LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO: REINTEGRAZIONE DEL LAVORATORE
CORTE COSTITUZIONALE 24 febbraio 2021, SENTENZA n.59 (Data deposito in cancelleria 1 aprile 2021)
Giudizio di legittimita’ costituzionale in via incidentale. Lavoro e occupazione – Licenziamento del lavoratore per giustificato motivo oggettivo – Manifesta insussistenza del fatto contestato – Possibilita’, anziche’ necessita’, per il giudice, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro – Intrinseca irragionevolezza e violazione del principio di uguaglianza – Illegittimita’ costituzionale parziale. – Legge 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, settimo comma, secondo periodo. – Costituzione, artt. 3, 24, 41 e 111, secondo comma. (T-210059) (GU n. 14 del 07-04-2021)
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giancarlo CORAGGIO;
Giudici :Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco
MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni
AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo
BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 18, settimo
comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme
sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta'
sindacale e dell'attivita' sindacale, nei luoghi di lavoro e norme
sul collocamento), come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b),
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma
del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), promosso dal
Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro,
nel procedimento instaurato da CFS Europe srl contro M. P., con
ordinanza del 7 febbraio 2020, iscritta al n. 101 del registro
ordinanze 2020, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2020.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 febbraio 2021 il Giudice
relatore Silvana Sciarra;
deliberato nella camera di consiglio del 24 febbraio 2021.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 7 febbraio 2020, iscritta al n. 101 del
registro ordinanze 2020, il Tribunale ordinario di Ravenna, in
funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3, primo comma, 41, primo comma, 24 e 111, secondo comma, della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 18,
settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300
(Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della
liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale, nei luoghi di lavoro e
norme sul collocamento), «nella parte in cui prevede che, in ipotesi
in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza di un fatto
posto a fondamento di un licenziamento per G.M.O. [giustificato
motivo oggettivo], "possa" e non "debba" applicare la tutela di cui
al 4° comma dell'art. 18 (reintegra)».
1.1.- Il rimettente espone di dover decidere sull'opposizione di
un datore di lavoro contro l'ordinanza che, a conclusione della fase
sommaria del cosiddetto "rito Fornero", ha reintegrato un lavoratore,
licenziato «nel giro di alcuni mesi» due volte per giusta causa e una
volta per giustificato motivo oggettivo. L'opponente non ha impugnato
le statuizioni relative ai licenziamenti per giusta causa e si duole
unicamente del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e dei
provvedimenti di reintegrazione adottati a tale riguardo dal giudice
della fase sommaria.
La societa' datrice di lavoro ha chiesto di respingere le domande
del lavoratore e di condannarlo alla restituzione delle somme
incassate per effetto dell'ordinanza provvisoriamente esecutiva, o di
limitare l'accoglimento delle domande «ai minimi indennitari». Il
lavoratore, in via riconvenzionale, ha chiesto l'esatta
determinazione dell'indennita' sostitutiva della reintegrazione che
ha scelto di ottenere, dopo l'ordinanza conclusiva della fase
sommaria.
In punto di rilevanza, il giudice a quo evidenzia che la
disposizione censurata «viene in diretta ed immediata applicazione
nel caso di specie», concernente un'ipotesi di manifesta
insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo.
Ne' la rilevanza delle questioni potrebbe essere esclusa per il
sol fatto che il lavoratore abbia optato per l'indennita' sostitutiva
della reintegrazione, in quanto il giudice sarebbe comunque chiamato
a decidere tra una tutela reintegratoria, pur sostituita
dall'indennita', e una tutela meramente indennitaria.
1.2.- In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente
osserva che la disposizione censurata, in quanto caratterizzata da un
tenore letterale inequivocabile, non si presta a una interpretazione
adeguatrice.
Il diniego della reintegrazione, che la legge non subordina a
criteri di sorta, rappresenterebbe un nuovo licenziamento, intimato
dal giudice sulla base di una valutazione ampiamente discrezionale.
Il carattere meramente facoltativo della reintegrazione lederebbe
il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto, per effetto di
una «insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di
qualificare in un modo o nell'altro l'atto espulsivo», determinerebbe
un'arbitraria disparita' di trattamento tra «situazioni del tutto
identiche, ossia il licenziamento per giusta causa e il licenziamento
per giustificato motivo oggettivo dei quali si sia accertata in
giudizio l'infondatezza (addirittura la manifesta infondatezza per il
G.M.O.)».
La disposizione censurata violerebbe anche l'art. 41 Cost.,
poiche' attribuirebbe al datore di lavoro «un potere di scelta di
tipo squisitamente imprenditoriale», che si tradurrebbe
nell'intimazione di «un nuovo ed autonomo atto espulsivo».
Il giudice a quo prospetta, inoltre, il contrasto con l'art. 24
Cost., che tutela il diritto di agire in giudizio. Il lavoratore «si
troverebbe esposto all'esercizio di una facolta' giudiziale
totalmente discrezionale», senza avere alcuna facolta' di difendersi.
L'art. 24 Cost., in connessione con l'art. 3 Cost., sarebbe
violato anche perche' l'insindacabile qualificazione del datore di
lavoro condizionerebbe «le tutele del lavoratore».
