di legittimita' costituzionale in esame,
si chiede «che cio' possa farsi anche per l'opzione opposta», al fine
di valutare nel caso concreto le ragioni che hanno indotto
l'interessato a mantenere il silenzio.
A quest'ultimo proposito, ricorda ancora il Tribunale di
sorveglianza di Perugia che il diritto a mantenere il silenzio e'
stato di recente scrutinato, pur su altra materia, dalla Corte
costituzionale (e' citata l'ordinanza n. 117 del 2019), che lo
avrebbe considerato principio fondamentale dell'ordinamento
costituzionale e descritto come «corollario essenziale
dell'inviolabilita' del diritto di difesa, riconosciuto dall'art. 24
Cost.», in quanto tale «appartenente al novero dei diritti
inalienabili della persona umana», quando le proprie dichiarazioni
possano rivelarsi autoaccusatorie, sicche' esso entrerebbe «in
significativa frizione con un meccanismo che impedisce l'accesso a
ogni misura extramuraria se non vi si rinuncia». Per questo motivo,
sarebbe necessario poter valutare le ragioni che, «anche al di la'
delle propalazioni autoaccusatorie», incidono sulla scelta di non
collaborare attivamente, quali: i timori per la propria e l'altrui
incolumita', in particolare di congiunti e familiari che, ad esempio,
non possano sradicarsi dai luoghi di origine in cui furono commessi i
reati; il rifiuto di causare la carcerazione di altri, con i quali,
ancora in via esemplificativa, si abbia o si sia avuto un legame
familiare o affettivo; il rifiuto di accedere alla collaborazione
perche' non si vuole essere tacciati di averlo fatto soltanto per
calcolo utilitaristico, per una riduzione di pena o per ottenere un
beneficio penitenziario.
Inoltre, il giudice a quo ritiene che il comma 1 dell'art. 4-bis,
ordin. penit., non distinguendo tra i differenti benefici
penitenziari, non consenta di valutare le peculiarita' di ciascun
istituto, richiedendo, piuttosto, la collaborazione tanto come prova
necessaria per dimostrare il ravvedimento del condannato (requisito
proprio della sola liberazione condizionale), quanto per un permesso
premio che presuppone, invece, «la piu' modesta regolare condotta».
Nella prospettiva del rimettente, il permesso premio costituisce
uno «strumento fondamentale» per consentire al condannato di
progredire «nel senso di responsabilita' e nella capacita' di
gestirsi nella legalita'», e allo stesso magistrato di sorveglianza
di vagliare i progressi trattamentali compiuti e la capacita' di
reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale.
Anzi, proprio la possibilita' di fruirne nel tempo e con
regolarita', «in assenza di eventuali involuzioni comportamentali»,
potrebbe far emergere «un sempre piu' convinto allontanamento dal
sistema di vita criminale in precedenza abbracciato», producendo uno
«sradicamento da eventuali contesti sociali controindicati»,
stimolando condotte collaborative e fungendo da «sprone verso il
reinserimento», necessariamente prodromico alla concessione di misure
alternative.
Sotto una diversa angolazione, il rimettente evidenzia che il
permesso premio persegue anche l'obbiettivo peculiare di «garantire
all'interessato l'esercizio pieno di diritti, altrimenti
legittimamente compressi dalla condizione detentiva», e in
particolare il mantenimento o il ristabilimento, dopo anche lungo
tempo, delle relazioni, anche intime, con la famiglia. Per il
rimettente, considerazioni legate alla pericolosita' sociale
individuale del condannato «ben possono, e debbono, condurre al
rigetto di un beneficio premiale», che le esigenze da ultimo
illustrate potrebbe soddisfare, ma la sussistenza di una preclusione
assoluta, sganciata da una valutazione del caso concreto «e nel tempo
comunque rivedibile», appare «maggiormente stridente a fronte dei
diritti fondamentali compressi», anche tenuto conto degli interessi
«esterni ed eterogenei», costituiti dalle aspirazioni al mantenimento
dell'unita' familiare da parte del coniuge o convivente e dei figli,
ma anche dei genitori di eta' avanzata.
Ancora, l'ordinanza di rimessione concede ampio spazio alle
affermazioni di principio - in tema di progressivita' trattamentale e
flessibilita' della pena - contenute nella sentenza n. 149 del 2018
della Corte costituzionale, di cui vengono riportati numerosi
passaggi motivazionali, per evidenziare come l'art. 4-bis, comma 1,
ordin. penit. svuoterebbe di significato anche la disciplina della
liberazione anticipata, che nel caso di condannato all'ergastolo ha
come effetto principale quello di anticipare i termini per la
concessone dei singoli benefici, rappresentando uno stimolo per il
detenuto a partecipare al programma rieducativo: nel caso di
ergastolo ostativo si avrebbe, infatti, un reale disincentivo a
partecipare al trattamento, non potendo il condannato in alcun modo
avvantaggiarsene, neppure per anticipare il momento di fruizione di
benefici extramurari.
Il rimettente e' ben consapevole che la posizione soggettiva del
reclamante nel giudizio principale e' quella di un «intraneo ad un
gruppo criminale organizzato ex art. 416-bis cod. pen.», autore di
omicidi volti a consentirne la sopravvivenza e agevolarne gli scopi
illeciti, e che, dunque, si tratta di un soggetto per il quale «e'
particolarmente rilevante l'eventuale collaborazione con la giustizia
che, secondo regole di esperienza trasfuse in una costante
giurisprudenza», di legittimita' e costituzionale, costituisce «la
piu' forte prova della rescissione del vincolo associativo e dunque
del venir meno della pericolosita' sociale dell'interessato».
Ritiene, tuttavia, che, anche in tal caso, nella peculiare fase
dell'esecuzione penale, la preclusione assoluta alla concessione di
un beneficio penitenziario, in assenza di una condotta collaborativa,
si ponga in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., poiche' impedisce
«il vaglio di altri elementi che nel caso concreto potrebbero
condurre ugualmente ad un giudizio di cessata pericolosita' sociale e
di meritevolezza dell'invocato beneficio», secondo un giudizio
individualizzato e costantemente attualizzato, nel rispetto dei
principi di umanizzazione e funzione rieducativa delle pene.
Secondo il collegio rimettente, dalla stessa giurisprudenza
costituzionale immediatamente successiva all'introduzione
dell'assoluta ostativita' di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit. (sono richiamate le sentenze n. 137 del 1999, n. 445 del 1997
e n. 504 del 1995), emergerebbe la «consapevolezza» che l'opzione
utilizzata dal legislatore, «espressione di una scelta di politica
criminale», abbia comportato una «rilevante compressione della
finalita' rieducativa della pena», con una tendenza alla
configurazione di «tipi d'autore per i quali la rieducazione non
sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» (e' richiamata la
sentenza n. 306 del 1993). Da allora, pero', la Corte costituzionale
avrebbe continuato nell'opera di disvelamento del «volto
costituzionale della pena», passando, con riferimento alla finalita'
rieducativa della stessa, da una lettura che collocava tale finalita'
paritariamente tra le altre, di prevenzione generale e difesa
sociale, alla considerazione che la particolare gravita' del reato
commesso, con la connessa esigenza di lanciare un robusto segnale di
deterrenza nei confronti della generalita' dei consociati, non
possano, nella fase di esecuzione della pena, «operare in chiave
distonica rispetto all'imperativo costituzionale della funzione
rieducativa della pena medesima» (e' richiamata, ancora, la sentenza
n. 149 del 2018, di cui viene sottolineato, in particolare, il
passaggio argomentativo relativo al «principio della non
sacrificabilita' della funzione rieducativa sull'altare di ogni
altra, pur legittima, funzione della pena»).
Per il giudice a quo, risulterebbero «[c]ompatibili con il quadro
costituzionale» soltanto valutazioni individualizzate, «che accolgano
l'elemento della collaborazione con la giustizia quale segnale
eminente della rescissione del vincolo con il contesto criminale
organizzato di appartenenza, ma non esclusivo», in modo da garantire
alla magistratura di sorveglianza lo spazio per un vaglio
«approfondito e globale» del percorso rieducativo eventualmente
condotto dal richiedente i benefici penitenziari, alla luce della
peculiarita' della fase dell'esecuzione penale, che si sviluppa in un
tempo che progressivamente si allontana dal reato e, mediante gli
effetti del trattamento penitenziario, consente di «verificare
l'evoluzione personologica del condannato a partire dai pur
gravissimi fatti commessi», peraltro a notevole distanza temporale da
questi ultimi, tenuto conto dei lunghi tempi previsti dal legislatore
per un simile riesame.
7.- Anche nel giudizio r.o. n. 135 del 2019 e' intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.
L'Avvocatura, oltre a richiamare quanto sostenuto nel proprio
atto di intervento nel giudizio r.o. n. 59 del 2019, osserva, per
sostenere il difetto di rilevanza della questione, che il condannato
non ha mai addotto a sostegno della sua mancata collaborazione con la
giustizia nessuna delle ragioni astrattamente ipotizzate nella
ordinanza di rimessione come possibili motivazioni del suo silenzio.
Anzi, emergerebbe dagli atti richiamati anche dal giudice rimettente
che il condannato avrebbe chiesto che la possibile collaborazione
venisse dichiarata impossibile o inesigibile, ma che tale richiesta
sarebbe stata rigettata con motivata ordinanza del tribunale di
sorveglianza nell'anno 2012.
Secondo l'Avvocatura generale, dunque, se pure e' vero che la
rimozione della preclusione, attualmente disposta dall'art. 4-bis,
ordin. penit., potrebbe consentire al condannato di fruire di un
permesso premio, previa valutazione da parte del tribunale di
sorveglianza dell'evoluzione della sua personalita', e' vero anche
che l'ordinanza non spiega quali siano i motivi «in ordine
all'effettiva concreta sussistenza, nella vicenda de qua, di quelle
ragioni alternative, rispetto alla collaborazione richiesta dall'art.
4 bis primo comma Ord. Pen., che, ad avviso del Giudice rimettente,
non consentirebbero di ritenere la mancata collaborazione idonea a
rivelare - di per se' solo - la perdurante pericolosita' sociale del
soggetto».
Ritiene ancora l'Avvocatura generale che la disciplina censurata
riguarderebbe «scelte di opportunita' in materia di politica
penitenziaria», su cui la Corte costituzionale non potrebbe incidere,
rientrando esse nella discrezionalita' riservata al legislatore, ove
non esercitata in modo arbitrario. A questo proposito viene
richiamata la sentenza n. 306 del 1993, che avrebbe esplicitato le
ragioni di politica criminale che stanno alla base della scelta
legislativa, allora ritenuta dalla Corte non in conflitto con l'art.
27 Cost. (vengono citate altresi' le sentenze n. 135 del 2001, n. 68
del 1995 e n. 357 del 1994).
L'Avvocatura conclude affermando che la scelta del legislatore di
subordinare per i condannati per delitti particolarmente gravi
l'accesso ai benefici penitenziari alla collaborazione con la
giustizia, quale unica forma di superamento della presunzione di
pericolosita' sociale, non appare viziata da irragionevolezza o
contrastante con il principio rieducativo della pena, per cui un
eventuale intervento della Corte, incidendo su valutazioni affidate
alla discrezionalita' del legislatore, «risulterebbe eccedente
rispetto ai poteri alla stessa attribuiti».
8.- In data 9 settembre 2019 si e' costituito in giudizio il
detenuto P. P., ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo
l'accoglimento delle questioni prospettate.
La parte ripercorre, condividendolo, il percorso motivazionale
dell'ordinanza di rimessione ed evidenzia che, successivamente al
deposito della stessa, e' stata pronunciata dalla Corte EDU la
sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia, di cui richiama i
contenuti e che viene definita «quasi-pilota, considerati i numeri e
il dato strutturale dell'ergastolo ostativo».
P. P. chiede, inoltre, alla Corte «di valutare l'opportunita' di
estendere la sua pronuncia, ex art. 27, L. n. 87 del 1953, all'art. 4
bis, comma 1, o. p., nella parte in cui subordina alla collaborazione
utile ed esigibile con la giustizia l'accesso alle misure alternative
alla detenzione previste dal capo VI dell'o.p. (e tra esse, la
liberazione condizionale, secondo il consolidato diritto vivente)».
8.1.- In data 1° ottobre 2019, la parte ha depositato una memoria
in cui evidenzia, in risposta al rilievo dell'Avvocatura generale
dello Stato per cui il detenuto non avrebbe esplicitato le ragioni
della mancata collaborazione, che il Tribunale di sorveglianza di
Perugia, nel sollevare le questioni di legittimita' costituzionale,
ha richiamato l'ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del 2019
sulla inviolabilita' del diritto di difesa e del diritto al silenzio,
sottolineando che non poteva pretendersi dal condannato la violazione
del principio nemo tenetur se detegere.
Richiama poi il percorso del programma trattamentale tracciato
per il detenuto, insieme ai risultati conseguiti, dai quali ultimi il
giudice potrebbe valutare, una volta superata la preclusione di
legge, l'effettiva persistenza, o non, della pericolosita' del
condannato.
Contesta, poi, la deduzione dell'Avvocatura generale, secondo cui
l'accoglimento della questione di legittimita' costituzionale
sollevata determinerebbe una irragionevole disparita' di trattamento
tra detenuti condannati all'ergastolo e detenuti condannati, per i
medesimi titoli di reato, a pene temporanee, sostenendo che
spetterebbe al legislatore individuare gli opportuni rimedi (come
gia' riconosciuto dalla sentenza n. 149 del 2018).
