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IMMIGRATI, ACCESSO AI POSTI PUBBLICI, NORMATIVE NAZIONALI E DIRITTO COMUNITARIO”.

 

di Paolo Iafrate

 

Abstract

L’accesso alle pubbliche amministrazioni dei cittadini di paesi terzi è stato introdotto con la Legge 6 agosto 2013, n. 97, al fine di porre termine a due procedure pre-contenziose avviate dalla Commissione, che ha esteso la possibilità di accedere agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, nei casi in cui già potevano accedere i cittadini europei, anche ai loro familiari non comunitari titolari del diritto di soggiorno, nonché ai cittadini stranieri titolari del permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo (cd. ‘‘lungo-soggiornanti’’), ovvero titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria. Tale innovazione costituisce l’adempimento di tre direttive europee (n. 2004/38/Ce, n. 2003/109/Ce e n. 2004/83/Ce). La formulazione letterale pare escludere gli stranieri dai posti pubblici, ma la Corte di Giustizia da tempo ha dichiarato infondata questa interpretazione e il Testo Unico del lavoro nella pubblica amministrazione ne ha tenuto conto, citando l’esclusione solo in determinate ipotesi. Di fatto, però, gli immigrati non comunitari, anche se titolari di un permesso di lungo soggiorno, non sono presenti nella Pubblica Amministrazione. Gli effetti negativi di tale esclusione sono duplici: da una parte l’area pubblica viene sentita dagli immigrati come un’area lontana, dall’altra, il mancato accesso ai posti pubblici è di pregiudizio alla creazione di leader tra gli immigrati. L’analisi della questione appare così rivestire un grande significato sia sotto l’aspetto giuridico che sotto quello socio culturale. Pertanto, nel presente contributo verranno affrontati gli aspetti lavorativi contenuti nella Dir. 2003/109/Ue nell’interpretazione della Corte di Giustizia di Lussemburgo nel paragrafo 1 ed i vari sotto paragrafi e l’interpretazione della direttiva a livello nazionale alla luce delle più importanti sentenze di legittimità e merito. Nel paragrafo tre si focalizza l’attenzione sull’applicazione della Direttiva in Germania, con specifico approfondimento al settore pubblico. Nel quarto paragrafo si esamina l’applicazione della citata Direttiva in Belgio e nel quinto si evidenziano le conseguenze socio – culturali derivante dalla normativa europea. Nel sesto paragrafo si rassegnano le conclusioni all’interno delle quali si sottolinea come la mancata applicazione ostacola il processo di incluso avviato dai cittadini stranieri.

Abstract

The access to public administrations of third-country nationals was introduced by Law 6 August 2013, no. 97, in order to put an end to two pre-litigation procedures initiated by the Commission, which extended the possibility of access to jobs in public administrations, in cases where European citizens were already eligible, to their non-EU family members who hold the right of residence, as well as to foreign citizens holding the EC long-term residence permit (so-called ”long-stayers”), or holders of refugee status or subsidiary protection status. This innovation constitutes the implementation of three European directives (no. 2004/38/EC, no. 2003/109/EC and no. 2004/83/EC). The literal wording seems to exclude foreigners from public posts, but the Court of Justice has long since declared this interpretation unfounded and the Consolidated Law on Employment in the Public Administration has taken this into account, citing exclusion only in certain cases. In fact, however, non-EU immigrants, even if they hold a long-term residence permit, are not present in the Public Administration. The negative effects of this exclusion are twofold: on the one hand, the public area is felt by immigrants to be distant, and on the other, the lack of access to public posts is prejudicial to the creation of leaders among immigrants. The analysis of this issue thus appears to be of great significance both from a juridical and a socio-cultural point of view. Therefore, this contribution will address the labor aspects contained in Directive 2003/109/EU as interpreted by the Court of Justice in Luxembourg in paragraph one and the various sub-paragraphs, and the interpretation of the directive at the national level in the light of the most important judgments of legitimacy and merit. Paragraph three focuses attention on the application of the Directive in Germany, with specific reference to the public sector. The fourth paragraph examines the application of the above-mentioned Directive in Belgium, and the fifth highlights the socio-cultural consequences deriving from European legislation. In the sixth paragraph, conclusions are drawn which underline how the lack of application hinders the process of inclusion initiated by foreign citizens.

 

SOMMARIO: 1. Gli aspetti lavorativi contenuti nella Dir. 2003/109/Ue nell’interpretazione della Corte di Giustizia di Lussemburgo; 1. L’interpretazione della Direttiva nella giurisprudenza nazionale; 1.1. Contesto storico; 1.2. Influenza delle normative sovranazionali; 1.3. L’interpretazione della Corte di giustizia europea; 1.4. La situazione dei cittadini non comunitari; 2. L’interpretazione della Direttiva nella giurisprudenza italiana di merito – Direttiva 2003/109/CE; 3. L’applicazione della Direttiva in Germania. 3.1. Il settore pubblico tedesco; 4. L’applicazione della Direttiva in Belgio; 4.1 Conclusione; 5. Conseguenze socio-culturali derivanti dall’applicazione della Direttiva; 5.1. Cittadinanza e percorso di studi; 6. Conclusioni.

 

1. Gli aspetti lavorativi contenuti nella Direttiva 2003/109/CE nell’interpretazione della Corte di Giustizia di Lussemburgo

1. Contesto storico

Il rapporto tra nazionalità e impiego pubblico rappresenta un importante novità a livello normativo. Il legame1 tra nazionalità e funzione pubblica come enunciato da D’Antonio è una caratteristica degli ordinamenti moderni nati dall’esperienza dello Stato-nazione, nei quali l’appartenenza alla nazione è condizione indispensabile per l’esercizio delle funzioni pubbliche.

Secondo la dottrina sia D’Antonio che Gnes2, sottolineano che in una prima fase storica (fine dell’Ottocento) e gli inizi del Novecento, in Italia si riteneva che non ogni funzione pubblica fosse riservata ai cittadini. In questo senso, si sosteneva che solo relativamente alle “cariche superiori o direttive”, che cioè interessavano direttamente la politica, fosse necessario il possesso della cittadinanza, mentre per le “funzioni minori” e le “funzioni tecniche speciali” non fosse necessari.

L’esempio più rappresentativo di impiego pubblico per il quale non era richiesto il possesso della cittadinanza italiana era l´insegnamento universitario. Tuttavia, dall’inizio del Novecento nell’epoca del fascismo, questa posizione muta e si richiede sempre più il requisito della cittadinanza, anche per l’accesso a funzioni tecniche o minori.

In tal senso, la dottrina, sostiene che in questo periodo “l’impiego pubblico è stato concepito come un approfondimento dello status di cittadinanza” e l’impiegato è stato considerato alla stregua di un cittadino speciale, legato allo Stato da “una relazione di appartenenza e di identificazione più intensa e profonda di quella del normale cittadino3.

Questa posizione potrebbe essere osservata non solo nel testo unico delle leggi sugli impiegati civili dello Stato del 1908, il quale prevedeva tra i requisiti necessari per essere nominato impiegato civile dello Stato il possesso della cittadinanza italiana, ma anche nella legge del 1912 sulla cittadinanza italiana, la quale prevedeva che l’accettazione di un impiego dello Stato costituiva causa di acquisto della cittadinanza oltre a stipulare che la permanenza in un impiego presso una stato straniero contro la volontà dello Stato italiano ne comportava la perdita.

A seguito della caduta del fascismo e l’entrata in vigore della Costituzione italiana, questa posizione rimane invariata.

Di conseguenza, è stato stabilito nella Costituzione, per l’accesso alle funzioni pubbliche – indifferentemente se politiche o amministrative – il requisito del possesso della cittadinanza italiana. In questo senso, l’art. 51,c.1 prevedeva che “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”.

Nel contempo, l’art.98, c.1, stabiliva che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” e l’art. 54.c.2, che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge

A seguito della riforma del lavoro pubblico realizzata con il D.lgs. n. 29/1993, i cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea (all’epoca della Comunità Economica Europea) accedono ai posti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, limitatamente a quelle posizioni «che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale»4.

 

1.2. Influenza delle normative sovranazionali

Il requisito della cittadinanza per l’ammissione ai pubblici uffici ed alle cariche elettive è oggetto del dibattito scientifico per effetto dell’integrazione europea.

Al riguardo, secondo il Trattato di Roma del 1957 era corrispondente alla visione tradizionale che collegava l’accesso alla funzione pubblica al requisito del possesso della cittadinanza.

