CORTE COSTITUZIONALE 28 aprile – 14 maggio 2021 SENTENZA N. 98
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Processo penale - Dibattimento - Riqualificazione giuridica del fatto - Facolta' dell'imputato, allorquando sia invitato dal giudice a instaurare il contraddittorio sulla riqualificazione, di richiedere il giudizio abbreviato relativamente al fatto diversamente qualificato - Omessa previsione - Denunciata disparita' di trattamento e violazione del diritto di difesa - Inammissibilita' delle questioni. - Codice di procedura penale, art. 521. - Costituzione, artt. 3, 24 e 111.
(GU n.20 del 19-5-2021 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giancarlo CORAGGIO;
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo'
ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Stefano PETITTI, Angelo
BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 521 del
codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Torre
Annunziata, in composizione monocratica, nel procedimento penale a
carico di E. L., con ordinanza del 9 giugno 2020, iscritta al n. 168
del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 2020.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 14 aprile 2021 il Giudice
relatore Francesco Vigano';
deliberato nella camera di consiglio del 28 aprile 2021.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 9 giugno 2020, il Tribunale ordinario di
Torre Annunziata, in composizione monocratica, ha sollevato questioni
di legittimita' costituzionale dell'art. 521 del codice di procedura
penale, «nella parte in cui non prevede la facolta' dell'imputato,
allorquando sia invitato dal giudice del dibattimento ad instaurare
il contraddittorio sulla riqualificazione giuridica del fatto, di
richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato
relativamente al fatto diversamente qualificato dal giudice in esito
al giudizio», in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della
Costituzione.
1.1.- Il rimettente sta procedendo con rito immediato nei
confronti di un imputato rinviato a giudizio per il delitto di atti
persecutori di cui all'art. 612-bis del codice penale, aggravato ai
sensi del secondo comma. All'imputato e' contestato di avere, con
reiterate condotte di minacce e molestie, cagionato «alla compagna
[...] un perdurante e grave stato di ansia e paura», «ingenerandole
un fondato motivo [recte: timore] per la propria incolumita' al punto
di costringerla, altresi', ad alterare le abitudini di vita», e in
particolare a non uscire piu' di casa per timore di incontrarlo e a
cambiare il proprio numero di telefono. Nel capo di imputazione
vengono quindi piu' analiticamente descritti i contestati episodi di
minacce e molestie, queste ultime concretatesi anche in insulti e in
atti di aggressione fisica, taluni dei quali produttivi di lesioni
personali integranti altresi', nell'ipotesi accusatoria, il delitto
di lesioni personali di cui all'art. 582 cod. pen., aggravato ai
sensi dell'art. 585 in relazione agli artt. 576, numero 5.1), e 577,
numero 1), cod. pen.
Chiusa l'istruttoria dibattimentale, e prima di ritirarsi in
camera di consiglio, il rimettente - sulla base di
«un'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata
dell'art. 521 comma 1 c.p.p.» - aveva invitato le parti «a instaurare
il contraddittorio in ordine ad un'eventuale riqualificazione
giuridica del fatto contestato al capo 1) nell'ipotesi incriminatrice
di cui all'art. 572 c.p., reato, tra l'altro, piu' grave di quello di
cui all'art. 612-bis c.p., contestato nel decreto di giudizio
immediato».
L'imputato aveva chiesto, a questo punto, la restituzione degli
atti al pubblico ministero ai sensi dell'art. 521, comma 2, cod.
proc. pen., in modo da essere rimesso in termini per formulare
richiesta di rito abbreviato; in subordine, ove il fatto fosse
ritenuto il medesimo gia' oggetto di contestazione, aveva chiesto di
essere comunque giudicato nelle forme del rito abbreviato.
Ritiene il rimettente che il fatto provato in dibattimento sia
effettivamente il medesimo contestato dalla pubblica accusa, ma che
esso debba ricondursi all'alveo «della diversa e ben piu' grave
ipotesi incriminatrice» dei maltrattamenti in famiglia ai sensi
dell'art. 572 cod. pen., anziche' a quello degli atti persecutori
aggravati ex art. 612-bis, secondo comma, cod. pen.
Osserva in proposito il giudice che, secondo quanto emerso
nell'istruttoria, l'imputato avrebbe commesso i fatti contestatigli
in costanza della relazione sentimentale intercorsa con la persona
offesa tra l'agosto e il novembre 2019, e che - pur non essendovi
stata convivenza tra i due - la loro reciproca relazione sarebbe
stata «seria, consolidata e fondata sulla condivisione dei rispettivi
affetti»; circostanza questa attestata, tra l'altro, dal fatto che la
persona offesa avrebbe «stretto un intenso rapporto affettivo con la
madre e la sorella dell'imputato», che con lui convivevano,
preparando spesso la cena per tutti i familiari del compagno e
fermandosi a dormire a casa loro durante il fine settimana.