La parte conclude ritenendo che alcun sostegno potrebbe apportare
alla tesi dell'Avvocatura generale dello Stato la (pur da
quest'ultima richiamata) sentenza n. 188 del 2019, che,
nell'evidenziare la disomogeneita' delle scelte di politica criminale
che, nel corso del tempo, hanno ampliato il catalogo delle
fattispecie ostative per finalita' di prevenzione generale, si
sarebbe limitata a scattare «una fotografia dell'attuale situazione
normativa». In ogni caso, evidenzia la parte, vi sarebbe differenza
tra «il rimuovere una fattispecie dai delitti di prima fascia (l'art.
630 c.p., ove sia stata ritenuta l'ipotesi gradata [...]) e, invece,
rimuovere una preclusione assoluta per l'accesso ai benefici».
9.- Nel giudizio e' intervenuto, con atto del 4 settembre 2019,
il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private
della liberta' personale, assumendo, in primo luogo, di essere
titolare di un interesse qualificato, tale da integrare il requisito
richiesto dalla giurisprudenza costituzionale per ammettere
l'intervento in giudizio.
In ordine alla titolarita' di un interesse qualificato, il
Garante nazionale rappresenta di essere stato istituito per «la
necessita' di rafforzare la tutela dei diritti delle persone
detenute» ed e' caratterizzato da «specifici requisiti di autonomia e
indipendenza nonche' di competenza riservata nelle discipline
concernenti i diritti umani e la loro tutela». Sempre allo stesso
scopo, vengono richiamati i compiti espressamente attribuiti dalla
legge istitutiva.
L'interveniente conclude per l'accoglimento delle questioni di
legittimita' costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza
di Perugia, associandosi alla richiesta, avanzata dalla parte P. P.,
di estendere la pronuncia di accoglimento all'art. 4-bis, ordin.
penit., nella parte in cui subordina alla collaborazione utile ed
esigibile con la giustizia l'accesso alle misure alternative alla
detenzione.
10.- Nel giudizio e' intervenuta, infine, l'Unione camere penali
italiane (UCPI), con atto depositato in data 10 settembre 2019,
assumendo di essere titolare di un interesse specifico e qualificato
ad intervenire quale soggetto terzo nel giudizio, in quanto
associazione rappresentativa dell'avvocatura penale che ha come scopo
statutario quello di «promuovere la conoscenza, la diffusione, la
concreta realizzazione e la tutela dei valori fondamentali del
diritto penale e del giusto processo», nonche' di «vigilare sulla
corretta applicazione della legge».
L'UCPI ha concluso chiedendo l'accoglimento delle questioni di
legittimita' costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza
di Perugia.
In data 1° ottobre 2019, l'UCPI ha depositato una memoria in cui
ha sviluppato gli argomenti in base ai quali ha rivendicato la
sussistenza di un interesse specifico e qualificato ad intervenire
quale soggetto terzo nel giudizio a quo.
Considerato in diritto
1.- Con ordinanza del 20 dicembre 2018 (r.o. n. 59 del 2019), la
Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimita'
costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione,
dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della liberta'), «nella parte in cui esclude
che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi
delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di
agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste, che non
abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla
fruizione di un permesso premio».
Il giudice rimettente ritiene, in primo luogo, che l'art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit. violi l'art. 3 Cost. sotto il profilo della
ragionevolezza. Esso conterrebbe, infatti, una «preclusione assoluta»
di accesso ai benefici penitenziari, e in particolare al permesso
premio, per il condannato - non collaborante con la giustizia - per
reati cosiddetti di "contesto mafioso", che non presuppongono
l'affiliazione ad una associazione mafiosa. Tale preclusione
impedirebbe al magistrato di sorveglianza qualunque valutazione in
concreto sulla pericolosita' del condannato, determinando in limine
l'inammissibilita' di ogni richiesta di quest'ultimo di accedere ai
benefici penitenziari.
La Corte di cassazione opera un richiamo alla giurisprudenza di
questa Corte sugli "automatismi" nell'applicazione delle misure
cautelari personali, secondo la quale la presunzione di
pericolosita', che impone l'applicazione della misura custodiale in
carcere, trova giustificazione - sulla base di dati d'esperienza
generalizzati, riassumibili nella formula dell'id quod plerumque
accidit - solo per l'affiliato all'associazione mafiosa, ma la stessa
giustificazione non trova in relazione ai condannati per reati che
tale affiliazione non presuppongono.
Trasponendo questa giurisprudenza alla fase dell'esecuzione della
pena, ritiene, appunto, irragionevole la «preclusione assoluta»
contenuta nella disposizione censurata, poiche' essa non
consentirebbe di distinguere tra gli affiliati a un'organizzazione
mafiosa, da una parte, e, dall'altra, gli autori di delitti commessi
avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis del codice
penale, ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni
previste dalla stessa norma.
L'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non si baserebbe, per questo
aspetto, su dati d'esperienza generalizzati, riassumibili nella
formula dell'id quod plerumque accidit, e percio' impedirebbe
incongruamente al magistrato di sorveglianza di svolgere una
valutazione in concreto sulla pericolosita' del condannato che
richiede il permesso premio.
In secondo luogo, il rimettente ritiene violato l'art. 27, terzo
comma, Cost., in quanto la disposizione censurata frustrerebbe,
impedendo in radice al condannato l'accesso ai benefici penitenziari,
gli obiettivi di risocializzazione evocati dal parametro
costituzionale in questione, anche in virtu' dei principi della
progressivita' trattamentale e della flessibilita' della pena (sono
evocate, in particolare, le sentenze n. 149 del 2018, n. 76 del 2017
e n. 239 del 2014 di questa Corte).
Infine - premesse considerazioni critiche sul rilievo attribuito
dalla disposizione censurata alla scelta di collaborare con la
giustizia quale «prova legale esclusiva di ravvedimento», e
soprattutto dell'assenza di pericolosita' sociale del condannato - il
giudice a quo ritiene che i dubbi di legittimita' costituzionale
sollevati aumentino «sol che si considerino le peculiarita' del
permesso premio ex art. 30-ter Ord. Pen.», finalizzato alla cura di
interessi affettivi, culturali e di lavoro, la concessione del quale
e' legata a valutazioni del tutto specifiche.
2.- Con ordinanza del 28 maggio 2019 (r.o. n. 135 del 2019), il
Tribunale di sorveglianza di Perugia ha a sua volta sollevato, in
riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «nella parte
in cui esclude che il condannato all'ergastolo per delitti commessi
al fine di agevolare l'attivita' dell'associazione a delinquere ex
art. 416 bis cod. pen. della quale sia stato partecipe, possa essere
ammesso alla fruizione di un permesso premio».
Chiamato a decidere il reclamo di un detenuto condannato alla
pena dell'ergastolo per il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen.
e per vari delitti di "contesto mafioso", al quale il magistrato di
sorveglianza aveva negato la concessione di un permesso premio in
assenza di collaborazione con la giustizia, il rimettente dubita che
l'obbligo di collaborare con la giustizia per poter accedere ai
benefici previsti dall'ordinamento penitenziario (e, in particolare,
ai permessi premio) sia compatibile con gli artt. 3 e 27 Cost., a
prescindere dal tipo di reato commesso dal detenuto.
Trovandosi al cospetto di un condannato, oltre che per reati di
"contesto mafioso", anche per il delitto di associazione mafiosa, il
giudice a quo segue un percorso argomentativo diverso da quello
dell'ordinanza illustrata in precedenza.
Ritiene infatti il Tribunale di sorveglianza di Perugia che,
anche nel caso dell'associato ex art. 416-bis cod. pen., nella
peculiare fase dell'esecuzione penale, la preclusione assoluta alla
concessione di un beneficio penitenziario, in assenza di una condotta
collaborativa, collida con i principi costituzionali deducibili dagli
artt. 3 e 27 Cost., poiche' impedirebbe il vaglio di elementi che, in
concreto, potrebbero condurre ugualmente a un giudizio,
individualizzato e attualizzato, di cessata pericolosita' sociale.
Osserva che non si comprende per quale motivo sia precluso al
giudice di sorveglianza, chiamato a verificare l'evoluzione del
detenuto, di verificare, in concreto, «le ragioni che hanno indotto
l'interessato a non collaborare, cioe' a mantenere il silenzio»,
evocato non quale mero atteggiamento, ma nel suo significato di
diritto inviolabile a non accusare se' stessi (e' richiamata
l'ordinanza n. 117 del 2019 di questa Corte).
Analogamente all'ordinanza della Corte di cassazione, il
rimettente evidenzia inoltre come la finalita' rieducativa della pena
sarebbe vanificata dall'impossibilita' di ottenere permessi premio, i
quali costituiscono «uno strumento fondamentale per consentire al
condannato di progredire nel senso di responsabilita' e di capacita'
di gestirsi nella legalita', e al magistrato di sorveglianza di
vagliare i progressi trattamentali compiuti e la capacita' di
reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale» (sono
richiamate le sentenze n. 149 del 2018 e n. 403 del 1997 di questa
Corte). I permessi premio, ricorda il rimettente, consentono anche
«l'esercizio pieno di diritti», tra i quali «il mantenimento o il
ristabilimento, dopo anche lungo tempo, delle relazioni con la
famiglia».
Il Tribunale di sorveglianza di Perugia sottolinea, quindi, con
ulteriore richiamo alla sentenza n. 149 del 2018, che la disposizione
colliderebbe con l'art. 27 Cost. anche perche' l'impossibilita' di
ottenere un qualsiasi beneficio premiale in assenza di collaborazione
costituirebbe un disincentivo alla stessa partecipazione del
condannato al percorso rieducativo connesso al trattamento
penitenziario, con evidente mortificazione degli obiettivi che la
norma costituzionale si pone.
Infine - anche su questo aspetto distinguendosi dall'ordinanza
della Corte di cassazione - il rimettente sottolinea la peculiarita'
dell'esecuzione penale rispetto alla fase cautelare: mentre
quest'ultima potrebbe infatti tollerare qualche presunzione, la
prima, sviluppandosi lungo un arco temporale piu' esteso,
richiederebbe una valutazione costante dell'evoluzione personologica
del condannato, che tenga conto del trascorrere del tempo e della
distanza dal reato commesso.
3.- Sebbene presentino profili di parziale differenziazione nei
percorsi argomentativi, le due ordinanze di rimessione censurano la
stessa disposizione ed evocano i medesimi parametri costituzionali. I
relativi giudizi vanno percio' riuniti, per essere decisi con
un'unica pronuncia.
4.- In via preliminare, va confermata l'ordinanza dibattimentale
allegata alla presente sentenza, che ha dichiarato inammissibili
tutti gli interventi spiegati da soggetti diversi dalle parti dei
giudizi principali.
5.- Sempre in via preliminare, devono essere correttamente
definiti il thema decidendum e i termini delle questioni di
legittimita' costituzionale portate all'attenzione di questa Corte
dalle ordinanze di rimessione illustrate.
5.1.- In primo luogo, nel giudizio r.o. n. 59 del 2019, la parte
S. C. ha prospettato, nell'atto di costituzione, anche la violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 3 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Trattasi, pero', di censura che il collegio rimettente non ha
inteso proporre nell'atto di promovimento. Secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte, non possono essere presi in
considerazione ulteriori profili di illegittimita' costituzionale
dedotti dalle parti oltre i limiti dell'ordinanza di rimessione; e
cio', sia che siano stati eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a
quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente
il thema decidendum, una volta che le parti si siano costituite nel
giudizio incidentale di costituzionalita' (ex multis, da ultimo,
sentenze n. 226, n. 206, n. 141, n. 96 e n. 78 del 2019).
Di tale censura questa Corte non deve percio' occuparsi.
5.2.- In secondo luogo, le questioni di legittimita'
costituzionale sollevate non riguardano la legittimita'
costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo
ostativo, sulla cui compatibilita' con la CEDU si e', di recente,
soffermata la Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 13 giugno
2019, Viola contro Italia.
Questo sarebbe stato l'oggetto delle presenti questioni se le
ordinanze di rimessione avessero censurato - oltre che l'art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit. - anche la previsione contenuta nell'art. 2,
comma 2, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti
urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata e di
trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa),
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203,
che, richiamando l'art. 176 cod. pen., non consente di concedere la
liberazione condizionale al condannato all'ergastolo che non
collabora con la giustizia e che abbia gia' scontato ventisei anni
effettivi di carcere, cosi' trasformando la pena perpetua de iure in
una pena perpetua anche de facto.
Le questioni di legittimita' costituzionale ora in esame
attengono, invece, non alla condizione di chi ha subito una condanna
a una determinata pena, bensi' a quella di colui che ha subito
condanna (all'ergastolo, in entrambi i giudizi a quibus) per reati
cosiddetti ostativi, in specie i delitti di associazione di tipo
mafioso ai sensi dell'art. 416-bis cod. pen., e quelli commessi
avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo, ovvero
al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste.
Infatti, e' portato all'attenzione di questa Corte l'art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit., ai sensi del quale la condanna per i delitti
che esso elenca - si tratti di condanna a pena perpetua oppure a pena
temporanea - impedisce l'accesso ai benefici penitenziari, e in
special modo al permesso premio, in assenza di collaborazione con la
giustizia ai sensi dell'art. 58-ter ordin. penit. (secondo cui
l'utile collaborazione, anche dopo la condanna, consiste nell'essersi
adoperati per evitare che l'attivita' delittuosa sia portata a
conseguenze ulteriori ovvero nell'aiutare concretamente l'autorita'
di polizia o l'autorita' giudiziaria nella raccolta di elementi
decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la
cattura degli autori dei reati).