Inoltre, il nuovo licenziamento, che il giudice intima allorche'
nega la reintegrazione, sarebbe assoggettato a un trattamento
«ingiustificatamente differente e deteriore» rispetto agli altri
licenziamenti determinati in generale dal giustificato motivo
oggettivo e, in particolare, da un motivo legato agli stessi
mutamenti organizzativi che precludono la tutela reintegratoria. Ad
avviso del rimettente, non sarebbero rispettate le procedure di
garanzia previste dall'art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604
(Norme sui licenziamenti individuali) e sarebbe ammessa la sola
impugnativa in sede di gravame, con conseguente «abolizione di un
grado di giudizio».
Sarebbe compromessa anche la terzieta' del giudice (art. 111,
secondo comma, Cost.), costretto a vestire i panni dell'imprenditore
e a compiere «un'opzione di gestione dell'impresa».
2.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibile o comunque infondata
la questione sollevata dal Tribunale di Ravenna.
2.1.- La questione sarebbe inammissibile per un triplice ordine
di ragioni.
2.1.1.- Il rimettente, anzitutto, non avrebbe dimostrato
l'effettivo e concreto rapporto di strumentalita' fra la risoluzione
della questione di legittimita' costituzionale e la definizione del
giudizio principale e non avrebbe descritto in maniera adeguata la
fattispecie concreta sottoposta al suo esame.
2.1.2.- Il giudice a quo, in secondo luogo, avrebbe trascurato di
interpretare la disposizione censurata in senso conforme alla
Costituzione.
2.1.3.- L'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito, infine,
l'inammissibilita' della questione per il carattere additivo o
manipolativo del petitum, in un contesto in cui non si riscontrano
«vincoli costituzionali positivi in merito al tipo di tutela da
accordare al lavoratore illegittimamente licenziato».
2.2.- Quanto al merito, la questione non sarebbe comunque
fondata.
2.2.1.- Le censure muoverebbero dall'assunto dell'omogeneita' tra
la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo, da un lato, e il
giustificato motivo oggettivo, dall'altro.
Tale assunto, tuttavia, non sarebbe condivisibile. Se la giusta
causa e il giustificato motivo soggettivo si riconnettono alle
condotte del lavoratore, il giustificato motivo oggettivo investe la
«sfera organizzativa del datore di lavoro». L'eterogeneita' delle
fattispecie impedirebbe dunque di porle a raffronto.
Le censure di violazione dell'art. 3 Cost. sarebbero infondate
anche perche' il giudice ben potrebbe disattendere una qualificazione
pretestuosa, che non rispecchi le reali ragioni giustificatrici del
licenziamento.
2.2.2.- L'Avvocatura non ravvisa alcun contrasto con l'art. 41
Cost.
La disposizione censurata, nel richiedere una valutazione di
compatibilita' della reintegrazione con le esigenze organizzative
dell'impresa, sarebbe coerente con le indicazioni del giudice a quo,
che auspica una limitazione del sindacato giurisdizionale sulle
scelte imprenditoriali. Il richiamo all'eccessiva onerosita' della
reintegrazione, unito al requisito della manifesta insussistenza del
fatto posto a base del licenziamento, intenderebbe scongiurare il
rischio di «un'intromissione diretta ed incondizionata del potere
giurisdizionale nelle scelte organizzative dell'impresa».
2.2.3.- Sarebbero infondate, infine, anche le censure di
violazione della terzieta' e dell'imparzialita' del giudice (art.
111, secondo comma, Cost.).
La disposizione censurata non attribuirebbe al giudice alcun
potere di licenziare ex novo il lavoratore, ma subordinerebbe il
potere di ripristinare il rapporto di lavoro preesistente a una
valutazione ulteriore sulla compatibilita' con le esigenze
organizzative dell'impresa. Lungi dallo schierarsi dalla parte
dell'imprenditore, il giudice si limiterebbe a contemperare «le
esigenze di tutela del lavoratore e quelle organizzative del datore
di lavoro».
Considerato in diritto
1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 101 del 2020),
il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro,
dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 18, settimo comma,
secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla
tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta'
sindacale e dell'attivita' sindacale, nei luoghi di lavoro e norme
sul collocamento), nella parte in cui prevede che il giudice, quando
accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, possa - e non debba
- disporre la reintegrazione del lavoratore.
1.1.- Il rimettente denuncia, anzitutto, il contrasto con l'art.
3 della Costituzione, alla luce del «trattamento irragionevolmente
discriminatorio» che il legislatore avrebbe riservato a «situazioni
identiche». La reintegrazione, obbligatoria nel licenziamento per
giusta causa nell'ipotesi di insussistenza del fatto, sarebbe
meramente facoltativa e sarebbe subordinata a una valutazione in
termini di non eccessiva onerosita' nella fattispecie del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che peraltro
presuppone una insussistenza manifesta del fatto e una iniziativa del
datore di lavoro «del tutto pretestuosa».
Dall'insindacabile scelta del datore di lavoro di qualificare il
licenziamento come determinato da giusta causa o da giustificato
motivo oggettivo deriverebbe «una distinzione estremamente rilevante
in punto della tutela del lavoratore». Neppure le diversita' che
intercorrono tra la giusta causa e il giustificato motivo oggettivo
potrebbero spiegare tale distinzione, poiche', nell'ipotesi di
insussistenza del fatto, si configura in ogni caso un recesso
illegittimo, a prescindere dalle ragioni addotte, attinenti alla
giusta causa o al giustificato motivo oggettivo.