La circostanza che i fatti contestati si inserissero nel quadro
di una stabile relazione affettiva in corso evocherebbe, allora, «un
fatto ascrivibile a pieno titolo alla ratio applicativa del reato di
cui all'art. 572 c.p., molto piu' che nel terreno dello stalking che
lascia ipotizzare la presenza di una vittima che fugge e di un
carnefice che insegue».
A tale conclusione non osterebbe, secondo il rimettente, la
previsione da parte del legislatore di una specifica aggravante per
il delitto di atti persecutori, consistente nell'essere stato il
fatto commesso, tra l'altro, da persona che e' o e' stata legata da
relazione affettiva alla persona offesa. In effetti, l'art. 572 cod.
pen. si presterebbe ad una «interpretazione estensiva» in grado di
attrarre nel suo ambito applicativo le condotte maltrattanti compiute
in un «contesto affettivo protetto», caratterizzato come tale da
«legami affettivi forti e stabili, tali da rendere particolarmente
difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi
e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire». «Dal
punto di vista della vittima» - osserva il rimettente - «la reazione
e' inibita perche' profondo e' il sentimento di dipendenza
psicologica, irrinunciabile il progetto di vita intrapreso, pesante
il senso di subordinazione o insuperabile il condizionamento
materiale ed economico: la vittima ritiene comunque di dover
accettare o di non poter o saper rompere il rapporto. Dal punto di
vista dell'autore, il legame affettivo - sebbene sfibrato dalle
mortificazioni -, in uno con la soggezione psicologica della vittima,
la sua dipendenza morale, il suo affetto, il suo condizionamento
materiale ed economico, il suo rispetto del valore stesso del
rapporto, sono gli elementi che consentono la reiterazione,
l'abitualita' dei suoi comportamenti di negazione e mortificazione
dell'impegno di stabilita', assistenza reciproca e fedelta'».
In presenza di una relazione siffatta, dovrebbe dunque essere
ravvisata l'ipotesi della "convivenza" che caratterizza il delitto di
maltrattamenti in famiglia. Conseguentemente, le condotte
maltrattanti compiute in tale contesto - che cagionino in concreto
«uno svilimento della sfera morale ed emotiva della vittima», idoneo
a paralizzarne le reazioni - verrebbero sottratte all'ambito
applicativo del meno grave delitto di cui all'art. 612-bis, secondo
comma, cod. pen. Cio' in conformita' all'insegnamento di numerose
pronunce della Corte di cassazione, puntualmente citate
nell'ordinanza di rimessione, che valorizzano «ben piu' del dato
formale della condivisione continuativa di spazi fisici, il dato
sostanziale della condivisione di progetti di vita» (sono citate
Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 7 febbraio-9
maggio 2019, n. 19922; sezione seconda penale, sentenza 23 gennaio-8
marzo 2019, n. 10222; sezione sesta penale, sentenza 18 marzo-15
luglio 2014, n. 31121; sezione quinta penale, sentenza 17 marzo-30
giugno 2010, n. 24688; sezione terza penale, sentenza 3 luglio-3
ottobre 1997, n. 8953; sezione sesta penale, sentenza 18 dicembre
1970-20 febbraio 1971, n. 1587).
Una tale interpretazione sarebbe, anzi, l'unica compatibile con
l'art. 3 Cost., dal momento che sarebbe «irragionevole tutelare la
vittima di mortificazioni abituali allorquando sia legata da vincoli
fondati sul matrimonio, anche in quei casi in cui il rapporto sia
ormai sgretolato e indebolito nella sua capacita' di condizionare la
vittima», e «non tutelare, invece, la vittima di mortificazioni
abituali che avvengono in contesti affettivi non suggellati da scelte
formali, ma caratterizzati comunque dalla attuale condivisione di
spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacita' di
reagire della vittima». Del resto, le altre ipotesi previste
dall'art. 572 cod. pen. (sottoposizione ad autorita' o affidamento
per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia,
ovvero esercizio di una professione o di un'arte) prescinderebbero
tutte dall'elemento della convivenza.