I giudici a quibus, per parte loro, hanno "costruito" le
questioni di legittimita' costituzionale modellandole sulle
fattispecie portate alla loro attenzione, nelle quali la richiesta di
accesso al permesso premio riguardava due condannati alla pena
dell'ergastolo, per i delitti prima specificati. Ma questa Corte non
deve risolvere tali specifici giudizi, bensi' pronunciarsi sulla
disposizione di legge censurata, decidendo questioni di legittimita'
costituzionale rilevanti in quei giudizi.
Tali questioni riguardano percio' l'art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit., in quanto recante una disciplina da applicarsi a tutti i
condannati, a pena perpetua o temporanea, per i reati di
partecipazione ad associazione mafiosa e di "contesto mafioso". Per
tutti costoro, infatti, la disposizione censurata dai rimettenti
richiede la collaborazione con la giustizia quale condizione per
l'accesso alla valutazione, in concreto, circa la concedibilita' dei
benefici penitenziari.
5.3.- Infine, nei processi a quibus si fa questione della sola
possibilita' di concessione, ai detenuti, di un permesso premio, non
di altri benefici.
Coerentemente con tale circostanza, i dispositivi di entrambe le
ordinanze di rimessione precisano che l'art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit. e' censurato nella sola parte in cui esclude che i condannati
per i reati descritti, che non collaborano con la giustizia, possano
essere ammessi alla fruizione dello specifico beneficio di cui
all'art. 30-ter ordin. penit.
Del resto, non solo i rimettenti, come si diceva, limitano le
proprie censure alla impossibilita' - determinata dall'art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit. - di accedere al permesso premio, ad
esclusione, percio', di qualunque riferimento agli altri benefici
penitenziari; ma e' lo stesso art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. ad
elencare distintamente i benefici che non possono essere concessi ai
detenuti per determinati reati (nonche' agli internati, la cui
posizione non e' in discussione nel presente giudizio) che non
collaborano con la giustizia: sicche' unicamente del permesso premio
si fa qui questione.
5.4.- Entrambe le ordinanze, alla luce degli artt. 3 e 27 Cost.,
censurano l'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in quanto introduce
una presunzione assoluta di mancata rescissione dei legami con la
criminalita' organizzata a carico del condannato - per i reati
precisati - che non collabori con la giustizia ai sensi dell'art.
58-ter del medesimo ordin. penit.
Proprio in virtu' di tale presunzione, assoluta in quanto non
superabile se non dalla collaborazione stessa, la disposizione
attualmente vigente fa si' che le richieste di un tale detenuto di
accedere allo specifico beneficio del permesso premio debbano
dichiararsi in limine inammissibili, senza poter essere oggetto di un
vaglio in concreto da parte del magistrato di sorveglianza (in
disparte i casi di collaborazione impossibile o irrilevante).
Se tutto cio' sia conforme ai parametri costituzionali evocati
e', in definitiva, il thema decidendum posto dalle presenti questioni
di legittimita' costituzionale.
6.- Ancora in via preliminare, deve essere vagliata l'eccezione
di inammissibilita' per difetto di rilevanza prospettata
dall'Avvocatura generale dello Stato con specifico riferimento al
giudizio instaurato dall'ordinanza (r.o. n. 135 del 2019) del
Tribunale di sorveglianza di Perugia.
Lamenta, in particolare, l'Avvocatura dello Stato che il
rimettente non avrebbe indicato le specifiche ragioni che motivano la
scelta del detenuto di non collaborare con la giustizia.
Il giudice a quo, in effetti, pur dando atto che la condotta
collaborativa costituisce manifestazione del distacco del detenuto
dal gruppo criminale di riferimento, ritiene che non possa per cio'
solo dirsi che tale condotta «sia davvero l'unica "prova legale
esclusiva di ravvedimento", perche' sono plurime le ragioni che
possono indurre un condannato a non collaborare». Tra queste ragioni
enumera, trattandone in astratto e in via di mera ipotesi: «il
rischio per la propria incolumita' e per quella dei propri congiunti,
il rifiuto morale di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti
di persone a lui legate da vincoli affettivi o amicali, o il ripudio
di una collaborazione che rischi di apparire strumentale alla
concessione di un beneficio».
L'Avvocatura lamenta proprio il carattere ipotetico e astratto di
tali ragioni, sottolineando come il reclamante nel giudizio a quo non
abbia mai addotto alcuna di queste motivazioni per giustificare la
propria mancata collaborazione. Dal che deriverebbe, appunto, il
difetto di rilevanza delle questioni sollevate, poiche', anche nel
caso di una pronuncia di accoglimento, una tale decisione non
spiegherebbe effetti nel processo a quo.
L'eccezione non e' fondata.
Sostiene, invero, il rimettente che solo se questa Corte
accogliesse le questioni - "smontando" il carattere assoluto della
presunzione di pericolosita' del detenuto che non collabora, e
permettendo cosi' che la prova dell'avvenuto distacco dal sodalizio
criminale sia fornita altrimenti - il magistrato di sorveglianza,
investito della richiesta di accesso al beneficio, potrebbe allora,
in concreto, verificare le vere ragioni che hanno condotto il
detenuto alla scelta di non collaborare.
Questa affermazione si pone, in effetti, nel solco della
giurisprudenza costituzionale in tema di rilevanza, ove (ex plurimis,
sentenze n. 20 del 2016, n. 46 e n. 5 del 2014, n. 294 del 2011) e'
ricorrente l'affermazione secondo cui, per l'ammissibilita' delle
questioni di legittimita' costituzionale sollevate in via
incidentale, e' sufficiente che la disposizione censurata sia
applicabile nel giudizio a quo, senza che rilevino gli effetti di una
eventuale pronuncia di illegittimita' costituzionale per le parti in
causa (da ultimo, sentenza n. 170 del 2019).
Del resto, anche nella prospettiva di un piu' diffuso accesso al
sindacato di costituzionalita' (messa in risalto, tra le pronunce
piu' recenti, dalla sentenza n. 77 del 2018) e di una piu' efficace
garanzia della conformita' a Costituzione della legislazione (profilo
valorizzato, da ultimo, nella sentenza n. 174 del 2019), il
presupposto della rilevanza non si identifica con l'utilita' concreta
di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della
decisione (sentenza n. 20 del 2018).
Soprattutto, con specifico riferimento alle presenti questioni,
va considerato che, secondo la disposizione censurata, il giudice e'
chiamato a fare applicazione di una disciplina che predetermina
l'esito del processo, nel senso dell'inammissibilita' della richiesta
di accesso al beneficio del permesso premio da parte del condannato
non collaborante. Invece, nell'ipotesi di accoglimento delle
sollevate questioni, il giudice a quo dovrebbe decidere secondo una
diversa regola di giudizio, attingendola dalla disciplina di
riferimento, privata della norma in ipotesi dichiarata
incostituzionale. E quand'anche l'esito del giudizio a quo sia il
medesimo - la non concessione del permesso premio - la pronuncia di
questa Corte influirebbe di certo sul percorso argomentativo che il
rimettente dovrebbe a questo punto seguire per decidere sulla
richiesta del detenuto (tra le molte, sentenza n. 28 del 2010,
nonche', con riferimento alle questioni relative alle cosiddette
norme penali di favore, sentenze n. 394 del 2006, n. 161 del 2004 e
n. 148 del 1983).
7.- Venendo al merito, questa Corte ritiene opportuno scrutinare
in primo luogo le questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza
di Perugia, in quanto, riferendosi alla posizione del condannato sia
per partecipazione all'associazione di cui all'art. 416-bis cod.
pen., sia per reati di "contesto mafioso", la decisione su di esse
potrebbe assorbire quelle sollevate dalla Corte di cassazione
esclusivamente in riferimento al condannato per questi ultimi
delitti.
Le questioni sono fondate, nei termini di seguito precisati.
7.1.- «Sono fin troppo note le ragioni di politica criminale che
indussero il legislatore dapprima ad introdurre e poi a modificare,
secondo una linea di progressivo inasprimento, l'art. 4-bis della
legge 26 luglio 1975, n. 354» (sentenza n. 68 del 1995), riversando
cosi' tali ragioni all'interno dell'ordinamento penitenziario e
dell'esecuzione della pena.
Nella prima versione - introdotta dall'art. 1 del d.l. n. 152 del
1991, come convertito - l'art. 4-bis ordin. penit. prevedeva due
distinte "fasce" di condannati, a seconda della riconducibilita',
piu' o meno diretta, dei titoli di reato a fatti di criminalita'
organizzata o eversiva.
Per i reati "di prima fascia" - comprendenti l'associazione di
tipo mafioso, i relativi "delitti-satellite", il sequestro di persona
a scopo di estorsione e l'associazione finalizzata al narcotraffico -
l'accesso a taluni benefici previsti dall'ordinamento penitenziario
era possibile, alla stregua di un parametro probatorio
particolarmente elevato, solo se fossero stati acquisiti «elementi
tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la criminalita'
organizzata o eversiva».
Per i reati "di seconda fascia" (omicidio, rapina ed estorsione
aggravate, nonche' produzione e traffico di ingenti quantita' di
stupefacenti: «delitti, questi, per i quali le connessioni con la
criminalita' organizzata erano, nella valutazione del legislatore,
meramente eventuali», come affermato nella sentenza n. 149 del 2018)
si richiedeva - in termini inversi, dal punto di vista probatorio -
l'insussistenza di elementi tali da far ritenere attuali detti
collegamenti.
Accanto a questa distinzione di fondo, singole previsioni
stabilivano, quale ulteriore requisito per l'ammissione a specifici
benefici (tra i quali il permesso premio), che i condannati avessero
espiato un periodo minimo di pena piu' elevato dell'ordinario, a meno
che non si trattasse di persone che avevano collaborato con la
giustizia, secondo la nuova previsione dell'art. 58-ter ordin.
penit., che lo stesso d.l. n. 152 del 1991, come convertito, aveva
introdotto nella legge penitenziaria del 1975.
In questa prima fase, dunque, il trattamento di maggior rigore
per i condannati per reati di criminalita' organizzata veniva
realizzato su due piani, fra loro complementari. Come spiega la
sentenza n. 68 del 1995: da un lato «si stabiliva, quale presupposto
generale per l'applicabilita' di alcuni istituti di favore, la
necessita' di accertare (alla stregua di una graduazione probatoria
differenziata a seconda delle "fasce" di condannati) l'assenza di
collegamenti con la criminalita' organizzata o eversiva; dall'altro,
si postulava, attraverso l'introduzione o l'innalzamento dei livelli
minimi di pena gia' espiata, un requisito specifico per l'ammissione
ai singoli benefici, fondato sulla necessita' di verificare per un
tempo piu' adeguato l'effettivo percorso di risocializzazione di
quanti si fossero macchiati di delitti iscrivibili nell'area della
criminalita' organizzata o eversiva. Requisito, a sua volta, dal
quale il legislatore riteneva di poter prescindere in tutti i casi in
cui fosse lo stesso condannato ad offrire prova dell'intervenuto
distacco dal circuito criminale attraverso la propria condotta
collaborativa».
Subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, si produce un
evidente mutamento di prospettiva, nettamente ispirato «a finalita'
di prevenzione generale e di tutela della sicurezza collettiva»
(sentenza n. 306 del 1993).
L'art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche
urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di
contrasto alla criminalita' mafiosa), convertito, con modificazioni,
nella legge 7 agosto 1992, n. 356, apporta decisive modifiche
all'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975. Per quel che piu'
direttamente ora interessa, nei confronti dei condannati per i reati
appartenenti alla prima "fascia", si stabilisce che l'assegnazione al
lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla
detenzione, ad eccezione della liberazione anticipata, possono essere
concessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia (fatte
salve alcune ipotesi per le quali i benefici sono applicabili anche
se la collaborazione offerta risulti oggettivamente impossibile o
irrilevante e sempre che sussistano, in questi casi, elementi tali da
escludere in maniera certa l'attualita' dei collegamenti con la
criminalita' organizzata).
Restano sullo sfondo i diversi parametri probatori, alla cui
stregua condurre l'accertamento circa la permanenza, nel condannato
che aspira ai benefici penitenziari, di legami con la criminalita'
organizzata; e acquisisce invece risalto esclusivo una condotta,
quella della collaborazione con la giustizia, assunta come la sola
idonea a dimostrare, per facta concludentia, l'intervenuta
rescissione di quei collegamenti. Ancora la sentenza n. 68 del 1995:
si passa «da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata
per accertare l'inesistenza di una condizione negativa (assenza dei
collegamenti con la criminalita' organizzata), ad un modello che
introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto
attraverso una condotta qualificata (la collaborazione)».
Come mette in luce la sentenza n. 239 del 2014, la nuova
disciplina poggia insomma sulla presunzione legislativa che la
commissione di determinati delitti dimostri l'appartenenza
dell'autore alla criminalita' organizzata, o il suo collegamento con
la stessa, e costituisca, quindi, un indice di pericolosita' sociale
incompatibile con l'ammissione del condannato ai benefici
penitenziari extramurari. La scelta di collaborare con la giustizia
viene correlativamente assunta come la sola idonea a rimuovere
l'ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in ragione della
sua valenza "rescissoria" del legame con il sodalizio criminale. Si
coniuga a cio' - assumendo, in fatto, un rilievo preminente -
l'obiettivo di incentivare, per ragioni investigative e di politica
criminale generale, la collaborazione con la giustizia dei soggetti
appartenenti o "contigui" ad associazioni criminose, che appare come
strumento essenziale per la lotta alla criminalita' organizzata.
Per converso, la mancata collaborazione con la giustizia fonda la
presunzione assoluta che i collegamenti con l'organizzazione
criminale siano mantenuti ed attuali, ricavandosene la permanente
pericolosita' del condannato, con conseguente inaccessibilita' ai
benefici penitenziari normalmente disponibili agli altri detenuti.