Il rimettente osserva che, nel caso di specie, non viene in
rilievo il tema della «mancanza di copertura costituzionale per la
reintegra», ma l'arbitraria disparita' di trattamento tra situazioni
identiche negli elementi costitutivi. Una volta che abbia scelto di
disporre la tutela reintegratoria al ricorrere di determinati
presupposti, il legislatore non potrebbe introdurre «ingiustificati
trattamenti differenziati tra situazioni identiche».
Il fatto che il lavoratore possa optare - come e' avvenuto nel
giudizio principale e come spesso avviene nella pratica - per una
indennita' sostitutiva della reintegrazione dimostrerebbe
«l'irragionevolezza del sistema complessivamente adottato». In questo
caso, difatti, il richiamo all'eccessiva onerosita' non sarebbe
pertinente. Anche da questo punto di vista, emergerebbe l'inidoneita'
del criterio indicato a indirizzare la scelta del giudice.
1.2.- Il rimettente argomenta che il potere discrezionale del
giudice di disporre o negare la reintegrazione, «nell'assoluta
mancanza di criteri normativi in base ai quali orientare
l'interprete», si configura come un potere «essenzialmente
assimilabile all'esercizio dell'attivita' di impresa». Il legislatore
sacrificherebbe la liberta' dell'iniziativa economica privata,
tutelata dall'art. 41 Cost., e porrebbe «limiti proprio ai limiti
all'iniziativa economica privata», che la Carta fondamentale
individua nel rispetto della sicurezza, della liberta', della
dignita' umana.
Nel negare la tutela reintegratoria allorche' risulti
eccessivamente onerosa, il giudice intimerebbe «un ulteriore e nuovo
licenziamento per giustificato motivo oggettivo» e compirebbe «scelte
organizzative riservate all'imprenditore».
1.3.- Il giudice a quo, inoltre, censura l'art. 18, settimo
comma, secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, in quanto
lesivo dell'art. 24 Cost.
La disposizione in esame, nell'attribuire al giudice il potere di
disporre un nuovo licenziamento, pregiudicherebbe il diritto di
difesa delle parti, che non sarebbero poste nelle condizioni di
interloquire sulla compatibilita' della reintegrazione con le
esigenze organizzative aziendali, «nel mezzo di un processo avente un
altro oggetto».
L'art. 24 Cost., in connessione con l'art. 3 Cost., sarebbe
violato sotto due ulteriori profili.
Il diritto di azione del lavoratore sarebbe «ingiustamente
sacrificato e ostacolato dalla scelta, operata dalla legge ordinaria,
di fare dipendere le tutele del lavoratore dalla mera insindacabile
(nemmeno ex post) volonta' qualificatoria datoriale».
Inoltre, il licenziamento, che il giudice intima allorche' nega
la tutela reintegratoria, riceverebbe un trattamento
«ingiustificatamente differente e deteriore [...] rispetto ad ogni
altro normale licenziamento intimato dal datore di lavoro» e anche
rispetto ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, intimati
sulla base di quello stesso mutamento organizzativo che ha precluso
l'applicazione della tutela reintegratoria. Il licenziamento disposto
ope iudicis, difatti, non sarebbe rispettoso delle procedure di
garanzia previste dall'art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604
(Norme sui licenziamenti individuali) e potrebbe essere impugnato
solo in sede di gravame contro la decisione del giudice che l'ha
intimato, con la conseguente perdita di un grado di giudizio.
1.4.- Il giudice a quo denuncia, infine, il contrasto con l'art.
111, secondo comma, Cost. e con i principi del giusto processo.
La disposizione censurata imporrebbe al giudice di ricoprire il
ruolo di una parte in causa, e in particolare dell'imprenditore,
senza neppure indicare «i criteri ai quali il giudice dovrebbe
attenersi». Sarebbe compromessa, pertanto, la terzieta' del giudice.
2.- Occorre esaminare, preliminarmente, le eccezioni di
inammissibilita' formulate nell'atto di intervento.
2.1.- Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri,
intervenuto in giudizio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale dello Stato, la questione sarebbe inammissibile per carente
motivazione in ordine al requisito della rilevanza.
2.1.1.- Il rimettente non avrebbe dimostrato la necessita' di
applicare la previsione censurata per decidere su una o piu' domande
formulate nel giudizio principale e non avrebbe offerto alcun
ragguaglio sull'incidenza di una eventuale pronuncia di accoglimento
sugli esiti della controversia. Il giudice a quo avrebbe omesso di
far luce sull'imprescindibile rapporto di strumentalita' tra la
soluzione del dubbio di costituzionalita' e la definizione del
giudizio principale.
Anche la descrizione della fattispecie concreta sarebbe lacunosa.
Il giudice a quo non avrebbe svolto alcun rilievo in merito alla
illegittimita' del licenziamento impugnato, alla manifesta
insussistenza del fatto addotto come giustificazione del
licenziamento stesso, alla necessita' di applicare la disposizione
che esclude il rimedio della reintegrazione e impone di riconoscere
una tutela meramente indennitaria.
2.1.2.- La motivazione in ordine alla rilevanza non presenta i
profili di inammissibilita' eccepiti dalla difesa dello Stato.