Ebbene, nonostante la libera circolazione delle persone fosse già prevista nel Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea e fosse declinata come libera circolazione dei lavoratori, questa non ha coinvolto l’abolizione delle discriminazioni basate sulla nazionalità tra i lavoratori degli Stati membri.

L’art. 48, co. 4, TCEE stabiliva che “le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione”. Tale argomentazione è rimasta immutata nelle successive modifiche, e anche nell’attuale testo dell’art. 45, co. 4, TFUE.

Secondo la dottrina tale norma è un’espressione della c.d. “riserva di sovranità”, come pure dal termine“public service exeption”.

Al riguardo, D’Antonio, rileva che queste clausole di esclusione evidenziano (…) “quanto fosse all’epoca radicata, nei Paesi sottoscrittori, quella concezione tradizionale del pubblico impiego che ne enfatizzava ad un tempo la specialità rispetto al lavoro privato ed il nesso con la sovranità statale. Alla base della deroga vi erano inoltre sia la preoccupazione di proteggere le identità nazionali, sia l’attenzione quasi esclusiva agli aspetti economici della nuova istituzione sovranazionale”.

 

1.3.L’interpretazione della Corte di giustizia europea

A seguito del mutamento del tempo, sociali e culturali all’interno dell’Unione Europea, l’interpretazione giurisprudenziale acquisisce rilevanza, coerenza e attualità5.

Il confine tra la norma (libera circolazione e non discriminazione) e l’eccezione (nazionalità della funzione pubblica, riserva ai cittadini degli impieghi comportanti l’esercizio di funzioni pubbliche), in assenza di un parametro normativo preciso.

All’interno della normativa in materia l’art. 48, co. 4, TCEE ha definito quali fossero gli impieghi nella pubblica amministrazione esclusi dall’applicazione del principio di libera circolazione dei lavoratori, mentre la giurisprudenza europea ha delimitato gli ambiti dal punto di vista oggettivo e soggettivo.

In relazione all’aspetto oggettivo nel 1974 con la pronuncia Sorgiu, la Corte ha introdotto il limite per l’accesso, non al rapporto di lavoro che una volta instaurato riserva il medesimo trattamento dei previsto per i cittadini comunitari.

In particolare, secondo il giudice europeo: “tenuto conto del carattere fondamentale che assumono nel sistema del trattato i principi della libera circolazione e della parità di trattamento dei lavoratori all’interno della Comunità, alle deroghe ammesse dal n. 4 dell’art. 48 non può essere attribuita una portata più ampia di quella connessa al perseguimento del loro specifico scopo. Gli interessi, che la clausola di deroga permette agli Stati membri di tutelare, sono salvaguardati grazie alla libertà di assumere cittadini stranieri soltanto in certi settori e per certe attività della pubblica amministrazione”.

Nella sentenza Commissione c. Belgio del 1980, la Corte di giustizia ha stabilito il carattere derogatorio al rapporto tra esercizio di funzioni pubbliche e requisito della cittadinanza.

Sul punto si rileva nella pronuncia che la norma “pone fuori del campo d’applicazione un complesso di posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche. Posti del genere presuppongono infatti, da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza6.

L’orientamento giurisprudenziale seguito dal ragionamento della dottrina adotta una nozione funzionale di pubblica amministrazione, basata sui due concetti, tra loro connessi, di “esercizio dei pubblici poteri” e “tutela degli interessi generali dello Stato”, ha ristretto i trattamenti discriminatori ed ha statuito l’obbligo per il legislatore nazionale di consentire l’ingresso di tutti gli altri impieghi pubblici ai cittadini degli Stati membri”.

In tal senso, in accordo con il giudice europeo, pur se l’eccezione prevista dalla norma europea ha il fine di riservare i posti in base alla cittadinanza, “la delimitazione della nozione di pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 48, n.4, non può essere lasciata alla completa discrezione degli Stati membri”.

Secondo la giurisprudenza europea, assume rilevanza la funzione effettivamente svolta per l’impiego nel quale lo Stato abbia scelto di avvalersi della facoltà di stabilire la riserva della cittadinanza.

La Corte, ha previsto di una valutazione caso per caso, senza dare una precisa individuazione dei posti o delle funzioni che possono essere riservate ai cittadini, ha stabilito che, per potere rientrare nell’eccezione, occorre che vengano soddisfatti due condizioni: in primo e quello per cui l’impiego in questione deve comportare l’esercizio, sia pure indiretto, di pubblici poteri; il secondo quello per cui esso deve riguardare la tutela degli interessi generali dello Stato o delle “pubbliche collettività”.

A seguito di tale requisito la Corte ha avuto modo di chiarire che non partecipano all’esercizio di pubbliche potestà, anche se qualificati ad altri fini come dipendenti pubblici, gli addetti a mansioni tecnico-operative presso le Ferrovie e le amministrazioni comunali, gli infermieri assunti negli ospedali pubblici, gli insegnanti tirocinanti, i ricercatori del CNR7, i lettori di lingua straniera delle università, gli insegnanti delle scuole secondarie.

 

1.4. La situazione dei cittadini non comunitari

Gli Stati devono tener conto del principio della libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione Europea. In tal senso, va richiamato il principio della libera circolazione dei lavoratori, dettato dall’art. 45 TFUE per i cittadini degli Stati membri, è applicabile, sebbene entro determinati limiti, anche per determinate categorie di cittadini di Paesi terzi.

Il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri è riconosciuto non solo ai cittadini dell’Unione ma anche ai loro familiari, qualunque sia la cittadinanza di questi ultimi.

D’altra parte, e riguardo all’oggetto del presente lavoro, deve essere considerata la situazione degli soggiornanti di lungo periodo Ue.

I titolari del permesso di soggiorno di lungo periodo godono del medesimo trattamento dei cittadini nazionali in diverse materie, tra cui quella del lavoro.

Ciò posto, l’articolo 11, co. 1, dalla dir. 2003/109/CE, sembra rifiutare l’accesso al lavoro pubblico a queste categorie nell’ipotesi in cui «il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: a) l’esercizio di un’attività lavorativa subordinata o autonoma, purché questa non implichi nemmeno in via occasionale la partecipazione all’esercizio di pubblici poteri, nonché le condizioni di assunzione e lavoro, ivi comprese quelle di licenziamento e di retribuzione».

Inoltre lo Stato membro può limitare la possibilità di svolgere attività lavorative che la legislazione nazionale riservi ai cittadini nazionali8.

La parità di trattamento dei soggiornanti di lungo periodo apre un ulteriore ingresso al lavoro pubblico per i cittadini degli Stati terzi.

Infine, vi è prevista una terza categoria di cittadini non comunitari alla quale il diritto dell’Unione ha aperto le porte del pubblico impiego: i titolari di protezione internazionale.

In relazione all’accesso all’occupazione, sussiste l’obbligo degli Stati membri di autorizzare i beneficiari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria “a esercitare un’attività dipendente o autonoma nel rispetto della normativa generalmente applicabile alle professioni e agli impieghi nella pubblica amministrazione”.

Detto ciò, nonostante le direttive che hanno posto le premesse per l’ammissione agli impieghi pubblici non riservati delle suddette tre categorie di stranieri, le stesse non hanno ricevuto, in un primo tempo, piena attuazione nell’ordinamento italiano.

Infatti i decreti legislativi di recepimento avevano lasciato immutata la disposizione del Testo unico sul pubblico impiego, che riguardava esclusivamente ai cittadini degli Stati membri

Di conseguenza, le amministrazioni pubbliche italiane continuavano ad ammettere alle proprie dipendenze – limitatamente ai posti non riservati ai cittadini italiani – soltanto i cittadini dell’Unione europea, senza aprire ai loro familiari e ai soggiornanti di lungo periodo.

La mancata integrale ricezione delle direttive è stata segnalata dalla dottrina, che ha comunque sostenuto l’immediata applicabilità delle nuove norme di diritto comunitario anche in assenza di una loro completa trasposizione nell’ordinamento interno

A seguito della richiesta di informazioni da parte della Commissione europea al Governo italiano (nei Casi EU Pilot 1769/11/JUST e 2368/11/HOME) sulla presunta violazione delle suddette direttive al fine di evitare l’avvio di procedure di infrazione, il legislatore è intervenuto nel 2013 con lo strumento della legge europea, apportando all’art. 38 del Testo unico sul pubblico impiego le modifiche necessarie.