Infine, recependo le indicazioni di questa Corte (sentenze n. 68
del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), il comma 1-bis
dell'art. 4-bis ordin. penit. estende la possibilita' di accesso ai
benefici ai casi in cui un'utile collaborazione con la giustizia
risulti inesigibile, per la limitata partecipazione del condannato al
fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna, ovvero
impossibile, per l'integrale accertamento dei fatti e delle
responsabilita', operato con la sentenza irrevocabile; nonche' ai
casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli
«oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia
stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di
cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen. In tutte le ipotesi
dianzi indicate occorre, peraltro, che «siano stati acquisiti
elementi tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva».
7.2.- La presunzione dell'attualita' di collegamenti con la
criminalita' organizzata, cosi' introdotta nell'art. 4-bis, comma 1,
ordin. penit. e' assoluta, nel senso che non puo' essere superata da
altro se non dalla collaborazione stessa. Quest'ultima, per i
condannati per i delitti ricordati, e' l'unico elemento che puo'
consentire l'accesso ai benefici previsti dall'ordinamento
penitenziario. E' cosi' introdotto un trattamento distinto rispetto a
quello che vale per tutti gli altri detenuti.
In questi specifici termini deve essere precisata la precedente
giurisprudenza di questa Corte, che ha sostenuto non potersi
qualificare questa disciplina come «"costrizione" alla delazione»,
poiche' spetta al detenuto adottare o meno quel comportamento
(sentenza n. 39 del 1994).
A ben guardare, l'inaccessibilita' ai benefici penitenziari, per
il detenuto che non collabora, non e' un vero automatismo, poiche' e'
lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a poter spezzare la
consequenzialita' della disposizione censurata. L'inaccessibilita' ai
benefici penitenziari e' insomma una preclusione che non discende
automaticamente dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «ma deriva
dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle
condizioni di farlo» (sentenza n. 135 del 2003).
Purtuttavia, la presunzione della mancata rescissione dei
collegamenti con la criminalita' organizzata, che incombe sul
detenuto non collaborante, e' assoluta, perche' non puo' essere
superata da altro, se non dalla collaborazione stessa. E, come si
chiarira', e' proprio questo carattere assoluto a risultare in
contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
7.3.- Nella sentenza n. 306 del 1993, che questa Corte pronuncio'
a breve distanza dall'entrata in vigore della disciplina introdotta
dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, si riconosce che il
requisito della collaborazione, quale condizione per l'accesso ai
benefici penitenziari, «e' essenzialmente espressione di una scelta
di politica criminale», adottata per finalita' di prevenzione
generale e di sicurezza collettiva.
Sottolineando che la scelta legislativa costituiva risposta alla
necessita' di contrastare una criminalita' organizzata «aggressiva e
diffusa», la sentenza non condivide la tesi, sostenuta nella
relazione alla legge di conversione del d.l. n. 306 del 1992, secondo
cui la decisione di collaborare e' la sola ad esprimere con certezza
la «volonta' di emenda» del condannato, sicche' essa assumerebbe una
valenza anche "penitenziaria", non estranea al principio della
funzione rieducativa della pena («e' solo la scelta collaborativa ad
esprimere con certezza quella volonta' di emenda che l'intero
ordinamento penale deve tendere a realizzare»: cosi' la relazione
presentata in Senato in sede di conversione del d.l. n. 306 del 1992
- atto n. 328).
Su questo profilo, la sentenza sottolineo' che l'art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit. non puo' essere presentato sotto le vesti di
una disposizione di natura "penitenziaria", giacche' la
collaborazione con la giustizia non necessariamente e' sintomo di
credibile ravvedimento, cosi' come il suo contrario (la mancata
collaborazione) non puo' assurgere a insuperabile indice legale di
mancato ravvedimento o "emenda", secondo una lettura
"correzionalistica" della rieducazione: «non puo' non convenirsi con
i giudici a quibus quando sostengono che la condotta di
collaborazione ben puo' essere frutto di mere valutazioni
utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non
anche segno di effettiva risocializzazione».
Sono argomenti, questi ultimi, considerati, sia pur con
riferimento a un diverso beneficio, dalla Corte EDU nella gia'
ricordata sentenza Viola, nelle parti espressamente dedicate alla
collaborazione con la giustizia, ove viene sottoposta a critica una
disposizione che assume iuris et de iure la permanenza di
collegamenti con associazioni criminali del non collaborante ed eleva
aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo eloquente di
abbandono della scelta di vita originaria, quando in realta' essa
potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non sempre
commendevoli.
Quel che piu' conta, la sentenza n. 306 del 1993 - pur
dichiarando, tra l'altro, non fondate le questioni allora sollevate
sull'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit, in relazione all'art. 27,
terzo comma, Cost. - osservo' che inibire l'accesso ai benefici
penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non
collaborino con la giustizia, comporta una «rilevante compressione»
della finalita' rieducativa della pena: «la tipizzazione per titoli
di reato non appare consona ai principi di proporzione e di
individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento
penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla
configurazione normativa di "tipi d'autore", per i quali la
rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita»
in caso di mancata collaborazione.
8.- Queste ultime valutazioni vanno sviluppate, e conducono oggi
all'accoglimento delle questioni sollevate, nei termini che ora si
chiariranno.
Non e' la presunzione in se' stessa a risultare
costituzionalmente illegittima. Non e' infatti irragionevole
presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami
con l'organizzazione criminale di originaria appartenenza, purche' si
preveda che tale presunzione sia relativa e non gia' assoluta e
quindi possa essere vinta da prova contraria.
Mentre una disciplina improntata al carattere relativo della
presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa
costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione
speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena,
non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma,
Cost. - agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione
- una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di
attualita' dei collegamenti con la criminalita' organizzata.
Cio' sotto tre profili, distinti ma complementari.
In un primo senso, perche' all'assolutezza della presunzione sono
sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza
collettiva che incidono sull'ordinario svolgersi dell'esecuzione
della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del
detenuto non collaborante.
In un secondo senso, perche' tale assolutezza impedisce di
valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la
funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla
vita sociale, ai sensi dell'art. 27, terzo comma, Cost.
In un terzo senso, perche' l'assolutezza della presunzione si
basa su una generalizzazione, che puo' essere invece contraddetta, a
determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni
contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter
essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte
della magistratura di sorveglianza.
8.1.- Dal primo punto di vista, il congegno normativo inserito
nell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dal d.l. n. 306 del 1992,
come convertito, e' espressione di una trasparente opzione di
politica investigativa e criminale. In quanto tale, essa immette nel
percorso carcerario del condannato - attraverso il decisivo rilievo
attribuito alla collaborazione con la giustizia anche dopo la
condanna - elementi estranei ai caratteri tipici dell'esecuzione
della pena.
La disposizione in esame, infatti, prefigura una sorta di scambio
tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente
possibilita' per il detenuto di accedere al normale percorso di
trattamento penitenziario.
Per i condannati per i reati elencati nella disposizione
censurata, infatti, e' costruita una disciplina speciale (sentenza n.
239 del 2014), ben diversa da quella prevista per la generalita'
degli altri detenuti.
Essi possono accedere ai benefici previsti dall'ordinamento
penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia, ai sensi
dell'art. 58-ter ordin. penit. Se tale collaborazione non assicurino,
ai benefici in questione non potranno accedere mai, neppure dopo aver
scontato le frazioni di pena richieste quale ordinario presupposto
per l'ammissione a ciascun singolo beneficio (previste per il
permesso premio dall'art 30-ter, comma 4, ordin. penit.). E se invece
collaborino secondo le modalita' contemplate dal citato art. 58-ter,
a tali benefici potranno accedere senza dover previamente scontare la
frazione di pena ordinariamente prevista, in forza della soluzione
interpretativa gia' individuata, sia da questa Corte (sentenze n. 174
del 2018 e n. 504 del 1995), sia dalla giurisprudenza di legittimita'
(Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 3 febbraio 2016,
n. 37578 e 12 luglio 2006, n. 30434).
La disciplina in esame, quindi, a seconda della scelta compiuta
dal soggetto, aggrava il trattamento carcerario del condannato non
collaborante rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non
ostativi, oppure, al contrario, lo agevola, giacche', in presenza di
collaborazione, introduce a favore del detenuto elementi premiali
rispetto alla disciplina ordinaria.
Ma, alla stregua dei principi di ragionevolezza, di
proporzionalita' della pena e della sua tendenziale funzione
rieducativa, un conto e' l'attribuzione di valenza premiale al
comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una
collaborazione utile ed efficace, ben altro e' l'inflizione di un
trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris
et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato e percio'
socialmente pericolosa.
Il valore "premiale" della collaborazione - che rende
immediatamente accessibili tutti i benefici, senza necessita' di
raggiungere le soglie di pena previste ordinariamente - si giustifica
sia considerando che essa e' ragionevole indice del presumibile
abbandono dell'originario sodalizio criminale, sia in virtu' della
determinante utilita' che ha mostrato sul piano del contrasto alle
organizzazioni mafiose.
Del resto, nel piu' ampio contesto del comportamento intramurale,
la collaborazione assume rilievo, oltre che come dimostrazione della
rottura con il circuito criminale, anche ai fini della complessiva
valutazione dell'iter rieducativo.
Invece, alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., l'assenza di
collaborazione con la giustizia dopo la condanna non puo' tradursi in
un aggravamento delle modalita' di esecuzione della pena, in
conseguenza del fatto che il detenuto esercita la facolta' di non
prestare partecipazione attiva a una finalita' di politica criminale
e investigativa dello Stato.
Come configurata dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la
mancata collaborazione infligge ulteriori conseguenze negative, che
non hanno diretta connessione con il reato commesso, ma derivano
unicamente, appunto, dal rifiuto del detenuto di prestare la
collaborazione in parola, nella sostanza aggravando le condizioni di
esecuzione della pena gia' inflittagli al termine del processo.
In disparte ogni considerazione - su cui insiste il rimettente -
circa il rilievo del diritto al silenzio nella fase di esecuzione
della pena (la giurisprudenza costituzionale ha affermato che esso e'
corollario essenziale dell'inviolabilita' del diritto di difesa
riconosciuto dall'art. 24 Cost. e «si esplica in ogni procedimento
secondo le regole proprie di questo»: sentenza n. 165 del 2008;
ordinanze n. 282 del 2008 e n. 33 del 2002), questa Corte non puo'
esimersi dal rilevare che l'attuale formulazione dell'art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit., anche in nome di prevalenti esigenze di
carattere investigativo e di politica criminale, opera una deformante
trasfigurazione della liberta' di non collaborare ai sensi dell'art.
58-ter ordin. penit., che certo l'ordinamento penitenziario non puo'
disconoscere ad alcun detenuto.
Garantita nel processo nella forma di vero e proprio diritto,
espressione del principio nemo tenetur se detegere, la liberta' di
non collaborare, in fase d'esecuzione, si trasforma infatti - quale
condizione per consentire al detenuto il possibile accesso
all'ordinario regime dei benefici penitenziari - in un gravoso onere
di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi
(carceratus tenetur alios detegere), ma rischia altresi' di
determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati.
Cio' non risulta conforme agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
8.2.- In secondo luogo, contrasta con l'art. 27, terzo comma,
Cost. la circostanza che la richiesta di ottenere il permesso premio
debba essere in limine dichiarata inammissibile, senza che al
magistrato di sorveglianza sia consentita una valutazione in concreto
della condizione del detenuto.
Il permesso premio, almeno per le pene medio-lunghe, rappresenta
un peculiare istituto del complessivo programma di trattamento. Esso
consente «al detenuto, a fini rieducativi, i primi spazi di liberta'»
(sentenza n. 188 del 1990), mostrando percio' una «funzione
"pedagogico-propulsiva"» (sentenza n. 504 del 1995, poi sentenze n.
445 del 1997 e n. 257 del 2006), e permette l'osservazione da parte
degli operatori penitenziari degli effetti sul condannato del
temporaneo ritorno in liberta' (sentenza n. 227 del 1995).
La giurisprudenza di questa Corte (in particolare sentenza n. 149
del 2018) ha del resto indicato come criterio costituzionalmente
vincolante quello che richiede una valutazione individualizzata e
caso per caso nella materia dei benefici penitenziari (in proposito
anche sentenza n. 436 del 1999), sottolineando che essa e'
particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore
pericolosita' legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del
2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti,
l'opzione repressiva finisce per relegare nell'ombra il profilo
rieducativo (sentenza n. 257 del 2006), in contrasto con i principi
di proporzionalita' e individualizzazione della pena (sentenza n. 255
del 2006).
La presunzione assoluta in esame impedisce proprio tale verifica
secondo criteri individualizzanti, non consentendo nemmeno - come
sottolinea il Tribunale di sorveglianza di Perugia - di valutare le
ragioni che hanno indotto il detenuto a mantenere il silenzio.
In definitiva, l'inammissibilita' in limine della richiesta del
permesso premio puo' arrestare sul nascere il percorso
risocializzante, frustrando la stessa volonta' del detenuto di
progredire su quella strada.
Cio' non e' consentito dall'art. 27, terzo comma, Cost.
8.3.- In terzo luogo, la giurisprudenza di questa Corte
sottolinea che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un
diritto fondamentale della persona, violano il principio di
uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non
rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella
formula dell'id quod plerumque accidit» (sentenza n. 268 del 2016; in
precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del
2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n. 41 del 1999 e n. 139 del
1982).
In particolare, l'irragionevolezza di una presunzione assoluta si
coglie tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di
accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della
presunzione stessa.
Nel presente caso, la generalizzazione che fonda la presunzione
assoluta consiste in cio': se il condannato per il delitto di
associazione mafiosa e/o per delitti di "contesto mafioso" non
collabora con la giustizia, la mancata collaborazione e' indice (non
superabile se non dalla collaborazione stessa) della circostanza per
cui egli non ha spezzato i legami che lo tengono avvinto
all'organizzazione criminale di riferimento.