Questa Corte ha affermato che «[a]nche nella prospettiva di un
piu' diffuso accesso al sindacato di costituzionalita' (sentenza n.
77 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto) e di una piu'
efficace garanzia della conformita' della legislazione alla Carta
fondamentale, il presupposto della rilevanza non si identifica
nell'utilita' concreta di cui le parti in causa potrebbero
beneficiare (sentenza n. 20 del 2018, punto 2 del Considerato in
diritto)» (sentenza n. 174 del 2019, punto 2.1. del Considerato in
diritto).
La rilevanza si configura come «necessita' di applicare la
disposizione censurata nel percorso argomentativo che conduce alla
decisione e si riconnette all'incidenza della pronuncia di questa
Corte su qualsiasi tappa di tale percorso» (sentenza n. 254 del 2020,
punto 4.2. del Considerato in diritto). L'applicabilita' della
disposizione censurata e' dunque sufficiente a fondare la rilevanza
della questione proposta (fra le molte, sentenza n. 174 del 2016,
punto 2.1. del Considerato in diritto).
Nella vicenda oggi sottoposta al vaglio di questa Corte, il
giudice a quo ha descritto la fattispecie concreta in modo idoneo a
suffragare il requisito della rilevanza del dubbio di
costituzionalita'.
Il rimettente riferisce che il giudizio principale verte in via
esclusiva su una fattispecie di licenziamento per giustificato motivo
oggettivo. L'opponente non ha coltivato le contestazioni relative ai
due licenziamenti intimati per giusta causa e annullati dal giudice
della fase sommaria, con conseguente reintegrazione del lavoratore.
Nella fase sommaria e' stata accertata la manifesta insussistenza
del fatto dedotto dal datore di lavoro a sostegno del licenziamento
per giustificato motivo oggettivo e - su questo tema controverso - si
dispiegano le argomentazioni delle parti nella fase a cognizione
piena introdotta dall'opposizione.
Il giudice a quo soggiunge che le parti non contestano la
necessita' di applicare la previsione censurata, anche alla luce
della data di assunzione del ricorrente (2001) e delle dimensioni
dell'impresa, che occupa circa cinquanta dipendenti.
Secondo il rimettente, la rilevanza della questione di
legittimita' costituzionale non e' scalfita neppure dalla scelta del
lavoratore di conseguire l'indennita' sostitutiva della
reintegrazione.
La valutazione del giudice a quo, avvalorata da una pluralita' di
argomenti, non e' implausibile e supera, pertanto, il controllo
"esterno" demandato a questa Corte in ordine al requisito della
rilevanza (da ultimo, sentenza n. 32 del 2021, punto 2.1.1. del
Considerato in diritto).
Le contrapposte domande delle parti - quella del datore di
lavoro, volta a ottenere la restituzione dell'indennita' corrisposta,
e quella del lavoratore, concernente l'esatta determinazione
dell'importo dovuto - presuppongono la valutazione della fondatezza
della domanda di reintegrazione nell'ambito del giudizio incardinato
con l'opposizione di cui all'art. 1, comma 51, della legge 28 giugno
2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del
lavoro in una prospettiva di crescita).
Ai fini della decisione della controversia, e' dunque ineludibile
l'applicazione della disposizione censurata, che delinea i
presupposti della reintegrazione in un licenziamento per giustificato
motivo oggettivo quale e' quello dedotto - per concorde ammissione
delle parti - nel giudizio principale. Tanto basta a radicare la
rilevanza della questione.
2.2.- L'Avvocatura dello Stato imputa al rimettente di non avere
sperimentato una interpretazione adeguatrice della previsione
censurata.
2.2.1.- Il giudice a quo si sarebbe limitato a enucleare il
significato letterale dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo,
dello statuto dei lavoratori, senza confrontarsi con
un'interpretazione sistematica mediante un «ragionevole e bilanciato
potere esegetico». La questione sarebbe, pertanto, inammissibile.
2.2.2.- Neppure tale eccezione e' fondata.
Ai fini dell'ammissibilita' della questione di legittimita'
costituzionale, e' necessario e sufficiente che il giudice a quo
abbia esplorato la praticabilita' di una interpretazione adeguatrice
e l'abbia consapevolmente esclusa (da ultimo, sentenza n. 32 del
2021, punto 2.3.1. del Considerato in diritto), alla luce di un
accurato esame delle alternative che si profilano nel dibattito
ermeneutico (sentenza n. 123 del 2020, punto 3.3.1. del Considerato
in diritto).
Se l'interpretazione prescelta dal rimettente sia la sola
persuasiva, e' profilo che non attiene all'ammissibilita', ma al
merito della questione di legittimita' costituzionale e - nello
scrutinio del merito - dovra' essere esaminato (sentenza n. 95 del
2016, punto 2.2. del Considerato in diritto).
Il rimettente muove dalla premessa che la disposizione censurata
sia contraddistinta da un significato letterale inequivocabile e che
l'interpretazione costituzionalmente orientata si risolva in «una
interpretazione chiaramente abrogatrice di un chiaro precetto
normativo», in contrasto con il sindacato accentrato di
costituzionalita'.
Il giudice a quo mostra di recepire l'interpretazione accreditata
dalla «giurisprudenza di legittimita' maggioritaria», che riconosce
il potere discrezionale di negare la reintegrazione, «se la tutela
reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento
giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura
organizzativa medio tempore assunta dall'impresa» (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 2018, n. 10435).