Pertanto l’accesso ai posti di lavoro pubblici non riservati ai cittadini italiani è oggi consentito, oltre che ai cittadini degli Stati membri, anche ai «loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente» (art. 38, co. 1) e ai cittadini di Paesi terzi «titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria» (art. 38, co. 3-bis).

Attualmente la normativa vigente rileva che i cittadini non comunitari soggiornanti di lungo periodo si trovano nella medesima posizione dei cittadini dell’UE quando si tratta di entrare in un impiego pubblico.

Fermo restando ciò, nonché la chiarezza e la coerenza che la Corte di giustizia europea ha avuto al riguardo, affinché questo regolamento abbia una corretta applicazione pratica il giudice nazionale è dovuto intervenire in più di un’occasioni come nei casi del Tribunale di Firenze9, Milano10 e Roma11.

 

2. L’interpretazione della Direttiva nella giurisprudenza italiana di merito – Direttiva 2003/109/CE.

Secondo un’impostazione prevista dall’art 2 del Testo Unico delle disposizioni riguardanti lo Statuto degli impiegati civili dello Stato del 1957 (D.P.R. 3/1957), la cittadinanza italiana rappresentava un requisito fondamentale necessario per accedere al pubblico impiego.

La Carta Costituzionale, subordina la posizione del funzionario pubblico a quella del cittadino, come si evince sia dall’art. 51, che dall’ art.54.

Tale requisito rimane un dato neutro che non viene neppure fatto oggetto di discussione per lungo tempo, fino a quando, per effetto dell’integrazione europea, si assiste ad una prima, se pur parziale, limitazione.

Ebbene, nonostante l’impostazione adottata nel Trattato di Roma appariva allineata alla concezione secondo cui la cittadinanza risultava necessaria per l’accesso al pubblico impiego, in ossequio al principio di nazionalità della funzione pubblica ed escludendo espressamente gli impieghi nella pubblica amministrazione dal campo di applicazione del principio di libera circolazione dei lavoratori, l’effetto della giurisprudenza europea ha incentivato un rilevante mutamento di direzione.

Più precisamente, per effetto della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, questo proposta ha trovato un’applicazione sempre più restrittiva, per cui la riserva in favore dei cittadini degli impieghi presso le pubbliche amministrazioni è consentita solo nel caso in cui tali impieghi comportino l’esercizio di pubblici poteri, sia pure indirettamente, e riguardino la tutela degli interessi generali dello Stato e della pubblica collettività.

Il legislatore nazionale, per conformarsi ai principi stabiliti dalla giurisprudenza europea, ha stabilito che «i cittadini degli Stati membri della Comunità economica europea possono accedere ai posti di lavoro presso la pubblica amministrazione che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale» (Art. 37 co.1 d.lgs. n.29 del 3 febbraio 1993), affidando ad un regolamento da adottare con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, l’individuazione degli impieghi per i quali si doveva continuare ad esigere il possesso della cittadinanza italiana”.

Su tale base fu adottato il D.p.c.m. 7.2.1994, n. 174, successivamente integrato dal D.p.c.m. n. 623/1994, ancora in vigore.

L’art. 1 del D.p.c.m. n. 174/1994 riserva ai cittadini italiani i posti dei livelli dirigenziali e i posti con funzioni di vertice amministrativo delle amministrazioni pubbliche statali e non statali, i posti dei magistrati e degli avvocati e procuratori dello Stato, i posti dei ruoli civili e militari della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero degli affari esteri, del Ministero dell’interno, del Ministero di grazia e giustizia, del Ministero della difesa, del Ministero delle finanze e del Corpo forestale dello Stato, eccetto quelli per i quali occorre il titolo di studio della scuola dell’obbligo12.

In relazione alle funzioni, l’art. 2 del medesimo D.p.c.m. riserva ai cittadini italiani quelle «che comportano l’elaborazione, la decisione, l’esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi», nonché le «funzioni di controllo di legittimità e di merito».

L’art. 11, co. 1, dir. 2003/109/CE, prevede che «il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: a) l’esercizio di un’attività lavorativa subordinata o autonoma, purché questa non implichi nemmeno in via occasionale la partecipazione all’esercizio di pubblici poteri, nonché le condizioni di assunzione e lavoro, ivi comprese quelle di licenziamento e di retribuzione»

Le direttive che hanno posto le basi per l’ammissione agli impieghi pubblici della suddetta categoria, però, non hanno ricevuto, in un primo tempo, piena attuazione nell’ordinamento italiano. Infatti i decreti legislativi di recepimento, come il d.lgs. 3/2007, avevano lasciato immutata la disposizione del Testo unico sul pubblico impiego, che concerneva esclusivamente ai cittadini degli Stati membri. Di conseguenza, le amministrazioni pubbliche italiane continuavano ad ammettere alle proprie dipendenze, soltanto i cittadini dell’Unione europea13.

La mancata ricezione integrale delle direttive è stata richiamata dalla dottrina, che ha comunque sostenuto l’immediata applicabilità delle nuove norme di diritto comunitario anche in assenza di una loro completa trasposizione nell’ordinamento interno.

A seguito della richiesta di informazioni da parte della Commissione europea al Governo italiano sulla presunta violazione delle suddette direttive, per evitare l’avvio di procedure di infrazione, il legislatore è intervenuto con la legge n. 97/2013 sulle «Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea» la quale, modificando l’art. 38 del T.U. sul pubblico impiego, consente, oltre che ai cittadini comunitari, anche ai «loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente» (art. 38, co. 1) e ai cittadini di Paesi terzi «titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria» (art. 38, co. 3-bis) di accedere al pubblico impiego.

L’orientamento della giurisprudenza di merito

L’orientamento giurisprudenziale è stato quello adottato e sostenuto dalla maggior parte della giurisprudenza amministrativa e dal Consiglio di Stato in funzione consultiva che più volte si è espressa a favore dell’esclusione dal pubblico impiego dei cittadini stranieri non comunitari.

Nell’ordinanza cautelare del Tribunale di Firenze, riferita al concorso per assistente giudiziario bandito dal Ministero della Giustizia, si ravvisa un orientamento difforme, ad oggi prevalente. Tale sentenza ha costituito il modello per le successive decisioni dei giudici ordinari, intervenute sulla medesima questione giuridica.

Ordinanza del Tribunale di Firenze del 26 Giugno 2018, R.G. 1090/2017

Il Giudice del Lavoro nell’ordinanza del Tribunale di Firenze del 26 giugno 2018 in relazione al concorso indetto con D.M. 18/11/2016 per 800 posti a tempo indeterminato di assistente giudiziario nei ruoli del personale del Ministero della Giustizia, che prescrive il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso alla selezione pubblica, ha dichiarato14:

1) la natura discriminatoria dell’art. 3 del bando di concorso citato nella parte che esclude l’accesso alla pubblica selezione dei cittadini comunitari, dei cittadini stranieri in possesso dei requisiti previsti dall’art. 38 d.lgs n. 165/2001, dei titolari di carta blu, e dei familiari non comunitari di cittadini italiani, ordinandosi al Ministero della Giustizia di cessare il comportamento discriminatorio e rimuoverne gli effetti, in particolare, di modificare il bando eliminando la clausola contestata, di ammettere alla procedura concorsuale la sig.ra e gli altri candidati stranieri che hanno presentato domanda, di riaprire i termini per la presentazione di ulteriori domande di ammissione; nonché condannato il Ministero della Giustizia al risarcimento del danno non patrimoniale.