Sono ben note le ragioni di una tale generalizzazione.
L'appartenenza ad una associazione di stampo mafioso implica
un'adesione stabile ad un sodalizio criminoso, di norma fortemente
radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di
collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e
capace di protrarsi nel tempo (in materia cautelare, sentenze n. 48
del 2015, n. 213 del 2013, n. 57 del 2013, n. 164 e n. 231 del 2011;
ordinanza n. 136 del 2017).
Tali ragioni sono di notevolissima importanza e non si sono
affatto affievolite in progresso di tempo.
Nonostante cio', nella fase cautelare, in presenza di gravi
indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416-bis
cod. pen., la presunzione di sussistenza di esigenze cautelari e'
relativa, perche' puo' essere vinta dall'acquisizione di elementi dai
quali risulti che tali esigenze non sussistono (art. 275, comma 3,
cod. proc. pen.).
Se tali esigenze tuttavia sussistono, esse si presumono - con
presunzione questa volta iuris et de iure - non fronteggiabili con
misure diverse dalla custodia in carcere (sentenza n. 265 del 2010,
ordinanza n. 136 del 2017), non solo per le peculiari connotazioni
del sodalizio criminale, ma anche perche' la valutazione e' svolta
quasi nell'immediatezza del fatto o, comunque, in un momento non
lontano dalla sua supposta commissione.
Nella fase di esecuzione della pena, assume invece ruolo centrale
il trascorrere del tempo, che puo' comportare trasformazioni
rilevanti, sia della personalita' del detenuto, sia del contesto
esterno al carcere, ed e' questa situazione che induce a riconoscere
carattere relativo alla presunzione di pericolosita' posta a base del
divieto di concessione del permesso premio.
E' certo possibile che il vincolo associativo permanga inalterato
anche a distanza di tempo, per le ricordate caratteristiche del
sodalizio criminale in questione, finche' il soggetto non compia una
scelta di radicale distacco, quale quella che - in particolare, ma
non esclusivamente, secondo la ratio stessa di questa pronuncia - e'
espressa dalla collaborazione con la giustizia. Peraltro, per i casi
di dimostrati persistenti legami del detenuto con il sodalizio
criminale originario, l'ordinamento penitenziario appresta l'apposito
regime di cui all'art. 41-bis, che non e' ovviamente qui in
discussione e la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone
proprio l'attualita' dei loro collegamenti con organizzazioni
criminali (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017).
Ma, in disparte simili vicende, il decorso del tempo della
esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che
consideri l'evoluzione della personalita' del detenuto. Cio' in forza
dell'art. 27 Cost., che in sede di esecuzione e' parametro
costituzionale di riferimento (a differenza di quanto accade in sede
cautelare: ordinanza n. 532 del 2002).
Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non puo'
che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti
la possibilita' di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento
dello stesso detenuto, potendosi ipotizzare che l'associazione
criminale di originario riferimento, ad esempio, non esista piu',
perche' interamente sgominata o per naturale estinzione.
Con assorbimento delle questioni di legittimita' costituzionale
sollevate dalla Corte di cassazione (miranti a distinguere tra la
posizione dell'affiliato e quella del condannato per reati di
"contesto mafioso"), ne deriva percio', in lesione dell'art. 3 Cost.,
l'irragionevolezza - nonche', anche sotto questo profilo, il
contrasto con la funzione rieducativa della pena - di una presunzione
assoluta di pericolosita' sociale che, a prescindere da qualsiasi
valutazione in concreto, presupponga l'immutabilita', sia della
personalita' del condannato, sia del contesto esterno di riferimento.
9.- Nel caso di specie, pero', trattandosi del reato di
affiliazione a una associazione mafiosa (e dei reati a questa
collegati), caratterizzato dalle specifiche connotazioni
criminologiche prima descritte, la valutazione in concreto di
accadimenti idonei a superare la presunzione dell'attualita' di
collegamenti con la criminalita' organizzata - da parte di tutte le
autorita' coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di
sorveglianza - deve rispondere a criteri di particolare rigore,
proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale
del quale si esige l'abbandono definitivo.
Cio' giustifica che la presunzione di pericolosita' sociale del
detenuto che non collabora, pur non piu' assoluta, sia superabile non
certo in virtu' della sola regolare condotta carceraria o della mera
partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una
soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza
dell'acquisizione di altri, congrui e specifici elementi.
Quali siano questi elementi, e' la stessa evoluzione del medesimo
art. 4-bis ordin. penit. a mostrare con evidenza.
Come si e' gia' detto (supra, punto 7.1 del Considerato in
diritto), prima dell'introduzione del decisivo requisito della
collaborazione con la giustizia, l'art. 1 del d.l. n. 152 del 1991,
come convertito, gia' stabiliva, per i reati della "prima fascia"
(comprendenti l'associazione di tipo mafioso, i relativi
"delitti-satellite", il sequestro di persona a scopo di estorsione e
l'associazione finalizzata al narcotraffico), che l'accesso a taluni
benefici previsti dall'ordinamento penitenziario fosse possibile alla
stregua di un parametro probatorio particolarmente elevato, cioe'
solo se fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere
l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata o
eversiva».
Era quindi disegnato, per questi reati, un sistema fondato su di
«un regime di prova rafforzata per accertare l'inesistenza di una
condizione negativa» (sentenza n. 68 del 1995).
Di un tale regime, anche la versione attualmente vigente
dell'art. 4-bis, ordin. penit. mantiene traccia testuale, al comma
1-bis. Infatti, come pure si e' detto (supra, punto 7.1 del
Considerato in diritto), tale comma estende la possibilita' di
accesso ai benefici penitenziari ai casi in cui un'utile
collaborazione con la giustizia risulti inesigibile, impossibile od
«oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia
stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di
cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen. Ma, ancora, per
tutte le ipotesi appena indicate occorre che «siano stati acquisiti
elementi tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva».
L'acquisizione di simili elementi appartiene, come si vede, alla
stessa logica cui e' improntato l'art. 4-bis ordin. penit. e consente
alla magistratura di sorveglianza, attraverso un efficace
collegamento con tutte le autorita' competenti in materia, di
svolgere d'ufficio una seria verifica non solo sulla condotta
carceraria del condannato nel corso dell'espiazione della pena, ma
altresi' sul contesto sociale esterno in cui il detenuto sarebbe
autorizzato a rientrare, sia pure temporaneamente ed episodicamente
(ordinanza n. 271 del 1992).
In particolare, l'art. 4-bis, comma 2, ordin. penit., prevede
che, ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1
(percio', anche del permesso premio), la magistratura di sorveglianza
decide non solo sulla base delle relazioni della pertinente autorita'
penitenziaria ma, altresi', delle dettagliate informazioni acquisite
per il tramite del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza
pubblica competente.
E' fondamentale aggiungere che, ai sensi del comma 3-bis del
medesimo art. 4-bis, tutti i benefici in questione, compreso il
permesso premio, «non possono essere concessi» (ferma restando
l'autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza: ex multis,
Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 5 dicembre 2016,
n. 51878) quando il Procuratore nazionale antimafia (oggi anche
antiterrorismo) o il Procuratore distrettuale comunica, d'iniziativa
o su segnalazione del competente comitato provinciale per l'ordine e
la sicurezza pubblica, l'attualita' di collegamenti con la
criminalita' organizzata.
In tale contesto, l'acquisizione di stringenti informazioni in
merito all'eventuale attualita' di collegamenti con la criminalita'
organizzata (a partire da quelli di natura economico-patrimoniale)
non solo e' criterio gia' rinvenibile nell'ordinamento (sentenze n.
40 del 2019 e n. 222 del 2018) - nel caso di specie, nella stessa
disposizione di cui e' questione di legittimita' costituzionale
(sentenza n. 236 del 2016) - ma e' soprattutto criterio
costituzionalmente necessario (sentenza n. 242 del 2019) per
sostituire in parte qua la presunzione assoluta caducata, alla
stregua dell'esigenza di prevenzione della «commissione di nuovi
reati» (sentenze n. 211 del 2018 e n. 177 del 2009) sottesa ad ogni
previsione di limiti all'ottenimento di benefici penitenziari
(sentenza n. 174 del 2018).
L'acquisizione in parola e', d'altra parte, fattore
imprescindibile, ma non sufficiente.
Il regime probatorio rafforzato, qui richiesto, deve altresi'
estendersi all'acquisizione di elementi che escludono non solo la
permanenza di collegamenti con la criminalita' organizzata, ma
altresi' il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle
concrete circostanze personali e ambientali. Si tratta, del resto, di
aspetto logicamente collegato al precedente, del quale condivide il
carattere necessario alla luce della Costituzione, al fine di evitare
che il gia' richiamato interesse alla prevenzione della commissione
di nuovi reati, tutelato dallo stesso art. 4-bis ordin. penit.,
finisca per essere vanificato.
Di entrambi tali elementi - esclusione sia dell'attualita' di
collegamenti con la criminalita' organizzata che del pericolo di un
loro rispristino - grava sullo stesso condannato che richiede il
beneficio l'onere di fare specifica allegazione (come stabilisce la
costante giurisprudenza di legittimita' maturata sul comma 1-bis
dell'art. 4-bis, ordin. penit., in tema di collaborazione impossibile
o inesigibile: ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima
penale, sentenze 13 agosto 2019, n. 36057, 8 luglio 2019, n. 29869 e
12 ottobre 2017, n. 47044).
La magistratura di sorveglianza decidera', sia sulla base di tali
elementi, sia delle specifiche informazioni necessariamente ricevute
in materia dalle autorita' competenti, prima ricordate; con la
precisazione che - fermo restando l'essenziale rilievo della
dettagliata e motivata segnalazione del Procuratore nazionale
antimafia o del Procuratore distrettuale (art. 4-bis, comma 3-bis,
ordin penit.) - se le informazioni pervenute dal comitato provinciale
per l'ordine e la sicurezza pubblica depongono in senso negativo,
incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione degli
elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi
di prova a sostegno (in tal senso, gia' Corte di cassazione, sezione
prima penale, sentenza 12 maggio 1992, n. 1639).
10.- Va pertanto dichiarata, per violazione degli artt. 3 e 27,
terzo comma, Cost., l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit. nella parte in cui non prevede che - ai
detenuti per i delitti di cui all'art. 416-bis cod. pen., e per
quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso
articolo ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni
in esso previste - possano essere concessi permessi premio anche in
assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter
del medesimo ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti elementi
tali da escludere, sia l'attualita' di collegamenti con la
criminalita' organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali
collegamenti.
11.- Con la presente sentenza, in relazione ai reati indicati, e'
percio' sottratta all'applicazione del meccanismo "ostativo" previsto
dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. la disciplina relativa alla
concessione del beneficio del permesso premio, di cui all'art. 30-ter
del medesimo ordin. penit.
Cio' e' conforme al perimetro delle questioni di legittimita'
costituzionale sollevate dai giudici a quibus, nonche' alla
connotazione peculiare del permesso premio, che lo distingue dagli
altri benefici pure elencati nella disposizione censurata.
12.- Come si e' chiarito, le due ordinanze di rimessione hanno
portato all'attenzione di questa Corte i reati di criminalita'
organizzata di stampo mafioso, cioe' quelli che hanno costituito
parte del nucleo originario della previsione censurata.
Ma, come pure si e' accennato (supra, punto 7.1 del Considerato
in diritto), l'assetto delineato dai provvedimenti dei primi anni
Novanta del secolo scorso e' stato progressivamente modificato, nel
tempo, da una serie di riforme, che, da un lato, hanno mutato
l'architettura complessiva dell'art. 4-bis ordin. penit. e,
dall'altro, ne hanno ampliato progressivamente l'ambito di
operativita', con l'innesto di numerose altre fattispecie criminose
nella lista dei reati "ostativi".
In virtu' di varie scelte di politica criminale, non sempre tra
loro coordinate, accomunate da finalita' di prevenzione generale e da
una volonta' di inasprimento del trattamento penitenziario, in
risposta ai diversi fenomeni criminali di volta in volta emergenti,
l'art. 4-bis ordin. penit. ha cosi' progressivamente allargato i
propri confini, finendo per contenere, attualmente, una disciplina
speciale relativa, ormai, a un «complesso, eterogeneo e stratificato
elenco di reati» (sentenze n. 188 del 2019, n. 32 del 2016, n. 239
del 2014). E il comma 1 della disposizione, in particolare, presume
l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata dei
condannati per questo ampio elenco di reati, disegnando per tutti
costoro un particolare regime carcerario, che non consente in radice
l'accesso ai benefici penitenziari in assenza di collaborazione con
la giustizia.
Peraltro, nella disposizione in esame, accanto ai reati
tipicamente espressivi di forme di criminalita' organizzata,
compaiono ora, tra gli altri, anche reati che non hanno
necessariamente a che fare con tale criminalita', ovvero che hanno
natura mono-soggettiva: infatti, nel comma 1 dell'art. 4-bis,
figurano i reati di prostituzione minorile e pornografia minorile, di
violenza sessuale di gruppo (art. 3 del decreto-legge 23 febbraio
2009, n. 11, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica
e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti
persecutori», convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile
2009, n. 38), di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina
(decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, recante «Misure urgenti per il
contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonche'
proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di
polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai
processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle
Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di
pace e di stabilizzazione», convertito, con modificazioni, nella
legge 17 aprile 2015, n. 43) e, da ultimo, anche quasi tutti i reati
contro la pubblica amministrazione (legge 9 gennaio 2019, n. 3,
recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica
amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e in
materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici»).