Il Tribunale di Ravenna non reputa condivisibile il diverso
indirizzo, «numericamente minoritario», che configura come
obbligatoria la reintegrazione nelle ipotesi di manifesta
insussistenza del fatto (Corte di cassazione, sezione lavoro,
sentenze 13 marzo 2019, n. 7167 e 14 luglio 2017, n. 17528) e si
traduce in «una interpretazione essenzialmente abrogativa di un
testuale elemento normativo».
All'esito di un circostanziato esame delle diverse
interpretazioni prospettate, il giudice ha escluso la sostenibilita'
di un'interpretazione adeguatrice e ha cosi' ottemperato in maniera
adeguata all'onere di attribuire alla disposizione un significato
conforme ai principi costituzionali.
Anche da questa angolazione, pertanto, non si ravvisano ostacoli
alla disamina del merito.
2.3.- La questione sarebbe inammissibile, anche perche' formulata
in modo da ottenere «una pronuncia additiva o manipolativa non
costituzionalmente obbligata» in un ambito in cui il legislatore gode
di un'ampia discrezionalita'.
2.3.1.- La scelta della tutela che spetta al lavoratore
illegittimamente licenziato sarebbe demandata all'apprezzamento
discrezionale del legislatore. Il riconoscimento della reintegrazione
rappresenterebbe «solamente una delle molteplici alternative
prospettabili».
2.3.2.- Anche tale eccezione non e' fondata.
Il rimettente sollecita in maniera puntuale, mediante
l'indicazione di un chiaro termine di raffronto, l'intervento
correttivo di questa Corte, che dovrebbe ripristinare, in ordine
all'obbligatorieta' della reintegrazione, un trattamento omogeneo tra
il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo
soggettivo, da un lato, e il licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, dall'altro. Anche nella seconda ipotesi la reintegrazione
dovrebbe essere obbligatoria, quando sia accertata l'insussistenza
manifesta del fatto.
La molteplicita' dei possibili rimedi contro i licenziamenti
illegittimi e l'assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate non
escludono che le difformita' tra i regimi di tutela debbano essere
sorrette da giustificazioni razionali e non sottraggono le scelte
adottate dal legislatore al sindacato di questa Corte.
3.- Nel merito, la questione e' fondata.
4.- I dubbi di costituzionalita' si concentrano sull'art. 18,
settimo comma, secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, cosi'
come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92
del 2012, nel quadro di un ampio intervento riformatore sulle tutele
contro i licenziamenti illegittimi.
Il legislatore ha inteso ridistribuire «in modo piu' equo le
tutele dell'impiego» anche mediante l'adeguamento della disciplina
dei licenziamenti «alle esigenze del mutato contesto di riferimento»
e la previsione «di un procedimento giudiziario specifico per
accelerare la definizione delle relative controversie» (art. 1, comma
1, lettera c, della legge citata).
All'originario modello, incentrato sulla tutela reintegratoria
per tutte le ipotesi di nullita', annullabilita' e inefficacia del
licenziamento, fanno riscontro quattro regimi, applicabili ai
rapporti a tempo indeterminato instaurati fino al 7 marzo 2015. A
decorrere da questa data si dispiega la disciplina introdotta dal
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di
contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), che si caratterizza
per una diversa ratio e per un diverso regime di tutele.
Si deve ricordare che la tutela reintegratoria piena,
indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, si applica
nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo per causa di
matrimonio o di maternita' o di paternita', retto da motivo illecito
determinante o dichiarato inefficace perche' intimato in forma orale.
Il giudice reintegra il lavoratore e gli riconosce un'indennita'
risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal
giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione,
con detrazione di quel che il lavoratore abbia percepito per effetto
dello svolgimento di altre attivita' lavorative (l'aliunde
perceptum). L'importo minimo, invalicabile, e' di cinque mensilita'.
Il lavoratore, in sostituzione della reintegrazione, puo'
chiedere al datore di lavoro un'indennita' pari a quindici mensilita'
dell'ultima retribuzione globale di fatto, senza rinunciare al
risarcimento del danno patito nel periodo tra l'estromissione e la
richiesta dell'indennita' sostitutiva, che gia' risolve il rapporto
di lavoro.
L'art. 18 dello statuto dei lavoratori, cosi' come novellato nel
2012, prevede, inoltre, una tutela reintegratoria attenuata e una
tutela indennitaria, declinata in forma piena e ridotta, e ne
sancisce l'applicazione ai datori di lavoro che occupino piu' di
quindici dipendenti (cinque, se si tratta di imprese agricole)
nell'unita' produttiva in cui ha avuto luogo il licenziamento o
nell'ambito dello stesso Comune o che occupino complessivamente, sia
pure in diverse unita' produttive, piu' di sessanta dipendenti.
La tutela reintegratoria attenuata, invocata nell'odierno
giudizio, contempla la reintegrazione nel posto di lavoro, al pari
della tutela reintegratoria piena, ma limita a dodici mensilita'
l'ammontare dell'indennita' risarcitoria che il datore di lavoro e'
obbligato a corrispondere dal giorno del licenziamento fino a quello
dell'effettiva reintegrazione. Da tale importo, peraltro, deve essere
detratto non solo quel che il lavoratore abbia guadagnato in virtu'
di altre occupazioni (l'aliunde perceptum), ma anche quel che avrebbe
potuto guadagnare adoperandosi con l'ordinaria diligenza nella
ricerca di un'altra attivita' lavorativa (l'aliunde percipiendum).