Secondo il giudice di prime cure la natura discriminatoria, diretta e/o indiretta, individuale e collettiva, della norma del bando che imponeva il requisito della cittadinanza italiana, vietata dal diritto dell’U.E e dal diritto interno, richiamando il quadro normativo di fonti diverse e la giurisprudenza della CGUE, facendo preciso riferimento alla direttiva 2003/109/CE, recepita dal d.lgs n. 3/2007 che equipara i cittadini stranieri in possesso di permesso di soggiorno di lungo periodo CE ai cittadini nazionali»

« le mansioni affidate agli assistenti giudiziari non implicassero l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri in via non occasionale o limitata, né attenessero alla tutela dell’interesse nazionale in via prevalente ed essenziale»

Il giudice di prime cure ha osservato altresì che:

« il requisito della cittadinanza per l’accesso al lavoro nella pubblica amministrazione previsto da norme nazionali di diverso rango, ha subito restrizioni derivanti dal processo di integrazione europea, dal principio di libera circolazione all’interno dell’Unione e di non discriminazione, sulla base della nazionalità, tra i lavoratori degli stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione, le condizioni di lavoro»

« nelle pronunce intervenute in tema di discriminazione fondata sulla nazionalità, vietata dall’art. 49 TFUE, ha ritenuto illegittimo il requisito della cittadinanza per l’accesso a determinate posizioni lavorative pubbliche o private collegate all’esercizio di pubblici poteri consistenti in attività ausiliarie o preparatorie rispetto all’esercizio dei pubblici poteri»

«Il quadro normativo nazionale in tema di accesso dei cittadini comunitari e di paesi terzi ai posti di lavoro pubblici è dettato dall’ art.38, comma 1, d.lgs 165/2001 (così modificato dall’art. 7, comma 1, lett. b, L. 6 agosto 2013, n. 97 Legge europea 2013) che stabilisce, al comma 1 che “I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale», precisando poi che la disposizione appena citata, si applica, in forza dei successivi commi, anche ai titolari di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

L’ordinanza in esame, in relazione all’accesso al pubblico impiego rileva che secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza comunitaria deve applicarsi ai cittadini comunitari, ai cittadini di paesi terzi familiari dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ai cittadini di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria.»

Sent. n. 15759 dell’ 11 giugno 2018 – Tribunale Ordinario di Milano – Sezione Lavoro

Nella pronuncia in oggetto con riferimento all’accertamento del carattere discriminatorio del bando di concorso indetto per il profilo professionale di «funzionario mediatore culturale», per l’inserimento tra i requisiti per l’accesso al concorso quello della «cittadinanza italiana».

Il Giudice del lavoro ha ritenuto fondata l’argomentazione evidenziando che:

«l’articolo 45 TFUE, nel prevedere il principio della libera circolazione dei lavoratori e vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla nazionalità, prevede quale deroga, al comma 4, solo l’ipotesi di impieghi nella pubblica amministrazione. […] la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha statuito che la deroga in questione possa ritenersi ammissibile solo ove concerna posizioni comportanti partecipazione diretta o indiretta all’esercizio di pubblici poteri e a tutela di interessi generali dello Stato»

«Quanto alla normativa nazionale, è noto che la fonte primaria è rappresentata dall’articolo 38 D.lgs 165/01, (in forza della L. 97/13, recante Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia), a mente del quale è stata espressamente prevista la possibilità di accesso ai posti di lavoro presso pubbliche amministrazioni per i cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea qualora non siano implicati esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri ovvero detti posti non attengano alla tutela dell’interesse nazionale. […] Di conseguenza, resta scolpito il principio per cui l’accesso alla pubblica amministrazione di cittadini comunitari debba essere valutato avendo riguardo ai compiti ed alle funzioni che si andrebbero a disimpegnare

Tribunale di Roma sez. II , – Sent. del 28/01/2019, n. 798

Il giudice di merito15 in più pronunce, con riferimento alla condotta discriminatoria di cui all’articolo 3 dei Bandi di Concorso pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana il 9/2/2018, rispettivamente, per 250 posti a tempo indeterminato per il profilo professionale di Funzionario della professionalità di servizio sociale, nei ruoli del personale del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità (“bando assistenti sociali”) e per 15 posti a tempo indeterminato per il profilo professionale di Funzionario mediatore culturale, nei ruoli del personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (“bando mediatori culturali”), nella parte in cui non consentiva la partecipazione ai cittadini stranieri in possesso dei requisiti di cui all’articolo 38, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001, come modificato dall’articolo 7, comma 1, lettera a, della legge n. 97/2013.»

Tale possibilità deve essere prevista, in quanto, in relazione all’accesso al lavoro nella pubblica amministrazione, previsto da norme nazionali di diverso rango (art. 51 Cost., art. 2 del D.P.R. n. 3/1957, art. 2 D.P.R. n. 487/94 richiamato dall’ art. 70 comma 13 d.lvo n. 165/2001, art. 1 D.P.C.M. n. 174/1994), numerose restrizioni, derivanti dal processo di integrazione europea, dal principio di libera circolazione all’interno dell’Unione e di non discriminazione, sulla base della nazionalità, tra i lavoratori degli stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione, le condizioni di lavoro (art. 45 TFUE ex 39 TCE)»16.

In particolare, «la Corte (CGUE) ha circoscritto la deroga ai “posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche” in quanto “presuppongono, da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza»

«Secondo l’interpretazione sempre più rigorosa della Corte di Giustizia i pubblici poteri si manifesterebbero nella posizione e mansione lavorativa che: 1) implichi l’esercizio di poteri di coercizione o d’imperio nei confronti dei terzi, 2) in funzione di interessi generali e non meramente tecnici o economici, 3) purchè siano esercitati in modo abituale e non rappresentino una parte molto ridotta dell’attività»

«Il quadro normativo nazionale in tema di accesso dei cittadini comunitari e di paesi terzi ai posti di lavoro pubblici è dettato dall’art. 38, comma 1, d.lgs 165/2001 il quale stabilisce che “I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”. Il successivo comma 3 bis prevede che le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano, “ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria».

«La legge n. 97/2013 ha esteso l’accesso al pubblico impiego, con i medesimi limiti previsti per i cittadini UE a determinate categorie di cittadini di paesi terzi, cioè ai familiari di cittadini UE non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ai cittadini di Paesi terzi lungo soggiornanti, ai titolari dello status di rifugiato ed ai titolari dello status di protezione sussidiaria

 

3.L’applicazione della Direttiva in Germania.

Direttiva 2003/109/Ce – Germania Act On The Residence, Economic Activity And Integration Of Foreigners In The Federal Territory (2004).

La legge tedesca “act on the residence, economic activity and integration of foreigners in the federal territory (30 June 2004)” ha il fine di gestire e limitare i flussi di stranieri nella Repubblica Federale di Germania. La normativa organizza l’immigrazione tenendo in debita considerazione le capacità di ammissione e integrazione e gli interessi della stessa, in termini di economia e mercato del lavoro.

Allo stesso tempo, la legge serve anche ad adempiere agli obblighi umanitari del paese. A tal fine regola l’ingresso, la residenza, l’attività economica e l’integrazione degli stranieri.

Questo statuto serve anche a trasporre nel diritto nazionale la seguente direttiva: Direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003 relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo17.

Sez. 9 Act On The Residence, Economic Activity And Integration Of Foreigners In The Federal Territory (30 June 2004) Permesso di Soggiorno Permanente ( Niederlassungserlaubnis).

1) Il permesso di soggiorno permanente, è un titolo di soggiorno non limitato nel tempo.

2) Lo straniero può ottenere un permesso di residenza permanente se:

1. è titolare di un permesso di soggiorno temporaneo da cinque anni

2. possiede mezzi economici adeguati

3. ha versato contributi obbligatori o volontari al regime pensionistico legale per almeno 60 mesi o fornisce la prova di avere diritto a prestazioni comparabili da un regime assicurativo o pensionistico o da una compagnia di assicurazioni. In proposito si deve tenere in debita considerazione il periodo di ferie per la cura dei minori o l’assistenza infermieristica a domicilio

4. non vi sono motivi di pubblica sicurezza o ordine che escludano la concessione di tale permesso, tenuto conto della gravità o della natura della violazione dell’ordine o della sicurezza pubblica o della minaccia rappresentata dallo straniero, tenuto debito conto della durata del soggiorno dello straniero fino ad oggi e dell’esistenza di legami sul territorio federale,

5. lo straniero può esercitare un’attività lavorativa, quale lavoratore dipendente,

6. lo straniero è in possesso di altri permessi necessari ai fini dell’esercizio permanente della propria attività economica,

7. lo straniero ha una padronanza sufficiente della lingua tedesca,

8. lo straniero possiede una conoscenza di base del sistema giuridico e sociale e dei modi di vivere nel territorio federale,

9. lo straniero dispone di uno alloggio adeguato per sé e per i familiari conviventi.

I requisiti nn.1, 7 e 8 si considerano sussistenti se lo straniero ha completato con successo un percorso di integrazione. Tuttavia, non si tiene conto di questi requisiti se lo straniero non è in grado di soddisfarli a causa di una malattia o disabilità fisica o mentale; così come nel caso in cui lo straniero è in grado di comunicare verbalmente in lingua tedesca a livello base e non ha avuto diritto a partecipare ad un percorso di integrazione ai sensi dell’art. 44.