In questo contesto, l'intervento parzialmente ablatorio
realizzato sui reati di criminalita' organizzata di matrice mafiosa
deve riflettersi sulle condizioni predisposte dal primo comma della
norma censurata, in vista dell'accesso al permesso premio dei
condannati per tutti gli altri reati di cui all'elenco.
Se cosi' non fosse, deriverebbe dalla presente sentenza la
creazione di una paradossale disparita', a tutto danno dei detenuti
per reati rispetto ai quali possono essere privi di giustificazione
sia il requisito (ai fini dell'accesso ai benefici penitenziari) di
una collaborazione con la giustizia, sia la dimostrazione
dell'assenza di legami con un, inesistente, sodalizio criminale di
originaria appartenenza.
Ed anzi, la mancata estensione a tutti i reati previsti dal primo
comma dell'art. 4-bis, ordin. penit. dell'intervento compiuto dalla
presente sentenza sui reati di associazione mafiosa e di "contesto
mafioso" finirebbe per compromettere la stessa coerenza intrinseca
dell'intera disciplina di risulta.
In definitiva, i profili di illegittimita' costituzionale
relativi al carattere assoluto della presunzione attingono tanto la
disciplina, in questa sede censurata, applicabile ai detenuti per i
delitti di cui all'art. 416-bis cod. pen., e per quelli commessi
avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al
fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste,
quanto l'identica disciplina dettata dallo stesso art. 4-bis, comma
1, ordin. penit. per i detenuti per gli altri delitti in esso
contemplati.
Visto l'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), va
percio' dichiarata in via consequenziale l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975,
nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi
contemplati, diversi da quelli di cui all'art. 416-bis cod. pen. e da
quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso
articolo ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni
in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in
assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter
del medesimo ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti elementi
tali da escludere, sia l'attualita' di collegamenti con la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo
del ripristino di tali collegamenti.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis,
comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
della liberta'), nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per
i delitti di cui all'art. 416-bis del codice penale e per quelli
commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo
ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso
previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di
collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter del medesimo
ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti elementi tali da
escludere, sia l'attualita' di collegamenti con la criminalita'
organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti;
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della
legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975,
nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi
contemplati, diversi da quelli di cui all'art. 416-bis cod. pen. e da
quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso
articolo ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni
in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in
assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter
del medesimo ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti elementi
tali da escludere, sia l'attualita' di collegamenti con la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo
del ripristino di tali collegamenti.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 ottobre 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolo' ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 4 dicembre 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
Allegato:
Ordinanza letta all'udienza del 22 ottobre 2019
ORDINANZA
Rilevato che nel giudizio promosso dalla Corte di cassazione,
iscritto al reg. ord. n. 59 del 2019, con atto depositato il 30
aprile 2019, ha chiesto di intervenire M. D., in qualita' di parte di
vicenda giudiziaria che asserisce essere «totalmente sovrapponibile e
identica» a quella della parte del giudizio a quo;
che, nello stesso giudizio promosso dalla Corte di cassazione,
con atto depositato il 13 maggio 2019, ha chiesto di intervenire
anche l'associazione Nessuno Tocchi Caino, nella asserita qualita' di
associazione titolare di un interesse qualificato, immediatamente
inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio;
che, nel giudizio promosso dal Tribunale di sorveglianza di
Perugia, iscritto al n. 135 del reg. ord. 2019, con atto depositato
il 4 settembre 2019, ha chiesto di intervenire il Garante nazionale
dei diritti delle persone detenute o private della liberta' personale
(di seguito: Garante), nella asserita qualita' di soggetto titolare
di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio e, in subordine, quale amicus curiae;
che, nello stesso giudizio promosso dal Tribunale di sorveglianza
di Perugia, con atto depositato il 10 settembre 2019, ha chiesto di
intervenire anche l'Unione Camere Penali Italiane (di seguito UCPI),
nella qualita' di ente rappresentativo di interessi collettivi
asseritamente titolare di un interesse qualificato, immediatamente
inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
Considerato che, per costante giurisprudenza di questa Corte,
sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimita'
costituzionale (art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale) i soli soggetti parti del giudizio a quo,
oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge
regionale, al Presidente della Giunta regionale (ex plurimis,
sentenze n. 206 del 2019, con allegata ordinanza letta all'udienza
del 4 giugno 2019 e n. 173 del 2019, con allegata ordinanza letta
all'udienza del 18 giugno 2019; ordinanza n. 204 del 2019);
che l'intervento di soggetti estranei al giudizio principale
(art. 4 delle Norme integrative) e' ammissibile soltanto per i terzi
titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e
immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non
semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di
censura (ex plurimis, le citate sentenze n. 206 del 2019, con
allegata ordinanza letta all'udienza del 4 giugno 2019 e n. 173 del
2019, con allegata ordinanza letta all'udienza del 18 giugno 2019;
ordinanza n. 204 del 2019);
che, pertanto, l'incidenza sulla posizione soggettiva
dell'interveniente deve derivare non gia', come per tutte le altre
situazioni sostanziali disciplinate dalla disposizione denunciata,
dalla pronuncia della Corte sulla legittimita' costituzionale della
legge stessa, ma dall'immediato effetto che la pronuncia della Corte
produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo;
che, in disparte ogni considerazione sul rinvio del giudizio in
cui M.D. e' parte in attesa della pronuncia di questa Corte,
l'ammissibilita' del suo intervento contrasterebbe con il carattere
incidentale del giudizio di legittimita' costituzionale, in quanto il
suo accesso al contraddittorio avverrebbe senza la previa verifica
della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da
parte del giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 173 del 2016, con
allegata ordinanza letta all'udienza del 13 luglio 2016; n. 71 del
2015, con allegata ordinanza letta all'udienza del 10 marzo 2015;
sentenza n. 33 del 2015);
che, quanto agli interventi dell'associazione Nessuno Tocchi
Caino, del Garante e dell'UCPI, nessuno dei tre intervenienti e'
titolare di un interesse qualificato inerente al rapporto sostanziale
dedotto in giudizio;
che, in relazione alla richiesta avanzata dal Garante, in via
subordinata, di essere ammesso al contraddittorio in qualita' di
amicus curiae, una tale figura non e' allo stato prevista dalle fonti
che regolano i giudizi di legittimita' costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili tutti gli interventi spiegati nei presenti
giudizi di legittimita' costituzionale;
dichiara inammissibile la richiesta del Garante nazionale dei
diritti delle persone detenute o private della liberta' personale di
essere ammesso al giudizio in qualita' di amicus curiae.
F.to: Giorgio Lattanzi, Presidente
Corte Costituzionale 5 novembre – 6 dicembre 2019 SENTENZA N. 263
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Esecuzione penale - Detenuti minorenni e giovani adulti, condannati per uno dei reati "ostativi" di cui all'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge n. 354 del 1975 - Possibilita' di accesso ai benefici penitenziari (misure penali di comunita', permessi premio e lavoro esterno) - Esclusione in assenza di condotte collaborative con la giustizia - Eccesso di delega, violazione dei principi di proporzionalita' e individualizzazione della pena, contrasto con la preminente funzione rieducativa dell'esecuzione penale minorile - Illegittimita' costituzionale. - Decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, art. 2, comma 3. - Costituzione, artt. 2, 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, 76 e 117, primo comma; direttiva 2016/800/UE dell'11 maggio 2016, artt. 7, 10 e 11; Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, art. 49, paragrafo 3.
(GU n.50 del 11-12-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Aldo CAROSI;
Giudici :Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,
Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 3,
del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina
dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in
attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera
p), della legge 23 giugno 2017, n. 103», promosso dal Tribunale per i
minorenni di Reggio Calabria, in funzione di tribunale di
sorveglianza, nel procedimento nei confronti di F. P., con ordinanza
del 28 dicembre 2018, iscritta al n. 56 del registro ordinanze 2019 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima
serie speciale, dell'anno 2019.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 ottobre 2019 il Giudice
relatore Giuliano Amato.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, in funzione
di tribunale di sorveglianza, ha sollevato, in riferimento agli artt.
2, 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, 76 e 117, primo comma,
della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 2, comma 3, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121,
recante «Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei
condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all'art. 1,
commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103».
Tale disposizione prevede che, ai fini della concessione delle
misure penali di comunita' e dei permessi premio e per l'assegnazione
al lavoro esterno, si applica l'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'),
il quale consente la concessione dei benefici penitenziari ai
condannati per taluni delitti, espressamente indicati, solo nei casi
in cui gli stessi collaborino con la giustizia.
Nell'estendere ai minorenni e giovani adulti preclusioni analoghe
a quelle previste per gli adulti, la disposizione censurata
violerebbe, in primo luogo, l'art. 76 Cost. L'esclusione dei benefici
penitenziari da essa indicati ove ricorrano i reati ostativi di cui
all'art. 4-bis ordin. penit. si porrebbe in contrasto con i principi
di cui all'art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6), della legge
delega 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice
di procedura penale e all'ordinamento penitenziario), che prevedono
l'ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla
detenzione e l'eliminazione di ogni automatismo nella concessione dei
benefici penitenziari.
Sarebbero, inoltre, violati gli artt. 2, 3, 27 e 31 Cost.,
perche' siffatto automatismo, che si fonda su una presunzione di
pericolosita' basata solo sul titolo di reato commesso, impedirebbe
una valutazione individualizzata dell'idoneita' della misura a
conseguire le preminenti finalita' di risocializzazione che debbono
presiedere all'esecuzione penale minorile.
Infine, la disposizione censurata violerebbe l'art. 117, primo
comma, Cost., in relazione agli artt. 7, 10 e 11 della direttiva
2016/800/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio
2016, sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei
procedimenti penali. Tali disposizioni prevedono il diritto del
minore ad una valutazione individuale e la necessita' di ricorrere,
ogni qualvolta sia possibile, a misure alternative alla detenzione.
La norma censurata non sarebbe coerente neppure con l'art. 49,
paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
(CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a
Strasburgo il 12 dicembre 2007, il quale stabilisce il principio di
proporzionalita' delle pene inflitte rispetto al reato.
2.- Il giudice a quo e' chiamato a decidere in ordine all'istanza
avanzata da un detenuto, condannato in via definitiva alla pena di
cinque anni di reclusione per i reati di cui all'art. 416-bis del
codice penale e agli artt. 2 e 7 della legge 2 ottobre 1967, n. 895
(Disposizioni per il controllo delle armi), aggravati, in base alla
normativa all'epoca vigente, ai sensi dell'art. 7 del decreto-legge
13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla
criminalita' organizzata e di trasparenza e buon andamento
dell'attivita' amministrativa), convertito, con modificazioni, nella
legge 12 luglio 1991, n. 203. Con riferimento alla residua pena da
espiare di un anno, cinque mesi e quattordici giorni di reclusione,
e' stata richiesta l'applicazione della misura della detenzione
domiciliare presso un'abitazione o in una struttura comunitaria.
2.1.- Il rimettente evidenzia che la disposizione censurata
esclude la possibilita' di concedere le misure penali di comunita' in
presenza dei reati cosiddetti ostativi, previsti dall'art. 4-bis
ordin. penit. Cio' impedirebbe di valutare nel merito l'istanza del
detenuto e di adeguare la residua sanzione da espiare ai progressi da
lui compiuti. Nel caso in esame, la condanna per uno dei delitti
indicati nell'art. 4-bis non consentirebbe di accogliere l'istanza. A
questo riguardo, non rileverebbe ne' l'accertata recisione dei
collegamenti con la criminalita' organizzata, essendo richiesta anche
l'effettiva collaborazione con la giustizia, ne' l'inesigibilita' di
tale collaborazione poiche', ad avviso del rimettente, il rinvio e'
al catalogo dei reati ivi indicati e non al suo contenuto, ne' infine
la mancata prova della pericolosita' sociale, essendo richiesta
viceversa la prova dell'assenza di attuali collegamenti con la
criminalita' organizzata.
L'ostacolo non sarebbe superabile in via interpretativa.
Un'esegesi costituzionalmente orientata della disposizione censurata
porterebbe, infatti, alla sua sostanziale abrogazione.
2.2.- Nel merito, il giudice a quo ritiene, in primo luogo, che
la disposizione censurata violi l'art. 76 Cost., per il contrasto con
i principi e i criteri direttivi posti dall'art. 85, lettera p),
numeri 5) e 6), della legge n. 103 del 2017, che prevedono
l'ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla
detenzione e l'eliminazione di ogni automatismo nella concessione dei
benefici penitenziari.
Il giudice rimettente fa riferimento alla giurisprudenza
costituzionale che ha affermato che il cuore della giustizia minorile
debba consistere in valutazioni fondate su prognosi individualizzate,
in grado di assolvere al compito di recupero del minore deviante.
Cio' comporta l'abbandono di qualsiasi automatismo che escluda
l'applicazione di benefici o misure alternative (sono richiamate le
sentenze n. 90 del 2017, n. 436 del 1999, n. 16 del 1998 e n. 109 del
1997).
Sono inoltre richiamati i principi espressi in numerosi atti
internazionali, tra i quali le Regole minime delle Nazioni unite
sull'amministrazione della giustizia minorile ("Regole di Pechino"),
adottate dall'Assemblea generale con la risoluzione 40/33 del 29
novembre 1985, le Regole delle Nazioni Unite per la protezione dei
minori privati della liberta' (cosiddette regole dell'Havana),
approvate dall'Assemblea generale con risoluzione n. 45/113 del 14
dicembre 1990, la raccomandazione CM/Rec. (2008)11 del Comitato dei
ministri del Consiglio d'Europa, adottata il 5 novembre 2008, sui
minori autori di reato e soggetti a sanzioni o misure alternative
alla detenzione, le Linee guida del Comitato dei ministri del
Consiglio d'Europa su una "giustizia a misura di minore", adottate il
17 novembre 2010, nella 1098a riunione dei delegati dei ministri,
nonche', da ultimo, la direttiva 2016/800/UE, gia' citata.