Anche in questo caso il lavoratore ha la facolta' - in concreto
esercitata nel giudizio principale - di optare per l'indennita'
sostitutiva della reintegrazione.
Tale tutela si applica ai licenziamenti disciplinari, per giusta
causa o giustificato motivo soggettivo, allorche' il giudice
riscontri l'insussistenza del fatto contestato o la riconducibilita'
del fatto alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla
base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici
disciplinari.
La tutela reintegratoria attenuata sanziona anche i licenziamenti
intimati senza giustificazione «per motivo oggettivo consistente
nell'inidoneita' fisica o psichica del lavoratore», o intimati in
violazione delle regole che, nell'ambito del licenziamento per
malattia, disciplinano il periodo di comporto (art. 2110 del codice
civile).
Nei licenziamenti economici, la tutela reintegratoria attenuata
puo' essere applicata nelle ipotesi di «manifesta insussistenza del
fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo».
5.- Quanto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo
connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative, che
rappresenta il fulcro dell'odierna questione di legittimita'
costituzionale, il nuovo regime sanzionatorio previsto dall'art. 18
della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del
2012, prescrive di regola la corresponsione di una indennita'
risarcitoria, compresa tra un minimo di dodici e un massimo di
ventiquattro mensilita'.
Il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino a
un massimo di dodici mensilita', e' circoscritto all'ipotesi della
manifesta insussistenza del fatto, che postula una evidente assenza
dei presupposti di legittimita' del recesso e dunque la sua natura
pretestuosa (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 19 marzo
2020, n. 7471).
Tale requisito, che il rimettente non censura, si correla
strettamente ai presupposti di legittimita' del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, che e' onere del datore di lavoro
dimostrare. Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all'attivita'
produttiva, all'organizzazione del lavoro e al suo regolare
funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte
organizzative del datore di lavoro e, infine, l'impossibilita' di
collocare altrove il lavoratore (Corte di cassazione, sezione lavoro,
sentenza 11 novembre 2019, n. 29102). Perche' possa operare il
rimedio della reintegrazione, e' sufficiente che la manifesta
insussistenza riguardi uno dei presupposti appena indicati (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 dicembre 2018, n. 32159).
Tali presupposti, pur nel loro autonomo spazio applicativo, si
raccordano tutti all'effettivita' della scelta organizzativa del
datore di lavoro, che il giudice e' chiamato a valutare, senza
sconfinare in un sindacato di congruita' e di opportunita'. Il vaglio
della genuinita' della decisione imprenditoriale garantisce che il
licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il
frutto di un insindacabile arbitrio.
6.- Il rimettente prende le mosse dall'assunto, avallato anche
dalla piu' recente giurisprudenza di legittimita' (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 3 febbraio 2020, n. 2366), che
la reintegrazione non sia obbligatoria, neppure quando
l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento si connoti
come manifesta.
Il dato testuale conferma una tale premessa ermeneutica. Nel
contesto dell'art. 18, settimo comma, dello statuto dei lavoratori,
al perentorio «applica» del primo periodo fa riscontro il «puo'
applicare» del secondo periodo e sottende, secondo il significato
proprio delle parole, una facolta' discrezionale del giudice.
L'elemento letterale e' poi corroborato dalla ratio legis, cosi'
come si ricava dall'esame dei lavori preparatori. L'attuale
formulazione scaturisce dalla mediazione tra opposte visioni,
all'esito di un acceso dibattito parlamentare. Le critiche alle
"disarmonie" della previsione censurata, emerse nel corso
dell'approvazione del disegno di legge presentato dal Ministro del
lavoro e delle politiche sociali, non hanno condotto alla
reintroduzione della reintegrazione obbligatoria, pur proposta a piu'
riprese.
La giurisprudenza di legittimita', nel tentativo di scongiurare
le incertezze applicative che il testo della legge avrebbe ingenerato
(Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 luglio 2016, n.
14021), ha provato a definire i criteri che presiedono alla
valutazione discrezionale del giudice e ha posto l'accento, in
particolare, sui principi generali in tema di risarcimento in forma
specifica (art. 2058 cod. civ.), che precludono la restitutio in
integrum quando si riveli eccessivamente onerosa; norma applicabile
anche alla responsabilita' contrattuale.
Nella ricostruzione della Corte di cassazione, che costituisce
diritto vivente, il richiamo alla disciplina del risarcimento del
danno in forma specifica offre «un parametro di riferimento per
l'esercizio del potere discrezionale del giudice», che impone di
valutare se la reintegrazione sia «al momento di adozione del
provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la
struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa» (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 2018, n. 10435).
Il giudice, pertanto, potra' pronunciare la reintegrazione del
lavoratore «subordinatamente all'ulteriore valutazione discrezionale
rispetto alla non eccessiva onerosita' del rimedio» (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 31 gennaio 2019, n. 2930).
7.- La disposizione censurata, nel sancire una facolta'
discrezionale di concedere o negare la reintegrazione, contrasta con
l'art. 3 Cost., con riguardo ai profili e per i motivi di seguito
esposti.