Dal momento che, dunque, nel caso di specie i fatti descritti nel
capo di imputazione - produttivi di gravi sofferenze e umiliazione in
capo alla persona offesa - sarebbero stati commessi nel quadro di una
relazione affettiva stabile, riconducibile al paradigma della
"convivenza", essi dovrebbero essere riqualificati, ai sensi
dell'art. 521, primo comma, cod. proc. pen., come integranti
l'ipotesi delittuosa di maltrattamenti in famiglia; e,
correlativamente, la richiesta dell'imputato di essere giudicato con
rito abbreviato dovrebbe essere rigettata, in quanto tardiva.
Tuttavia, il giudice dubita della compatibilita' dello stesso
art. 521, primo comma, cod. proc. pen. con i parametri costituzionali
sopra indicati, giusta l'assenza di una disposizione di legge che
attribuisca all'imputato - allorche' sia invitato ad instaurare un
contraddittorio sulla possibile riqualificazione giuridica del fatto
- il diritto di richiedere al giudice del dibattimento di essere
giudicato con rito abbreviato, a fronte di tale nuova situazione.
1.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni
prospettate, il rimettente osserva anzitutto che e' gia' oggi
possibile una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente
orientata dell'art. 521, primo comma, cod. proc. pen., nel senso
cioe' che tale disposizione «imponga al giudice, prima della
deliberazione della sentenza, di instaurare il contraddittorio
argomentativo e probatorio della difesa in ordine alla
riqualificazione giuridica del fatto». Tuttavia, un simile
adempimento non varrebbe a evitare il sacrificio del «diritto di
difesa nella declinazione di diritto alla scelta del rito»,
nonostante esso costituisca una modalita', tra le piu' qualificanti,
del diritto di difesa (sono citate, ex aliis, le sentenze n. 131 del
2019, n. 219 del 2004 e n. 70 del 1996), quest'ultimo «da intendersi
sia come diritto al riassestamento della strategia difensiva nel
dibattimento, sia come diritto alla rivisitazione della scelta del
dibattimento».
I dubbi di illegittimita' costituzionale sollevati, precisa il
rimettente, non concernerebbero tanto l'irragionevolezza ex se della
distinzione tra quaestio facti e quaestio iuris, che avrebbe anzi
«una ratio costituzionale ben precisa, poiche' racconta la fisionomia
dei rapporti tra giudice terzo e accusatore: padrone del fatto e'
solo l'accusa [...], padrone del diritto e' solo il giudice».
Cionondimeno, l'attuale assetto normativo non si porrebbe in linea
ne' con gli artt. 24 e 111 Cost., ne' con l'art. 3 Cost., per le
ragioni seguenti.
1.2.1.- Quanto agli artt. 24 e 111 Cost., il rimettente osserva
che la modifica in iure dell'imputazione dovrebbe restituire alla
difesa la possibilita' di rivisitare la propria strategia anche nella
scelta del rito, ben potendo la stessa concludere che sui fatti
contestati - alla luce del nuovo nomen proposto dal giudice - «non vi
siano i medesimi spazi per contraddire nel dibattimento che aveva
inizialmente valutato, allorquando aveva, sulla scorta
dell'imputazione, operato la scelta del rito».
Di cio' il caso concreto all'esame fornirebbe dimostrazione
evidente: la difesa dell'imputato avrebbe, in effetti, mirato a
provare in dibattimento l'esistenza di una relazione intensa e solida
tra imputato e persona offesa, al fine di dimostrare
l'incompatibilita' di un tale legame con lo schema tipico del delitto
di atti persecutori; e si sarebbe poi trovata sorpresa dalla
prospettazione di una qualificazione alternativa - quella di
maltrattamenti in famiglia - che proprio nell'intensita' e solidita'
del rapporto troverebbe decisivo fondamento.
Inoltre, la diversa qualificazione prospettata dal giudice
potrebbe in concreto determinare «anche e soprattutto uno
stravolgimento nella risposta sanzionatoria»: fattore, quest'ultimo,
che condizionerebbe in maniera determinante la scelta del rito. Anche
sotto questo profilo il caso di specie risulterebbe emblematico, dal
momento che la nuova qualificazione prospettata comporta una pena
assai piu' gravosa di quella prevista per il delitto originariamente
contestato.
Contro la possibilita' di una restituzione dell'imputato nel
termine per la scelta del rito in seguito alla prospettazione della
possibile riqualificazione dell'imputazione da parte del giudice non
potrebbe opporsi che essa frustrerebbe le esigenze deflattive sottese
ai riti alternativi. Una simile effetto si produrrebbe, infatti,
anche nelle ipotesi in cui la restituzione del termine consegue, per
effetto di numerose pronunce di questa Corte, a mutamenti fattuali
dell'imputazione. La logica deflattiva propria del rito abbreviato
dovrebbe cosi' essere ritenuta subvalente rispetto alla tutela della
pienezza del diritto di difesa e del rispetto del principio di
eguaglianza, che quelle pronunce hanno mirato ad assicurare.