3) Nel caso di coniugi conviventi, è sufficiente che uno dei coniugi soddisfi i requisiti del comma (2): 1, 3, 5 e 6. Il requisito di cui al comma (2), 1 e. 3 può non essere necessario se lo straniero segue un corso di istruzione o formazione che porta a una qualifica scolastica, professionale o superiore riconosciuta.

4) Ai fini del possesso di un permesso di soggiorno temporaneo necessario per ottenere il permesso di residenza permanente vengono conteggiati i seguenti periodi:

1. La durata del precedente permesso di soggiorno temporaneo o di un permesso di domicilio permanente, quando ha lasciato il territorio federale, meno la durata dei soggiorni intermedi al di fuori del territorio federale che hanno portato alla scadenza del permesso di soggiorno permanente; viene conteggiato un massimo di quattro anni.

2. Un massimo di sei mesi per ogni soggiorno al di fuori del territorio federale che non ha comportato la scadenza del permesso di soggiorno temporaneo.

3. Metà del periodo di soggiorno legale per motivi di studio o formazione professionale nel territorio federale18.

Sez. 9a. Act On The Residence, Economic Activity And Integration Of Foreigners In The Federal Territory (30 June 2004) Permesso Ue Per Soggiornanti Di Lungo Periodo

(1) Il permesso di soggiorno di lungo periodo dell’UE è un titolo di soggiorno permanente. La sezione 9 (1), le frasi 2 e 3 si applicano di conseguenza.

In assenza di disposizioni contrarie nella presente legge, il permesso di soggiorno di lungo periodo dell’UE è equivalente al permesso di residenza permanente.

(2) Lo straniero può ottenere un permesso di soggiorno di lungo periodo UE ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della direttiva 2003/109 / CE se 1.

1. lo straniero risiede da cinque anni sul territorio federale con titolo di soggiorno,

2. la sussistenza economica dello straniero e delle persone a suo carico sono assicurate da un reddito fisso e regolare,

3. lo straniero ha sufficiente conoscenza della lingua tedesca,

4. lo straniero possiede una conoscenza di base del sistema giuridico e sociale e dei modi di vivere sul territorio federale,

5. tale permesso di soggiorno non è precluso per motivi di ordine o sicurezza pubblica, tenuto conto della gravità o della natura della violazione dell’ordine o della sicurezza pubblica o del pericolo derivante dallo straniero, della durata del soggiorno dello straniero fino ad oggi e dell’esistenza di legami sul territorio federale

6. lo straniero dispone di un alloggio sufficiente per sé e per i familiari conviventi.

Sezione 18c Permesso Di Soggiorno A Tempo Indeterminato Per Lavoratori Qualificati19

1) I lavoratori qualificati possono ottenere un permesso di soggiorno permanente senza il consenso dell’Agenzia federale del lavoro, se:

1. sono titolari di un titolo di soggiorno ai sensi degli articoli 18a, 18b o 18d da quattro anni,

2. hanno un lavoro conforme ai requisiti stabiliti nelle sezioni 18a, 18b o 18d,

3. hanno versato contributi obbligatori o volontari al regime obbligatorio di assicurazione pensionistica per almeno 48 mesi o forniscono la prova di avere diritto a prestazioni comparabili da un regime assicurativo o pensionistico o da una compagnia di assicurazioni, e

4. hanno una sufficiente padronanza della lingua tedesca,

5. i requisiti della sezione 9 (2) frase 1 nn. 2 e da 4 a 6, 8 e 9 sono soddisfatti; la sezione 9 (2) frasi da 2 a 4 e 6 si applica di conseguenza.

Il periodo di cui alla frase 1 n. 1 è ridotto a due anni e il periodo di cui alla sentenza 1 n. 3 è ridotto a 24 mesi se il lavoratore qualificato ha completato con successo una formazione professionale o un corso di studi in Germania.

3) In casi speciali, un lavoratore altamente qualificato in possesso di un diploma universitario può ottenere un permesso di soggiorno permanente senza il consenso dell’Agenzia federale del lavoro, se vi è motivo di presumere che l’integrazione nel modo di vivere nella Repubblica federale di Germania e la sussistenza dello straniero senza assistenza statale è assicurata e se i requisiti della sezione 9 (2) frase 1 n. 4 sono soddisfatte.

Il governo del Land può stabilire che la concessione del permesso di soggiorno permanente ai sensi della frase 1 richieda l’approvazione dell’autorità suprema del Land o di un organismo da essa designato20.

I lavoratori altamente qualificati di cui alla frase 1 comprendono in particolare le seguenti persone, a condizione che abbiano diversi anni di esperienza lavorativa:

1. ricercatori con conoscenze tecniche speciali

2. personale docente in posizioni di rilievo o personale scientifico in posizioni di rilievo.

Al 1°gennaio 2019, i cittadini residenti in uno Stato membro dell’UE e aventi la cittadinanza di un paese terzo erano 21,8 milioni, pari al 4,9 % della popolazione dell’UE-27.

Inoltre, al 1°gennaio 2019, 13,3 milioni di cittadini residenti in uno degli Stati membri dell’UE-27 avevano la cittadinanza di un altro Stato membro dell’Unione.

Il numero più elevato di stranieri residenti nell’UE-27 al 1°gennaio 2019 si è registrato in Germania (10,1 milioni di persone), Italia (5,3 milioni), Francia (4,9 milioni) e Spagna (4,8 milioni).

 

3.1 Il settore pubblico tedesco

La Germania è una Repubblica federale, suddivisa in 16 Länder.

La costituzione tedesca si basa sulla suddivisione dei poteri, il sistema di governo federale e l’autogoverno delle autorità locali.

I Länder dispongono di poteri legislativi propri, ma ciascuno dispone della propria parte di attività statali da svolgere.

Il settore pubblico (Öffentlicher Dienst) comprende il lavoro di più di 4 milioni e mezzo di lavoratori suddivisi nello Stato (Bund) nelle regioni (Länder) e nei circondari e comuni (Landkreise und Gemeinden).

Il lavoro nelle scuole e negli ospedali statali, negli uffici di collocamento, nell’ente pensionistico e nello stato sociale, concerne il settore pubblico.

In Germania sono presenti tre macro aree d’impiego nel settore pubblico. Queste aree sono il governo federale, le regioni e le municipalità. Ogni macro area impiega due diverse categorie di lavoratori pubblici: Beamte (funzionari che devono avere la cittadinanza tedesca oppure di un paese UE) e Angestellte (impiegati), ognuno regolato da un regime legislativo differente.

Per i Beamte si parla di legge federale, che significa l’intervento del parlamento per determinare diritti e doveri così come remunerazione e pensione dei funzionari statali.

Le condizioni salariali, di formazione e di lavoro degli Angestellte, invece, sono regolate dagli stessi contratti applicati nel settore privato. Condizioni specifiche di lavoro sono comunque determinate in conformità a una negoziazione tra i datori di lavoro e il sindacato.

Sono impiegati nelle autorità pubbliche e nel servizio civile, ma anche nella polizia e nell’esercito, nella scuola e nella politica. Lo status di Beamte non può essere tolto una volta assegnato. Gli Angestellten sono impiegati in tutte le altre funzioni pubbliche, dalla cultura al sociale, dal territorio alla sanità.

L’autorità pubblica impiega un terzo di Beamte e due terzi di Angestellten.

I rifugiati nel mondo del lavoro

Secondo uno studio dell’Istituto federale di ricerca sul mercato del lavoro di Norimberga, attualmente l’integrazione dei rifugiati nel mondo del lavoro tedesco funziona ancora oggi. Tra la fine del 2015 e l’inizio 2016, arrivarono nel paese circa 880.000 migranti, la maggiore parte proveniente dalla Siria.

Più del 40% dei rifugiati che vivono in Germania, hanno un’occupazione. L’analisi rivela che nel 2019 quasi 400.000 rifugiati tra i quindici e i sessantaquattro anni in Germania avevano un impiego.

I settori del mercato del lavoro in si riscontra un’occupazione maggiore, sempre secondo lo Iab, sono la gastronomia e la ristorazione, ditte per la pulizia, edilizia, assistenza sanitaria e sociale. Non mancano però le “eccellenze”. Vi sono numeri concernenti operai specializzati, medici, ingegneri e informatici.

Il sistema si fonda su un principio valido per ogni tipo di occupazione: dalla più qualificata a quella meno retribuita. In Germania non si ha accesso al mondo del lavoro se prima non è soddisfatto un periodo di apprendistato o formazione. La formazione in questo caso è rivolta soprattutto agli studenti che frequentano scuole superiori e università. Il sistema mette direttamente in relazione gli enti di formazione con le aziende in cerca di lavoratori.