8.- Sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla
tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35
Cost.), questa Corte ha fondato, gia' in epoca risalente, l'esigenza
di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le
fattispecie di licenziamento (sentenza n. 45 del 1965, punto 4 del
Considerato in diritto).
L'attuazione del diritto «a non essere estromesso dal lavoro
ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto 9
del Considerato in diritto) e' stata ricondotta, anche di recente,
nell'alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto
alla scelta dei tempi e dei modi della tutela (sentenza n. 194 del
2018, punto 9.2. del Considerato in diritto), anche in ragione della
diversa gravita' dei vizi e di altri elementi oggettivamente
apprezzabili come, per esempio, le dimensioni dell'impresa. Si e'
anche rimarcato che la reintegrazione non rappresenta «l'unico
possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali (sentenza
n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto).
In un assetto integrato di tutele, in cui alla Costituzione si
affiancano le fonti sovranazionali (art. 24 della Carta sociale
europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996,
ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30) e
dell'Unione europea (art. 30 della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea - CDFUE -, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000
e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), «molteplici possono
essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il
lavoratore arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza n. 254
del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto).
Nell'apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del
lavoratore, il legislatore, pur nell'ampio margine di apprezzamento
che gli compete, e' vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza
e di ragionevolezza.
9.- La disposizione censurata entra in conflitto con tali
principi.
Il carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivela,
anzitutto, una disarmonia interna al peculiare sistema delineato
dalla legge n. 92 del 2012 e viola il principio di eguaglianza.
Per i licenziamenti disciplinari, il legislatore ha previsto la
reintegrazione del lavoratore, quando si accerti in giudizio
l'insussistenza del fatto posto a base del recesso del datore di
lavoro. Per i licenziamenti economici, l'insussistenza del fatto puo'
condurre alla reintegrazione ove sia manifesta. L'insussistenza del
fatto, pur diversamente graduata, assurge dunque a elemento
qualificante per il riconoscimento del piu' incisivo fra i rimedi
posti a tutela del lavoratore.
Secondo la valutazione discrezionale del legislatore,
l'insussistenza del fatto - sia che attenga a una condotta di rilievo
disciplinare addebitata al lavoratore sia che riguardi una decisione
organizzativa del datore di lavoro e presenti carattere manifesto -
rende possibile una risposta sanzionatoria omogenea, che e' quella
piu' energica della ricostituzione del rapporto di lavoro.
In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore,
annette rilievo al presupposto comune dell'insussistenza del fatto e
a questo presupposto collega l'applicazione della tutela
reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di
eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione
per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza
manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio
di piu' accentuata gravita' rispetto all'insussistenza pura e
semplice del fatto.
Le peculiarita' delle fattispecie di licenziamento, che evocano,
nella giusta causa e nel giustificato motivo soggettivo, la
violazione degli obblighi contrattuali ad opera del lavoratore e, nel
giustificato motivo oggettivo, scelte tecniche e organizzative
dell'imprenditore, non legittimano una diversificazione quanto alla
obbligatorieta' o facoltativita' della reintegrazione, una volta che
si reputi l'insussistenza del fatto meritevole del rimedio della
reintegrazione e che, per il licenziamento economico, si richieda
finanche il piu' pregnante presupposto dell'insussistenza manifesta.
L'esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando
adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si
appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede
l'interesse del lavoratore alla continuita' del vincolo negoziale e
si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata
la persona del lavoratore. L'insussistenza del fatto, pur con le
diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di
licenziamento, denota il contrasto piu' stridente con il principio di
necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che
questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost.
(sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto).
Tali elementi comuni alle fattispecie di licenziamento poste a
raffronto dal rimettente, valorizzati dallo stesso legislatore nella
previsione di una identica tutela reintegratoria, privano di una
ragione giustificatrice plausibile la configurazione di un rimedio
meramente facoltativo per i soli licenziamenti economici.
E' sprovvisto di un fondamento razionale anche l'orientamento
giurisprudenziale che assoggetta a una valutazione in termini di
eccessiva onerosita' la reintegrazione dei soli licenziamenti
economici, che incidono sull'organizzazione dell'impresa al pari di
quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e
la dignita' del lavoratore.
10.- Alla violazione del principio di eguaglianza e alla
disarmonia interna a un sistema di tutele, gia' caratterizzato da una
pluralita' di distinzioni, si associa l'irragionevolezza intrinseca
del criterio distintivo adottato, che conduce a ulteriori e
ingiustificate disparita' di trattamento.
Il rimettente scorge nella previsione censurata le
caratteristiche di una norma "in bianco" e stigmatizza
l'irragionevolezza di una disciplina «del tutto priva di criteri
applicativi» idonei a orientare il potere discrezionale di disporre o
meno la reintegrazione.
10.1.- Anche questi rilievi, che sorreggono l'argomentazione
dell'ordinanza di rimessione, sono fondati.
Per i licenziamenti economici, il legislatore non solo presuppone
una evidenza conclamata del vizio, che non sempre e' agevole
distinguere rispetto a una insussistenza non altrimenti qualificata,
ma rende facoltativa la reintegrazione, senza offrire all'interprete
un chiaro criterio direttivo.
La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse - quella
reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella meramente
indennitaria - e' cosi' rimessa a una valutazione del giudice
disancorata da precisi punti di riferimento.