Questi atti esprimerebbero tutti l'esigenza che le autorita'
nazionali ricorrano alla privazione della liberta' personale del
minore quale misura di ultima istanza. Sarebbe, inoltre, richiesto
che venga sempre privilegiato il ricorso alle misure alternative alla
detenzione e che venga garantito un trattamento penitenziario
specificamente disegnato sulle peculiari necessita' del minore.
Proprio a questi fini, la legge delega n. 103 del 2017 aveva
prescritto l'ampliamento dei criteri per l'accesso alle misure
alternative e l'eliminazione di automatismi e preclusioni che
impediscono o ritardano l'individualizzazione del trattamento
rieducativo. Viceversa, la disposizione censurata ha ribadito la
preclusione automatica per i reati previsti dall'art. 4-bis, commi 1
e 1-bis, ordin. penit., rendendo in questi casi estremamente
difficoltosa la concessione di misure alternative. Sulla base di una
presunzione di pericolosita' legale, verrebbe privilegiata l'istanza
punitiva rispetto a quella del recupero del minorenne o del giovane
adulto. Cio' si porrebbe in contrasto con i principi e i criteri
direttivi fissati dall'art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6),
della legge n. 103 del 2017.
D'altra parte, la medesima disposizione tradirebbe la ratio
dell'art. 656, comma 9, cod. proc. pen., come risultante dalla
sentenza n. 90 del 2017. La sospensione dell'esecuzione consentita al
pubblico ministero risulterebbe inutiliter data se il tribunale di
sorveglianza non potesse poi valutare nel merito le istanze di misure
alternative alla detenzione, anche in presenza di reati ostativi.
Osserva il giudice a quo che l'art. 656, comma 9, lettera a), cod.
proc. pen. si rivolge al pubblico ministero e, dopo la sentenza n. 90
del 2017, gli consente di sospendere l'ordine di esecuzione anche in
presenza di reati ostativi. La disposizione censurata, invece, si
rivolge al tribunale di sorveglianza e gli impedisce di concedere le
misure penali di comunita' in caso di reati ostativi.
La disciplina censurata sarebbe, inoltre, in contrasto con altri
istituti del processo penale minorile. Si fa rilevare, ad esempio,
come la sospensione del processo con messa alla prova sia applicabile
senza il rigido sbarramento previsto dall'art. 4-bis ordin. penit.,
secondo un'ottica che privilegia le esigenze di recupero
dell'imputato rispetto alla pretesa punitiva.
Il contrasto sarebbe inoltre ravvisabile con l'intero impianto
del processo minorile e con i principi di tutela dell'infanzia cui lo
stesso si ispira. Tra questi, in particolare, rientrano quelli
enunciati dagli artt. 37, lettera b), e 40, paragrafi 1 e 4, della
Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20
novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27
maggio 1991, n. 176, secondo cui la detenzione del minore deve
costituire un provvedimento "di ultima istanza" e avere la durata
piu' breve possibile.
2.3.- L'automatismo posto dalla disposizione censurata, in quanto
fondato su una presunzione di pericolosita' radicata solo sul titolo
di reato commesso sarebbe, inoltre, in contrasto con il principio
sancito dall'art. 27, terzo comma, Cost., connesso a quelli di cui
agli artt. 2, 3 e 31, secondo comma, Cost., in quanto espressivi
della necessita' di un trattamento differenziato per i minorenni e i
giovani adulti e «di valutazioni, da parte dello stesso giudice,
fondate su prognosi individualizzate in funzione del recupero del
minore deviante» (sono richiamate le sentenze n. 143 del 1996, n. 182
del 1991, n. 78 del 1989, n. 128 del 1987, n. 222 del 1983 e n. 46
del 1978).
2.4.- Sarebbe violato, infine, l'art. 117, primo comma, Cost.,
per il contrasto con i principi posti dalla direttiva 2016/800/UE,
nonche' dall'art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
In particolare, sarebbe mancata l'attuazione degli artt. 7, 10 e
11 della citata direttiva, relativa alle garanzie procedurali per i
minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Essa chiede ai
legislatori nazionali di provvedere affinche': 1) sia garantito «il
diritto del minore a una valutazione individuale» (art. 7); 2) «in
qualsiasi fase del procedimento la privazione della liberta'
personale del minore sia limitata al piu' breve periodo possibile»
(art. 10); 3) «ogniqualvolta sia possibile, le autorita' competenti
ricorrano a misure alternative alla detenzione» (art. 11).
Il contrasto tra la disposizione censurata e la direttiva in
esame non sarebbe sanabile in via interpretativa, ne' potrebbe
trovare rimedio nella disapplicazione della norma nazionale da parte
del giudice comune, essendo la norma dell'Unione europea priva di
efficacia diretta.
La disposizione censurata si porrebbe, infine, in contrasto con
l'art. 49, paragrafo 3, CDFUE e con il principio di proporzionalita'
e di flessibilita' del trattamento sanzionatorio, secondo
un'accezione riferibile anche alle misure alternative alla detenzione
e alla necessita' di un loro adattamento alle condizioni del
minorenne autore del reato. La proposizione della questione di
legittimita' costituzionale sarebbe, dunque, l'unica via per
garantire l'adeguamento del diritto interno agli obblighi comunitari.
3.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque
non fondata.
3.1.- In via preliminare, l'interveniente ha eccepito che
l'applicazione dell'art. 4-bis ordin. penit. anche ai minori non
deriverebbe dalla disposizione censurata, bensi' dall'art. 4, comma
4, del d.l. n. 152 del 1991, che gia' aveva previsto che le
limitazioni all'accesso ai benefici penitenziari si applicassero
anche nei confronti dei soggetti minorenni al tempo del fatto.
La disposizione censurata avrebbe, quindi, natura meramente
ricognitiva di una disciplina gia' esistente e non introdurrebbe
alcuna novita'. Un eventuale accoglimento della questione non
inciderebbe sulla persistente applicazione dell'art. 4-bis, ne' sulla
limitazione all'accesso ai benefici penitenziari per i minorenni. La
questione sarebbe pertanto inammissibile, per essere stata sottoposta
a scrutinio una disposizione diversa dall'oggetto effettivo delle
censure.
3.2.- In ogni caso, la questione non sarebbe fondata.
La disciplina censurata costituirebbe l'espressione di una scelta
rimessa alla discrezionalita' legislativa, che non sarebbe affatto
irragionevole. La giurisprudenza costituzionale ne avrebbe
riconosciuto piu' volte la legittimita' e la compatibilita' con la
finalita' rieducativa della pena.
D'altra parte, in riferimento alla denunciata violazione
dell'art. 2 Cost., sarebbe incerto il principio che il rimettente
assume violato, non essendo chiarito quale sia il nesso tra la scelta
legislativa censurata e i diritti inviolabili dell'individuo.
Quanto alla violazione dell'art. 3 Cost., non sarebbe rilevabile
alcuna incoerenza sistematica o disparita' di trattamento in
relazione all'art. 656, comma 9, cod. proc. pen., letto alla luce
della sentenza n. 90 del 2017. Anche questa disposizione rimette al
giudice l'accertamento delle condizioni per l'accesso ai benefici. Il
potere riconosciuto al pubblico ministero di sospendere l'esecuzione
sarebbe infatti funzionale alla valutazione da parte del magistrato
di sorveglianza in ordine ai presupposti per l'applicazione di misure
alternative e quindi, secondo l'Avvocatura generale dello Stato,
all'intervenuta collaborazione con la giustizia.
Anche la questione relativa alla violazione dell'art. 76 Cost.
non sarebbe fondata. La disposizione censurata, senza introdurre
automatismi o preclusioni, si limiterebbe a prendere atto della
disciplina previgente, perseguendo, accanto alla finalita' di
prevenzione, anche una specifica ratio di rieducazione del detenuto
minorenne, il quale sarebbe incentivato a recidere definitivamente i
legami con la criminalita' organizzata. Cio' costituirebbe, dunque,
fedele attuazione dei principi della legge delega n. 103 del 2017.
Quanto alla violazione dell'art. 117 Cost., l'Avvocatura generale
dello Stato ritiene che la riforma dell'esecuzione penale minorile
non sia in contrasto con la direttiva 2016/800/UE. Anche la
disposizione censurata sarebbe ispirata al principio di favore per le
misure penali di comunita', concedibili, alle condizioni date, anche
per i reati piu' gravi. Nel privilegiare le misure alternative alla
detenzione, il d.lgs. n. 121 del 2018 avrebbe l'obiettivo di
realizzare un modello esecutivo penale che ricorre alla detenzione
solo laddove questo sia l'unico trattamento che consenta di
contemperare le esigenze sanzionatorie e di sicurezza con le istanze
pedagogiche di una personalita' in evoluzione.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, in funzione
di tribunale di sorveglianza, ha sollevato, in riferimento agli artt.
2, 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, 76 e 117, primo comma,
della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 2, comma 3, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121,
recante «Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei
condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all'art. 1,
commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103».
Tale disposizione prevede che, ai fini della concessione delle
misure penali di comunita' e dei permessi premio e per l'assegnazione
al lavoro esterno, si applica l'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'),
il quale consente la concessione dei benefici penitenziari ai
condannati per taluni delitti, espressamente indicati, solo nei casi
in cui gli stessi collaborino con la giustizia.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata -
nell'estendere ai minorenni e giovani adulti preclusioni analoghe a
quelle previste per gli adulti - violerebbe, in primo luogo, l'art.
76 Cost. L'impossibilita' di accedere ai benefici penitenziari ivi
indicati, in caso di condanna per i reati indicati dall'art. 4-bis
ordin. penit., si porrebbe in contrasto con i principi di cui
all'art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6), della legge delega
23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di
procedura penale e all'ordinamento penitenziario), che prevedono
l'ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla
detenzione e l'eliminazione di ogni automatismo nella concessione dei
benefici penitenziari.
Sarebbero, inoltre, violati gli artt. 2, 3, 27, terzo comma, e
31, secondo comma, Cost., perche' siffatto automatismo, che si fonda
su una presunzione di pericolosita' basata solo sul titolo di reato
commesso, impedirebbe una valutazione individualizzata dell'idoneita'
della misura a conseguire le preminenti finalita' di
risocializzazione che debbono presiedere all'esecuzione penale
minorile.
Infine, la disposizione censurata violerebbe l'art. 117, primo
comma, Cost., in relazione agli artt. 7, 10 e 11 della direttiva
2016/800/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio
2016, sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei
procedimenti penali. Tali disposizioni della direttiva prevedono il
diritto del minore a una valutazione individuale e la necessita' di
ricorrere, ogni qualvolta sia possibile, a misure alternative alla
detenzione. L'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 sarebbe in
contrasto anche con l'art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, il quale
stabilisce il principio di proporzionalita' delle pene inflitte
rispetto al reato.
2.- Va preliminarmente respinta l'eccezione di inammissibilita'
sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato.
2.1.- La difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ritiene
che il giudice a quo abbia sottoposto a scrutinio una disposizione
diversa dall'oggetto effettivo delle censure, poiche' l'art. 2, comma
3, del d.lgs. n. 121 del 2018 avrebbe natura meramente ricognitiva
della disciplina gia' prevista dall'art. 4, comma 4, del
decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema
di lotta alla criminalita' organizzata e di trasparenza e buon
andamento dell'attivita' amministrativa), convertito, con
modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203. In riferimento
all'accesso alle misure penitenziarie alternative, la disposizione
censurata non introdurrebbe, dunque, alcuna novita'.
2.2.- L'applicazione dell'art. 4-bis ordin. penit. anche nei
confronti dei minori risultava in effetti gia' prevista dall'art. 4,
comma 4, del d.l. n. 152 del 1991, il quale, dopo avere introdotto
l'art. 4-bis nella legge n. 354 del 1975, aveva stabilito che i commi
1 e 2 di quest'ultima disposizione si applicassero anche nei
confronti dei minorenni.
Invero, il giudice a quo non ignora che, in passato, le
preclusioni derivanti dall'art. 4-bis ordin. penit. fossero
applicabili anche nei confronti dei minori. Tuttavia le sue censure
si incentrano proprio sul loro inserimento nell'ambito del nuovo
ordinamento penitenziario minorile ed e' proprio sulla legittimita'
di tale scelta legislativa che si chiede a questa Corte di
pronunciarsi.
E' tale scelta a rendere il richiamo al meccanismo dell'art.
4-bis ordin. penit., contenuto nella disposizione censurata, non
meramente ricognitivo di una norma preesistente. Esso svolge anche
una funzione di primaria rilevanza, nel senso di stabilire,
nell'ambito della riforma organica dell'ordinamento penitenziario
minorile - a lungo attesa e finalmente introdotta dal d.lgs. n. 121
del 2018 - il perimetro delle preclusioni alle misure extramurarie
applicabili ai condannati per fatti commessi da minorenni. Questo
intervento da' vita, infatti, all'unica normativa applicabile a
questa categoria di soggetti. Essa si e' integralmente sostituita
alla precedente disciplina dettata sul punto, per i condannati
adulti, dalla legge n. 354 del 1975 e, in particolare, dal suo art.
4-bis, e, per i condannati per reati commessi durante la minore eta',
dall'art. 4, comma 4, del d.l. n. 152 del 1991.