Lo Stato federale, attraverso l’Agenzia del lavoro (Arbeitsagentur), con la collaborazione di Länder e Comuni, mette a disposizione corsi di formazione gratuiti, che prevedono anche corsi di lingua tedesca. Sempre secondo l’Agenzia federale per il lavoro nel 2018 si è registrato un aumento del 14,8% del numero dei rifugiati che hanno frequentato corsi di formazione. Nel 2018, i siriani e gli afghani richiedenti asilo, iscritti ai corsi di formazione in tutto il Paese sono stati 13.900. Nel 2017 erano stati meno di 10.000.

 

4. L’applicazione della Direttiva in Belgio.

Nella storia del Regno del Belgio non vi è stata sempre un’apertura verso gli stranieri. Nel 1979 la CEE fece causa al Regno del Belgio per il trattamento discriminatorio nei confronti dei cittadini comunitari relativamente al loro accesso a determinati posti nella Pubblica Amministrazione, che sebbene facessero parte della P.A. non hanno mansioni che solitamente aspettano ad essa.

La Corte nella Sentenza del 17 dicembre 1980, chiede alle parti di riesaminare la questione e presentare una relazione congiunta alla Corte. Il 26 maggio 1982, la Corte ricorda che le professioni tutelate sono quelle che hanno un rapporto con attività specifiche della pubblica amministrazione in quanto incaricata dell’esercizio dei pubblici poteri e responsabile della tutela degli interessi generali dello Stato, cui vanno equiparati gli interessi propri delle collettività pubbliche, come le amministrazioni comunali. E dichiara e sancisce che: 1’obbligo del possesso della cittadinanza quale condizione per l’assunzione ai posti contemplati nelle relazioni depositate dalle parti il 29 ed il 30 ottobre 1981, ad eccezione di quelli di ‘ispettore capo dell’ufficio tecnico’, ‘ispettore capo’, ‘ispettore dei lavori’, ‘ispettore degli inventari’ e ‘guardiano notturno’ , nel ‘amministrazione comunale di Bruxelles , nonché di ‘architetto’ delle amministrazioni comunali di Bruxelles e Auderghem , il regno del Belgio è venuto meno agli obblighi impostigli dal trattato CEE21.

Le leggi principali sul tema

Legge 15 dicembre 1980 sull’accesso al territorio, soggiorno, stabilimento e allontanamento degli stranieri e sue successive modifiche (ultima quella dell’8 maggio 2019 sull’accesso al territorio, soggiorno, stabilimento ed espulsione degli stranieri)

Legge 30 aprile 1999 sull’occupazione dei lavoratori stranieri. Le modifiche e gli aggiornamenti su questa legge sono passati alla competenza delle Regioni a seguito della Sesta riforma dello Stato del 2011

Il recepimento

Il recepimento della Direttiva è in ritardo rispetto alla scadenza indicata dalla Commissione alla data del 23 gennaio 2006, come fatto notare anche dalla senatrice Clotilde Nyssens durante la domanda orale al Ministro dell’Interno del Senato del 26 gennaio 2006. Il 25 Aprile 2007, nella Legge recante modifica della Legge del 15 Dicembre 1980 sull’accesso al territorio, soggiorno, stabilimento e allontanamento degli stranieri sono trasposte in legge:

Direttiva 2003/109/CE relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo

Direttiva 2004/38/CE sul diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e risiedere

Il settore pubblico nel Regno del Belgio include:

amministrazione federale

amministrazioni comunitarie e regionali

amministrazioni provinciali e comunali (compreso il CPAS-Centro Pubblico Azione Sociale)

organismi speciali come l’esercito, la Corte dei conti, l’ordinamento giudiziario, ecc.

Il legislatore belga, distingue il servizio pubblico in due tipologie di lavoro: Incarichi statutari (les emplois statutaires): per i quali il personale è nominato a tempo indeterminato e le cui condizioni di lavoro sono regolate da un insieme di testi che definiscono lo statuto. Per la maggior parte di questi lavori, al momento della loro entrata in servizio devono essere di nazionalità belga o svizzera o essere cittadino di un Paese che appartiene allo Spazio economico europeo (vale a dire, paesi dell’UE e Norvegia e Lichtenstein).

Lavori contrattuali (les emplois contractuels): che, come nel settore privato, impegnano il personale tramite un contratto di lavoro, a tempo determinato o indeterminato. La retribuzione è la stessa di un dipendente statutario, ma le possibilità di carriera sono più limitate.

In relazione a questa tipologia di lavoro non è previsto alcun requisito di nazionalità.

Tuttavia, per determinati tipi di lavori specifici, devi essere belga (ad esempio, per le funzioni in cui è previsto l’esercizio e/o le funzioni di pubblici poteri). Questi includono, ad esempio, lavori come assistente di sorveglianza carceraria (guardia carceraria), diplomatico e ispettore finanziario. Per esempio per accedere alla carriera da magistrato ci sono diversi percorsi, tuttavia sono necessari un la laurea in legge e la cittadinanza belga22.

Analisi del fenomeno

Il numero dei lavoratori fisici nei servizi pubblici federali, nell’anno 2014 sono 55535.

Nel caso che ci occupa se prendiamo il riferimento sulla presenza di nazionalità straniere, vediamo che nello stesso anno preso in esame, i lavoratori dipendenti di origine straniera sono 182.

Purtroppo, i dati presenti non vanno oltre il 2014 e non permettono quindi un’analisi più precisa sul tema, ciò che si evince sono le azioni politiche a sostegno dell’integrazione dei cittadini stranieri nell’amministrazione pubblica.

Oggi, l’amministrazione federale belga sostiene la diversità, in particolare attraverso le campagne guidate dall’unità Diversità e Selor .

Attualmente, non è necessario essere bilingue, è sufficiente una conoscenza di una delle tre lingue nazionali. I test di lingua saranno organizzati solo se la conoscenza di un’altra lingua è un requisito per la funzione (diplomazia).

Nella pagina di Selor relativa all’uguaglianza delle opportunità vi sono numerose interviste con dipendenti pubblici stranieri, ve ne consiglio la visione.

 

4.1 Conclusione

L’integrazione nel mercato del lavoro dei cittadini di paesi terzi (e in generale delle persone di origine straniera) è debole in Belgio. Esistono differenze importanti tra il tasso di occupazione delle persone di origine belga e il tasso di occupazione delle persone di origine straniera.

Questa situazione è legata a una miscellanea di fattori. Il rapporto di monitoraggio socioeconomico 2017, redatto da FPS Emploi, Travail et Concertation Sociale e UNIA, ha identificato due serie di fattori: le caratteristiche strutturali del mercato del lavoro in Belgio (ad esempio, la segmentazione del mercato del lavoro), nonché le difficoltà specifiche incontrate dagli stranieri e dalle persone di origine straniera (es. discriminazione).

All’interno di questo ambito, consentire l’integrazione nel mercato del lavoro degli stranieri e delle persone di origine straniera è spesso presentato come una priorità in Belgio. Sono stati adottati diversi approcci: nella misura in cui l’integrazione (nel mercato del lavoro) è in gran parte una competenza delle entità federate (cioè le regioni e le comunità), le politiche, le pratiche e gli attori coinvolti differiscono da un’entità all’altra.

Recentemente sono state messe in atto o rafforzate misure generali per promuovere l’integrazione dei cittadini di paesi terzi (ad esempio programmi di integrazione obbligatoria).

In relazione all’integrazione nel mercato del lavoro più specificamente, i cittadini di paesi terzi hanno accesso a molte misure, attuate da vari attori (compresi i servizi regionali per l’occupazione e i loro partner). La maggior parte di queste misure non si rivolge specificamente ai cittadini di paesi terzi, ma sono accessibili a tutte le persone in cerca di lavoro o a gruppi target più ampi. Tuttavia, recentemente sono stati adottati approcci più mirati, che mirano a indirizzare alcuni gruppi verso i servizi più adatti alle loro esigenze (ad esempio, il piano d’azione VDAB 2016-2018 per persone alla fine in cerca di lavoro con una storia di migrazione, o le misure adottate dal Governo vallone nel 2016 per facilitare l’integrazione nel mercato del lavoro di alcuni nuovi arrivati)23.

