di Ruggero Tumbiolo. Le recenti disposizioni correttive ed integrative al codice del processo amministrativo emanate con il decreto legislativo 14 settembre 2012 n. 160 e che entreranno in vigore il 3 ottobre 2012 hanno, tra l’altro, modificato l’art. 26, comma 1, c.p.a., che oggi così recita: «Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2».
La novità consiste nel richiamo ai principi di chiarezza e di sinteticità di cui all’art. 3, comma 2, c.p.a., la cui violazione ora potrà essere tenuta in considerazione dal giudice ai fini della liquidazione delle spese di lite.
Va rammentato che il codice del processo amministrativo ha introdotto, all’art. 3, il dovere per il giudice e le parti di redigere gli atti “in maniera chiara e sintetica”.
Il principio viene, poi, ribadito nel comma 10 dell’art. 120 dello stesso codice (che disciplina il rito abbreviato speciale in materia di procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture), anche se in questo caso il legislatore si limita a richiedere curiosamente solo la sinteticità e non più anche la chiarezza degli atti (riprendendo il testo del previgente art. 245, comma 2 undecies, del decreto legislativo n. 163 del 2006, introdotto dall’art. 8 del decreto legislativo n. 53 del 2010).
L’origine della disposizione può farsi risalire all’art. 44 della legge n. 69 del 2009, contenente la delega al Governo per il riassetto della disciplina del processo amministrativo, che inserisce tra i principi ed i criteri direttivi della delega anche quello di assicurare la snellezza, la concentrazione e l’effettività della tutela, anche allo scopo di garantire la ragionevole durata del processo.
Al fine, poi, di dare concreta applicazione alla disposizione contenuta nell’art. 3 c.p.a., è intervenuta la comunicazione del Presidente del Consiglio di Stato del 20 dicembre 2010, che ha fornito alcune indicazioni pratiche rivolte agli avvocati, i quali vengono esortati a contenere i propri scritti difensivi in un numero limitato di pagine, che vengono quantificate approssimativamente in un massimo di 20-25; viene, altresì, segnalata l’opportunità, ove la complessità del gravame porti a superare il suddetto limite, di formulare all’inizio di ogni atto processuale una sintesi del contenuto dell’atto stesso.
La soluzione pragmatica individuata dal Presidente del Consiglio di Stato si allinea a quella adottata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea: nelle istruzioni pratiche relative ai ricorsi e alle impugnazioni, adottate il 15 ottobre 2004 (GU L 361 dell’8 dicembre 2004) e modificate il 27 gennaio 2009 (GU L 29 del 31 gennaio 2009), si dà atto che, secondo l’esperienza della Corte, una memoria può limitarsi, salvo particolari circostanze, a 10 o 15 pagine, mentre la replica, la controreplica e la comparsa di risposta possono limitarsi a 5 o 10 pagine; sempre in dette istruzioni si raccomanda di accludere all’atto introduttivo del giudizio un sunto dei motivi e dei principali argomenti dedotti di non oltre 2 pagine.
Per rispettare la regola enunciata dall’art. 3 c.p.a. non sarà, tuttavia, sufficiente contenersi nel numero delle pagine, posto che un atto sintetico non necessariamente è un atto chiaro.
Sul piano delle conseguenze derivanti dal mancato rispetto del dovere di sinteticità e chiarezza interviene ora la novella al codice del processo amministrativo, che attribuisce espressamente al giudice il potere di valutare la violazione di siffatto obbligo nell’ambito della liquidazione delle spese di giudizio.

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