Il richiamo alla eccessiva onerosita', che la giurisprudenza di
legittimita' ha indicato nell'intento di conferire alla previsione un
contenuto precettivo meno evanescente, non pone rimedio
all'indeterminatezza della fattispecie.
Tale nozione, funzionale a tracciare la linea di confine tra due
forme di tutela dalla comune matrice risarcitoria (risarcimento in
forma specifica o per equivalente), si colloca nel contesto di
grandezze economiche comparabili. Nella disciplina della
reintegrazione, invece, che si e' via via affinata come autonoma
tecnica di tutela rispetto al paradigma dell'art. 2058 cod. civ.,
essa finisce per rivelarsi inadeguata.
Nella ricostruzione operata dalla giurisprudenza, sopra
richiamata, la misura indennitaria di tutela compensativa non puo'
dirsi "equivalente", quale invece e' l'indennita' sostitutiva della
reintegrazione, prevista dal terzo comma dell'art. 18 dello statuto
dei lavoratori, ma ha invece un contenuto ridotto, quale quello
previsto dal quinto comma del medesimo articolo.
L'eccessiva onerosita', declinata come incompatibilita' con la
struttura organizzativa nel frattempo assunta dall'impresa,
presuppone valutazioni comparative non lineari nella dialettica tra
il diritto del lavoratore a non essere arbitrariamente estromesso dal
posto di lavoro e la liberta' di iniziativa economica privata. Ne'
serve a individuare parametri sicuri per la valutazione del giudice
nel riconoscimento di due rimedi - la reintegrazione o l'indennita' -
caratterizzati da uno statuto eterogeneo.
In un sistema equilibrato di tutele, la discrezionalita' del
giudice riveste un ruolo cruciale, come questa Corte ha riconosciuto
di recente nel censurare l'automatismo che governava la
determinazione dell'indennita' risarcitoria per i licenziamenti
viziati dal punto di vista sostanziale (sentenza n. 194 del 2018) o
formale (sentenza n. 150 del 2020), dapprima commisurata alla sola
anzianita' di servizio. Al giudice e' stato restituito un essenziale
potere di valutazione delle particolarita' del caso concreto, in base
a puntuali e molteplici criteri desumibili dall'ordinamento, frutto
di una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata.
Nella fattispecie sottoposta all'odierno scrutinio, la diversa
tutela applicabile - che ha implicazioni notevoli - discende invece
da un criterio giurisprudenziale che, per un verso, e' indeterminato
e improprio e, per altro verso, privo di ogni attinenza con il
disvalore del licenziamento.
Il mutamento della struttura organizzativa dell'impresa che
preclude l'applicazione della tutela reintegratoria e' riconducibile
allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento illegittimo
e puo' dunque prestarsi a condotte elusive. Tale mutamento, inoltre,
puo' intervenire a distanza di molto tempo dal recesso ed e' pur
sempre un elemento accidentale, che non presenta alcun nesso con la
gravita' della singola vicenda di licenziamento.
E', pertanto, manifestamente irragionevole la scelta di
riconnettere a fattori contingenti, e comunque determinati dalle
scelte del responsabile dell'illecito, conseguenze di notevole
portata, che si riverberano sull'alternativa fra una piu' incisiva
tutela reintegratoria o una meramente indennitaria.
Per costante giurisprudenza di questa Corte (fra le molte,
sentenza n. 2 del 1986, punto 8 del Considerato in diritto), ben puo'
il legislatore delimitare l'ambito applicativo della reintegrazione.
Nondimeno, un criterio distintivo, che fa leva su una mutevole
valutazione casistica e su un dato privo di ogni ancoraggio con
l'illecito che si deve sanzionare, non si fonda su elementi oggettivi
o razionalmente giustificabili e amplifica le incertezze del sistema.
11.- Inoltre, nel demandare a una valutazione giudiziale sfornita
di ogni criterio direttivo - percio' altamente controvertibile - la
scelta tra la tutela reintegratoria e la tutela indennitaria, la
disciplina censurata contraddice la finalita' di una equa
ridistribuzione delle «tutele dell'impiego», enunciata dall'art. 1,
comma 1, lettera c), della legge n. 92 del 2012. L'intento di
circoscrivere entro confini certi e prevedibili l'applicazione del
piu' incisivo rimedio della reintegrazione e di offrire parametri
precisi alla discrezionalita' del giudice rischia di essere
vanificato dalla necessita' di procedere alla complessa valutazione
sulla compatibilita' con le esigenze organizzative dell'impresa.
Anche da questo punto di vista, si ravvisa l'irragionevolezza
censurata dal Tribunale di Ravenna.
12.- Si deve dichiarare, pertanto, l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo, della
legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera
b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede che il
giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a
base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «puo'
altresi' applicare» - invece che «applica altresi'» - la disciplina
di cui al quarto comma del medesimo art. 18.
Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura prospettati
dal rimettente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 18, settimo
comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme
sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta'
sindacale e dell'attivita' sindacale, nei luoghi di lavoro e norme
sul collocamento), come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b),
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma
del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte
in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta
insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, «puo' altresi' applicare» - invece che
«applica altresi'» - la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto
comma.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 1° aprile 2021.
Il Cancelliere
F.to: Filomena PERRONE