 

5. Conseguenze socio-culturali derivanti dall’applicazione della Direttiva 2003/109/CE.

Nonostante, l’Italia abbia recepito la normativa europea Direttiva del Consiglio del 25 Novembre 2003 relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, l’orientamento predominante sembra essere legato all’applicazione del DPCM 174/1994 – Art.1, per il quale non può prescindersi il possesso della cittadinanza italiana, per:

a) i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell’art. 6 del D.Lgs. n. 29/1993, nonché i posti dei corrispondenti livelli delle altre pubbliche amministrazioni;

b) i posti con funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della Banca d’Italia;

c) i posti dei magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, nonché i posti degli avvocati e procuratori dello Stato;

d) i posti dei ruoli civili e militari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero degli affari esteri, del Ministero dell’interno, del Ministero della Giustizia, del Ministero della difesa, del Ministero delle finanze e del Corpo forestale dello Stato, salvo i posti a cui si accede in applicazione dell’art. 16 della Legge n. 56/198724.

Inoltre, all’articolo 2, si prevede che siano riservate ai cittadini italiani

funzioni che comportano l’elaborazione, la decisione, l’esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi;

funzioni di controllo di legittimità e di merito.

Questo orientamento si instaura nel contesto europeo in cui, attualmente, gli abitanti nati al di fuori dell’UE sono circa 34 milioni (circa l’8 % della popolazione dell’UE) e il 10% dei giovani (fascia di età 15-34 anni) nati nell’UE ha almeno un genitore nato all’estero.

Inoltre, oltre un quarto dei migranti è costituito da persone con un livello di istruzione elevato, che offrono risorse, ambizione e motivazione tuttavia non sono in grado di mettere a frutto le proprie capacità, e quasi il 40 % è sovra qualificato per il lavoro che svolge, con un conseguente dispendio di potenziale.

Allo stesso modo, quasi un quinto dei migranti possiede solo un’istruzione elementare e ha bisogno di ulteriore sostegno per portare a termine il proprio percorso di inclusione socio-economica. Infatti, non solo incontrano carenze in settori chiave come l’istruzione, l’occupazione, la povertà, l’esclusione sociale e l’alloggio, ma per i giovani migranti (fascia di età 18-24 anni) nati al di fuori dell’UE, le probabilità di “non lavorare, non studiare e non prendere parte a programmi di formazione” erano molto più alte (21 %) rispetto agli autoctoni (12,5 %), in particolare per le ragazze e le giovani donne migranti (25,9 %)25.

 

5.1 Cittadinanza e percorso di studi

Dall’analisi dei dai dati risulta che alcune professioni sono precluse ai non-cittadini per legge, anche ascendenti stranieri poiché spesso intraprendono un corso di studi che non consente loro di avere le competenze e qualifiche necessarie per candidarsi a ruoli dirigenziali.

Da un lato, chi esprime “positività” verso lo studio e verso le interazioni scolastiche con docente e compagni di scuola è più probabilmente uno studente ad alto rendimento. Il successo scolastico appare infatti connesso anche ad alcune caratteristiche familiari, come ad esempio il reddito, la permanenza del soggiorno e l’interessamento della famiglia ai risultati scolastici. Al contrario, la frequentazione di amici e conoscenti della stessa comunità di origine al di fuori dell’ambito scolastico risulta invece un fattore penalizzante rispetto alla possibilità di ottenere buoni risultati26.

Uno studio INVALSI assegna alcune indicazioni sulle preferenze degli stranieri relativamente al percorso di studi successivo alle scuole medie27.

Il 33,9% sceglie un Liceo. Questo dato si alza al 35,3% per gli studenti di II generazione e arriva al 47,3% nelle femmine. La percentuale che frequenta i Licei cresce,

Il 37,4% degli studenti stranieri prosegue gli studi in un Istituto Tecnico

Il 18,6% sceglie gli Istituti Professionali

Il 10,4% opta per Percorsi di Istruzione e Formazione Professionale

L’81% dei diplomati stranieri di secondaria di I grado prosegue nella scuola secondaria di II grado. L’8% sceglie la formazione professionale regionale.

Tra gli studenti nati in Italia, crescono le preferenze a favore di percorsi considerati più impegnativi. Il 15,3% frequenta il Liceo scientifico e l’8,3% il Liceo linguistico.

Di conseguenza, la scelta della scuola superiore contribuisce a determinare il successivo percorso formativo dei giovani e può avere un impatto importante sulla conseguente transizione scuola-lavoro e, quindi, sul loro successo lavorativo.

Tuttavia, le basi risentono del contesti familiare del paese di origine e dei condizionamenti dei genitori, degli amici e dei docenti, anche a causa dell’eccessiva precocità con cui è effettuata (13-14 anni). Se il consiglio orientativo tiene conto anche del background culturale, si comprende meglio perché gli insegnanti invitano gli studenti appartenenti alle seconde generazioni a una scelta da comfort zone che tiene conto, solo in minima parte, delle reali aspirazioni dei ragazzi e delle loro attitudini allo studio, rinviandoli, dunque, principalmente verso Istituti professionali o tecnici e in minor misura verso i licei.

Tali scelte si ripercuotono anche nella composizione della popolazione universitaria: i dati ISTAT rilevano che, nel 2017, su 1.731.033 studenti iscritti all’università, 1.654.680 studenti sono italiani (96%) e solo 76.353 (4%) sono stranieri. Quest’ultimo dato comprende anche gli studenti trasferiti in Italia per motivi di studio ed è la risultante non solo delle scelte degli studenti nei percorsi di studio precedenti, ma anche dall’età degli studenti. In altri termini si evince che i giovani stranieri che frequentano l’università abbiano acquisito la cittadinanza al compimento della maggiore età perché nati in Italia, oppure per derivazione familiare.

L’assenza dei giovani di origine straniera dal mondo accademico rappresenta una perdita di potenziale umano. Per la loro condizione nell’intervallo tra due o più culture, i giovani di origine straniera si muovono facilmente tra diverse appartenenze e creano facilmente nuove strategie identitarie multiple. Pertanto, si configurano come avanguardie di una società che sempre di più annovererà e incoraggerà competenze multiculturali fra i suoi cittadini, sia attraverso le esperienze formative nei programmi internazionali di istruzione e formazione, sia attraverso i periodi di lavoro all’estero, anche prolungati.

La conoscenza delle lingue e la motivazione all’ascesa sociale, rafforzate da un atteggiamento più intraprendente e flessibile, potrebbero sostenere la crescita di potenziali cittadini del mondo, in grado di dare energia al Paese e di affrontare le sfide della globalizzazione molto più facilmente dei ragazzi italiani cresciuti sul modello di una cultura maggiormente assistenzialista.

Le ripercussioni in termini economici

In Italia la mobilità sociale è bassa nella parte inferiore della scala del reddito – dove si posiziona la maggior parte delle famiglie straniere – ma è ancora più bassa in alto, dove invece si accumulano opportunità. In generale, uno studio dell’OCSE sottolinea come la mancanza di mobilità verso l’alto implica la perdita di molti talenti, con un effetto negativo sulla crescita economica potenziale e sulla soddisfazione individuale, il benessere e la coesione sociale28.

In questo contesto si muove la ricerca lavorativa dei giovani stranieri, che tendono ad affidarsi principalmente alle reti informali. Tuttavia, vari studi hanno sottolineato che tali reti possono funzionare bene per le basse qualifiche, mentre per le qualifiche medio-alte – per le quali i giovani di seconda generazione si presenterebbero come candidati più competitivi degli italiani – non solo il passaparola non risulta altrettanto efficace, ma spesso i giovani non possiedono i requisiti di cittadinanza per poter accedere alle professioni29.

L’esclusione economica o l’inattività di ampie parti di popolazione da alcuni settori produttivi ha costi molto elevati, specialmente in un quadro di cambiamento demografico legato all’invecchiamento della popolazione e all’aumento della popolazione in gruppi sociali tradizionalmente svantaggiati nel mercato del lavoro, come i migranti e le minoranze etniche. Di conseguenza, se le minoranze restano escluse da processi produttivi e decisionali, lo saranno anche dagli effetti di tali processi: non ne avranno benefici economici né saranno i destinatari delle misure attuate

Conseguenze socio-culturali

L’assenza di mobilità sociale appena descritta contribuisce a perpetuare stereotipi e pregiudizi sul ruolo e sulle professioni svolte dagli stranieri: l’assenza di stranieri in posizioni decisionali e in tutte le professioni che richiedono il possesso della cittadinanza, (insegnanti, medici, giudici, avvocati…) fa sì che i giovani non abbiano modelli di riferimento provenienti dalla loro stessa comunità a cui ispirarsi. I role model hanno la capacità di ispirare le azioni e le ambizioni dei giovani e possono avere un enorme impatto nel sostenere i giovani nelle scelte per il futuro, ma, al contrario di quanto si possa pensare le persone più influenti nella formazione dei giovani.