2.3.- Il carattere innovativo (e non meramente ricognitivo) della
disposizione censurata risulta, altresi', dalla considerazione del
suo diverso ambito applicativo. A differenza dell'art. 4, comma 4,
del d.l. n. 152 del 1991, che rendeva applicabili ai minori i commi 1
e 2 dell'art. 4-bis ordin. penit., l'art. 2, comma 3, del d.lgs. n.
121 del 2018 richiama i commi 1 e 1-bis della medesima disposizione,
ma non il comma 2.
3.- Nel merito, la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018, sollevata in
riferimento all'art. 76 Cost., e' fondata.
3.1.- Il d.lgs. n. 121 del 2018 costituisce l'approdo di un
processo evolutivo che si snoda nel corso di alcuni decenni, a
partire dalla previsione dell'art. 79, comma 1, ordin. penit., in
base al quale la mancanza di una disciplina penitenziaria
specificamente destinata ai minori avrebbe dovuto avere natura
transitoria, ossia «fino a quando non sara' provveduto con apposita
legge».
L'esigenza di un'esecuzione "a misura di minore" era stata
ripetutamente affermata nell'ambito di plurimi atti internazionali,
attraverso il richiamo ai principi di individualizzazione del
trattamento e di promozione della persona del minore. La stessa
giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto, con riferimento
all'ordinamento penale minorile, l'accentuazione della funzione
rieducativa della pena e del criterio di individualizzazione del
trattamento, quali corollari di una considerazione unitaria dei
principi posti negli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma,
Cost. (sentenze n. 143 del 1996, n. 182 del 1991, n. 128 del 1987, n.
222 del 1983 e n. 46 del 1978).
Cio' ha portato a riconoscere che la parificazione della
disciplina della fase esecutiva nei confronti di adulti e minori puo'
«confliggere con le esigenze di specifica individualizzazione e di
flessibilita' del trattamento del detenuto minorenne» e che questa
situazione ««contrast[a] con le esigenze [...] del recupero e della
risocializzazione dei minori devianti, esigenze che comportano
[appunto] la necessita' di differenziare il trattamento dei minorenni
rispetto ai detenuti adulti e di eliminare automatismi applicativi
nell'esecuzione della pena» (sentenza n. 90 del 2017, con richiamo
alle sentenze n. 125 del 1992 e n. 109 del 1997).
3.2.- E' proprio sulla base dei principi di speciale protezione
per l'infanzia e la gioventu', di individualizzazione del trattamento
punitivo del minore e di preminenza della finalita' rieducativa che
questa Corte ha dichiarato l'illegittimita' della previsione
dell'ergastolo per gli infradiciottenni (sentenza n. 168 del 1994).
Nello stesso senso si pongono anche le pronunce con le quali e' stata
dichiarata l'illegittimita' costituzionale di alcuni istituti
dell'ordinamento penale e penitenziario, laddove riferiti ai
condannati minorenni.
Il contrasto con i richiamati principi costituzionali e' stato,
infatti, ravvisato in relazione alla preclusione della sospensione
del processo per messa alla prova, nell'ambito del processo minorile,
quando l'imputato abbia chiesto il giudizio abbreviato o il giudizio
immediato (sentenza n. 125 del 1995); al divieto di disporre misure
alternative alla detenzione per l'esecuzione di pene detentive
derivanti da conversione di pena sostitutiva (sentenza n. 109 del
1997); all'esclusione della possibilita' di concedere permessi premio
nel biennio successivo alla commissione di un delitto doloso
(sentenza n. 403 del 1997); alle condizioni soggettive per
l'applicazione delle sanzioni sostitutive della pena detentiva
(sentenza n. 16 del 1998); alla previsione della necessaria
espiazione di una determinata quota di pena ai fini della concessione
dei permessi premio (sentenza n. 450 del 1998); alla preclusione
triennale dei benefici per il condannato nei cui confronti sia stata
revocata l'applicazione di una misura alternativa (sentenza n. 436
del 1999), nonche', piu' recentemente, al divieto di sospensione
delle pene detentive brevi, di cui all'art. 656, comma 9, lettera a),
del codice di procedura penale (sentenza n. 90 del 2017).
Questa evoluzione, che ha via via diversificato il trattamento
dei minorenni da quello stabilito in via generale dall'ordinamento
penitenziario, e' culminata nella legge n. 103 del 2017, di cui il
d.lgs. n. 121 del 2018 costituisce attuazione.
3.3.- Cio' premesso, si tratta ora di stabilire se l'art. 2,
comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 - laddove impedisce l'accesso
alle misure penali di comunita' nei confronti dei minori condannati
per i delitti di cui all'art. 4-bis ordin. penit. - si ponga in
contrasto con i principi e criteri direttivi fissati dalla legge
delega n. 103 del 2017, in particolare con l'art. 1, comma 85,
lettera p), numeri 5) e 6).
In queste disposizioni, il legislatore delegante - nel recepire i
principi, sopra richiamati, provenienti dalle fonti internazionali e
dalla giurisprudenza di questa Corte - da un lato, ha previsto
l'«ampliamento dei criteri per l'accesso alle misure alternative alla
detenzione, con particolare riferimento ai requisiti per l'ammissione
dei minori all'affidamento in prova ai servizi sociali e alla
semiliberta'» (art. 1, comma 85, lettera p, numero 5) e, dall'altro
lato, ha imposto l'«eliminazione di ogni automatismo e preclusione
per la revoca o per la concessione dei benefici penitenziari, in
contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio
dell'individuazione del trattamento» (art. 1, comma 85, lettera p,
numero 6).
Le diverse scelte possibili avrebbero dovuto essere parametrate
sulla duplice concorrente esigenza di ampliare l'accesso alle misure
alternative e di eliminare ogni automatismo e preclusione
nell'applicazione dei benefici penitenziari.
3.4.- Viceversa, l'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 ha
ristretto la possibilita' di accedere alle misure extramurarie ivi
indicate, agganciandola alle condizioni previste dall'art. 4-bis
ordin. penit. La disposizione censurata appare in aperta distonia non
solo rispetto al senso complessivo dell'evoluzione normativa e
giurisprudenziale in tema di esecuzione minorile, ma anche con le
direttive impartite dal legislatore delegante.
Da un lato, il richiamo alla disciplina dell'art. 4-bis ordin.
penit. restringe l'ambito di applicabilita' delle misure alternative
alla detenzione. In presenza di condanna per uno dei reati ostativi
di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., l'accesso a tali
misure - salvo quanto si dira' sui permessi premio - e' condizionato
all'accertamento di una condotta collaborativa con la giustizia
(ovvero una condotta ad essa equiparata). Dall'altro, questi stessi
criteri, in quanto fondati su una presunzione di pericolosita' che si
basa esclusivamente sul titolo del reato, irrigidiscono la regola di
giudizio in un meccanismo che non consente di tenere conto della
storia e del percorso individuale del singolo soggetto e della sua
complessiva evoluzione sulla strada della risocializzazione.
Al contrario, un modello decisorio basato su una prognosi
individualizzata, ragionevolmente calibrato sulla personalita' in
fieri del minore, sarebbe stato coerente con la volonta' del
delegante e con l'obiettivo di ampliare l'accesso alle misure
alternative, abbandonando automatismi e preclusioni che ne limitino
l'applicazione.
3.5.- D'altra parte, va escluso che in questo caso si sia inteso
rinunciare ad esercitare la delega per la parte qui rilevante. Come
gia' osservato, la scelta per il regime delle preclusioni dell'art.
4-bis ordin. penit. non discende dalla disciplina precedente, ma e'
espressamente affermata dalla disposizione censurata.
Dalla relazione illustrativa al d.lgs. n. 121 del 2018 emerge,
infatti, la volonta' del legislatore delegato di dare positiva
attuazione alla legge delega in questo ambito normativo. In tale
relazione si legge, infatti, che l'esigenza di conservare i limiti di
cui all'art. 4-bis ordin. penit. ai fini della concessione dei
benefici, deriverebbe «[...] dalla necessita' di mantenere indenne
dalla riforma la disciplina di cui all'articolo 41-bis della legge n.
354 del 1975, individuato dalla legge di delega quale criterio
generale che deve orientare tutti gli interventi in materia di
ordinamento penitenziario, ivi compreso quello minorile [...]».
Tuttavia, la dichiarata finalita' dell'intervento non trova
riscontro nei criteri impartiti dalla legge delega n. 103 del 2017.
Invero, non si ravvisa alcun necessario collegamento, ne' alcuna
interdipendenza, tra il divieto di accesso ai benefici penitenziari e
la sospensione delle regole trattamentali di cui all'art. 41-bis
ordin. penit. Come correttamente osservato dal Tribunale rimettente,
i due regimi risultano accomunati quanto alla previsione di alcune
gravi fattispecie di reato che li legittimano, ma la relativa
applicazione rimane autonoma quanto ai rispettivi presupposti e ai
destinatari.
4.- La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2,
comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 e' fondata anche in riferimento
agli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost.
4.1.- La disposizione in esame, collocata nell'ambito dei
principi generali che sovraintendono al sistema dell'esecuzione
minorile, condiziona la concessione dei benefici penitenziari ivi
indicati ai criteri posti dai commi 1 e 1-bis dell'art. 4-bis ordin.
penit.
Mentre, dunque, per la generalita' dei condannati minorenni
l'accesso ai singoli benefici e' soggetto ai principi generali di cui
agli artt. 1 e 2 dello stesso d.lgs. n. 121 del 2018, per le speciali
categorie di condannati cui si riferisce l'art. 4-bis tale accesso e'
drasticamente limitato in considerazione della necessita' di condotte
collaborative con la giustizia, ai sensi dell'art. 58-ter ordin.
penit., secondo uno schema applicativo che non differisce in modo
significativo da quello previsto per gli adulti.
Il richiamo ai criteri posti dall'art. 4-bis ordin. penit.
determina dunque un irrigidimento della disciplina dell'accesso ai
benefici penitenziari. In ragione del titolo di reato per cui e'
intervenuta condanna e' impedita al giudice una valutazione
individuale sul concreto percorso rieducativo compiuto dal minore.
In questo modo, le finalita' di prevenzione generale e di difesa
sociale finiscono per prevalere su quelle di educazione e
risocializzazione, restaurando un assetto in contrasto con i principi
di proporzionalita' e individualizzazione della pena, sottesi
all'intera disciplina del nuovo ordinamento penitenziario minorile.
Tanto piu' che questa Corte, con sentenza n. 253 del 2019,
relativa sia pure ai soli permessi premio, ha ritenuto che il
meccanismo introdotto dall'art. 4-bis, anche laddove applicato nei
confronti di detenuti adulti, contrasta con gli artt. 3 e 27 Cost.
sia «perche' all'assolutezza della presunzione sono sottese esigenze
investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che
incidono sull'ordinario svolgersi dell'esecuzione della pena, con
conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non
collaborante», sia «perche' tale assolutezza impedisce di valutare il
percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione
rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita
sociale, ai sensi dell'art. 27, terzo comma, Cost.».
Nell'esecuzione della pena nei confronti dei condannati per fatti
commessi da minorenni, il contrasto di questo modello decisorio con
il ruolo riconosciuto alla finalita' rieducativa del condannato si
pone in termini ancora piu' gravi. Con riferimento ai soggetti minori
di eta', infatti, questa finalita' «e' da considerarsi, se non
esclusiva, certamente preminente» (sentenza n. 168 del 1994).
4.2.- Questa preminenza della funzione rieducativa
dell'esecuzione minorile ha gia' portato a ritenere illegittima, per
contrasto con gli artt. 27 e 31 Cost., la preclusione posta dall'art.
656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., nella parte in cui esso
vietava la sospensione dell'esecuzione della pena detentiva nei
confronti dei minori condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis
ordin. penit. (sentenza n. 90 del 2017).
Le medesime finalita' di garanzia della funzione educativa della
pena e di individualizzazione del trattamento penitenziario, gia'
riconosciute con riferimento alla sospensione della pena disposta dal
pubblico ministero, si pongono allo stesso modo anche dinanzi al
tribunale di sorveglianza chiamato a decidere in ordine
all'applicabilita' delle misure alternative alla detenzione ai
condannati minorenni e comportano l'illegittimita' della stessa
preclusione, determinata dal richiamo all'art. 4-bis ordin. penit.
Una volta riconosciuta come costituzionalmente imposta la
necessita' di prognosi individualizzate e di flessibilita' del
trattamento, si tratta, dunque, di restituire al tribunale di
sorveglianza quel medesimo potere di apprezzamento delle specificita'
di ciascun caso che e' gia' stato riconosciuto al pubblico ministero,
in sede di sospensione dell'esecuzione delle pene detentive nei
confronti dei condannati minorenni.
4.3.- Dal superamento del meccanismo preclusivo che osta alla
concessione delle misure extramurarie non deriva in ogni caso una
generale fruibilita' dei benefici, anche per i soggetti condannati
per i reati elencati all'art. 4-bis ordin. penit. Al tribunale di
sorveglianza compete, infatti, la valutazione caso per caso
dell'idoneita' e della meritevolezza delle misure extramurarie,
secondo il progetto educativo costruito sulle esigenze del singolo.
Solo attraverso il necessario vaglio giudiziale e' possibile
tenere conto, ai fini dell'applicazione dei benefici penitenziari,
delle ragioni della mancata collaborazione, delle condotte
concretamente riparative e dei progressi compiuti nell'ambito del
percorso riabilitativo, secondo quanto richiesto dagli artt. 27,
terzo comma, e 31, secondo comma, Cost.
5.- Va pertanto dichiarata l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 per violazione degli
artt. 76, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., con
assorbimento delle ulteriori censure.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 3,
del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina
dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in
attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera
p), della legge 23 giugno 2017, n. 103».
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2019.
F.to:
Aldo CAROSI, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