Precludere l’accesso ad alcune professioni ai non cittadini alimenta la tendenza già rilevata tra i cittadini stranieri, di cercare un lavoro attraverso contatti all’interno della propria comunità, andando così ad accrescere le fila di lavoratori nei settori in cui gli stranieri sono già più presenti, contribuendo a un’ulteriore disparità di trattamento tra alcune professioni sulla base della cittadinanza e/o appartenenza etnica.

Quando invece gli stranieri – specie se giovani – si trovano a ricoprire professioni dirigenziali, spesso, a dispetto delle dimostrazioni esteriori delle proprie competenze rimangono convinti di non meritare il successo ottenuto e faticano ad interiorizzare i propri successi30.

Il mancato riconoscimento sociale del contributo delle diverse comunità influisce negativamente sul senso di appartenenza e trasformarsi in terreno agevole i contrasti sociali.

 

6. Conclusioni

Dal primo decennio degli anni ‘2000 è stato recepito nell’ordinamento giuridico italiano la Direttiva Europea sui permessi di lunga durata n.2003/109/CE, poco conosciuta e poco applicata in Italia. Questa Direttiva consente o l’accesso anche degli immigrati non comunitari anche ai posti pubblici, esclusi quelli che comportano l’esercizio dell’autorità dello Stato o abbiano attinenza con la sicurezza pubblica.

Queste norme incidono direttamente e sostanzialmente sull’acceso alla cittadinanza “sociale” (e cioè all’inserimento nella società) dei cittadini stranieri, anche se non nella forma più completa rappresentata dalla titolarità della cittadinanza italiana tout court.

Degli strumenti giuridici prima menzionati il discorso del superamento delle discriminazioni, della pratica dell’uguaglianza di trattamento, dell’offerta delle pari opportunità, delle sanzioni in caso di comportamenti difformi non può essere trascurato. A questo riguardo in Italia si è molto carenti, anche se non manca una normativa che consentirebbe di superare una molteplicità di inconvenienti che favoriscono l’emarginazione31.

L’integrazione è una materia che rientra nelle competenze delle Regioni, mentre il bilancio si stabilisce a livello statale e, a questo livello, non si parla più di uno specifico fondo immigrazione a complemento delle risorse per le politiche sociali in generale. A ciò si aggiunge che non sono state effettuate ricerche sull’applicazione della Direttiva UE che ha dischiuso l’accesso ai posti pubblici (da presupporre quasi inesistente, anche perché nei bandi di concorso è richiesto per la partecipazione il ossesso della cittadinanza italiana o comunitaria). La progettazione sociale, sia a livello europeo che nazionale e regionale, sempre più burocratizzata è incapace di capire queste esigenze di base e sbilanciata a favore delle strutture operanti da tempo e, tra di esse, a favore di quelle finanziariamente più solide32.

L’Italia è un paese che già offre poche opportunità alle proprie giovani generazioni, in termini occupazionali, meritocratici e di mobilità sociale, ma sembra essere ancora più parsimonioso con chi ha ascendenze da altri paesi. I giovani stranieri sono potenzialmente molto competitivi sul mercato del lavoro attraverso le elevate competenze multiculturali e linguistiche; il percorso scolastico dei giovani stranieri resta tuttavia fondamentale per rafforzarne le conoscenze e competenze specifiche. Una maggiore diversità nei ruoli chiave dello Stato contribuisce a contrastare le tensioni sociali e le ideologie estremiste e favorire così l’integrazione e la coesistenza pacifica tra comunità e individui.

 

Paolo Iafrate, Avvocato e Professore a contratto “Regolamentazione nazionale ed europea in materia di immigrazione”, Componente Comitato Strategico CREG (Centro di Ricerche Economiche e Giuridiche) – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” e Componente Commissione Diritti Umani, dei cittadini comunitari e degli stranieri – Ordine degli Avvocati di Roma. paolo.iafrate@uniroma2.it

 

1 S. D’Antonio, L’accesso degli stranieri al lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Diritto, immigrazione e cittadinanza. Fascicolo N° 1/2020

2 M. Gnes, Oltre la cittadinanza nazionale? L’accesso alla funzione pubblica dei cittadini stranieri. (2012).

5 http://www.europeanrights.eu/public/commenti/commento_tria.pdf

6https://images.irpa.eu/wp-content/uploads/2011/10/107_Gnes_gda2014_01_CittPaesiTerziLeggeEur1.pdf, http://www.sidiblog.org/2017/07/27/7872/,https://www.ildirittoamministrativo.it/la-partecipazione-ai-concorsi-pubblici-italiani-dei-cittadini-stranieri/gamm384

8 https://www.laleggepetutti.it/163616_gli-stranieri-possono-partecipare-ai-concorsi, https://www.sipotra.it/old/wp-content/uploads/2017/10/I-differenti-orientamenti-giurisprudenziali-in-materia-di-accesso-al-pubblico-impiego-fra-atteggiamenti-di-chiusura-e-approcci-pi%C3%B9-attenti-al-diritto-dell%E2%80%99Unione-euro.pdf

9 Tribunale di Firenze, sez. Lavoro, ord. del 27 maggio 2017 RG n. 1090/2017; http://www.adir.unifi.it/odv/adirmigranti/concorso-assistente-giudiziario/ordinanza-cautelare.pdf

10 Trib. Milano Sez. Lavoro, 11 giugno 2018 n. 15759; https://www.questionegiustizia.it/doc/Tribunale_Milano_RG_3314_2018_11_6_2018.pdf

11Trib. Roma sez. Lavoro, 28 gennaio 2019 n. 798, https://www.asgi.it/notizie/laccesso-degli-stranieri-al-lavoro-nella-pubblica-amministrazione-e-ladeguamento-solo-giurisprudenziale-alla-disciplina-europea/

13 In Foro it. 2007, I, p.61; Dir. imm. citt. 2006, 4, p.56; Riv. crit. lav. 2006, p.1100, con nota di S. RUSSI, Un brusco stop della Cassazione all’accesso dell’extracomunitario al pubblico impiego.

23 A. Guazzarotti, Giurisprudenza CEDU e giurisprudenza costituzionale sui diritti sociali a confronto in www.gruppodipisa.it

24 F. Pastore, “L’Europa di fronte alle migrazioni. Divergenze strutturali, convergenze settoriali”, Quaderni di Sociologia [Online], 40 | 2006, Online since 30 November 2015, connection on 31 July 2021. URL: http://journals.openedition.org/qds/988; DOI: https://doi.org/10.4000/qds.988

25 L. Mengoni, Il diritto costituzionale come diritto per principi in Ars interpretandi 1996, p. 95; Sul punto vedi: G. Vettori, I principi comuni del diritto europeo dalla CEDU al Trattato di Lisbona in www.europeanrights.eu; G. Raimondi,L’esperienza della Corte europea dei diritti dell’uomo, intervento tavola rotonda, Diritti fondamentali e libertà economiche: principi europei e tradizioni giuridiche nazionali, Perugia, 25
e 26 marzo 2011, ove viene posto l’accento sul diverso approccio, rispettivamente della Corte di Strasburgo e di quella
di Lussemburgo, alla tecnica della proporzionalità e del bilanciamento applicate da entrambe.

26 A. Terzi, Cittadini stranieri ed accesso ai pubblici impieghi: una questione ormai risolta? In www.questionegiustizia.it – 10 febbraio 2015.

27 https://www.invalsiopen.it/alunni-stranieri-in-italia-dati-ministero-istruzione/

28 https://www.oecd.org/social/broken-elevator-how-to-promote-social-mobility-9789264301085-en.htm

29 https://www.eticaeconomia.it/quali-politiche-per-la-mobilita-sociale-le-proposte-dellocse/

30 G. Romeo, Civil Rights v. Social Rights nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: c’è un giudice per i diritti sociali a Strasburgo?, in www.europeanrights.eu

31 F. Ingravalle, La Carta Sociale Europea 18 ottobre 1961 – 18 ottobre 2011 in www.coe.int; A. Cassese, I diritti umani oggi, Roma-Bari, 2009.

32 G. Bronzini, Le Corti europee rimettono in gioco i diritti del personale Ata, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2011, 491 e ss.