Ne', ancora, alla restituzione nel termine auspicata dal
rimettente potrebbe obiettarsi che la modifica della veste giuridica
dell'imputazione costituirebbe un rischio del dibattimento, che
l'imputato si addossa allorche' opti per il rito ordinario. Tale
argomento, osserva il rimettente, e' stato spesso invocato anche
contro l'ammissione tardiva della difesa alla scelta del rito
alternativo in conseguenza di mutamenti fattuali dell'imputazione; ma
sarebbe stato gradualmente superato dalla giurisprudenza di questa
Corte, dapprima con riferimento alle contestazioni cosiddette
"patologiche", riconducibili a un errore del pubblico ministero, e
poi anche nelle ipotesi di contestazioni "fisiologiche", derivanti da
emergenze probatorie imprevedibili ex ante per il pubblico ministero.
Non vi sarebbe, d'altra parte, alcuna ragione cogente per
ritenere che il mutamento in iure dell'imputazione sia sempre
prevedibile per l'imputato; ne' si comprenderebbe «perche' la
riqualificazione dovrebbe essere prevedibile nei risultati per
l'imputato, e non per il pubblico ministero - che infatti, proprio
non prevedendola, ha commesso un errore a monte - e ricadere quindi a
carico del primo». Ritenere prevedibile il mutamento di nomen nella
direzione ipotizzata dal giudice - e in tutte le altre possibili -
porrebbe anzi la difesa «in una sorta di paradosso: il difensore,
infatti, se argomentasse molto, prevedendo diligentemente tutti i
possibili esiti riqualificatori, rischierebbe di suggerire egli
stesso una via alla quale il giudice non aveva neppure pensato [...];
se mantenesse invece un profilo basso, argomentando nei limiti della
fattispecie contestata [...], lascerebbe delle zone inesplorate che,
se pur lo conducessero al risultato rispetto alla fattispecie
originaria, lo inchioderebbero su una delle altre possibili, tra
l'altro con un'anomala inversione dell'onere della prova, perche'
finirebbe per essere condannato per non essersi difeso su un'ipotesi
non argomentata dall'accusa».
La mutatio in iure dovrebbe dunque considerarsi come una
correzione, operata dal giudice, di un errore originario del pubblico
ministero: e dunque parteciperebbe della stessa natura della
contestazione "patologica", trattandosi di un «errore di selezione
della veste giuridica addebitabile all'accusa», che non potrebbe come
tale «risolversi in un nocumento delle prerogative proprie del
diritto di difesa».
1.2.2.- Per cio' che concerne poi la censura riferita all'art. 3
Cost., il rimettente lamenta anzitutto l'ingiustificata disparita' di
trattamento esistente tra l'imputato destinatario sin dal principio
dell'imputazione corretta - il quale ha accesso al rito abbreviato -
e l'imputato nei cui confronti invece il pubblico ministero abbia
compiuto un errore nella qualificazione giuridica del fatto.
Quest'ultimo infatti, in seguito alla riqualificazione operata dal
giudice, perderebbe la possibilita' di accedere al rito premiale
rispetto al medesimo titolo di reato.
In secondo luogo, anche nell'ipotesi di riqualificazione del
fatto da parte del giudice l'imputato potrebbe recuperare la facolta'
di accesso ai riti alternativi, per effetto di circostanze del tutto
casuali e non prevedibili ex ante, in particolare allorche' il reato
cosi' come riqualificato appartenga alla competenza di un giudice
superiore o al tribunale in composizione collegiale. In tal caso,
infatti, il giudice dovrebbe restituire gli atti all'organo
dell'accusa, a norma dell'art. 521, comma 1, cod. proc. pen., per un
nuovo esercizio dell'azione penale; cio' che consentirebbe
all'imputato di optare, a questo punto, per un rito alternativo, con
conseguente irragionevole disparita' di trattamento rispetto a tutte
le altre ipotesi.
In terzo luogo, la pur innegabile differenza tra quaestio facti e
quaestio iuris non potrebbe giustificare la difformita' di
trattamento, quanto alla pena, tra imputati che subiscano, nel corso
del procedimento, modifiche in fatto della contestazione e modifiche
in diritto. In particolare, non sarebbe chiara la ragione che
consente di trattare diversamente l'imputato che, «a fattispecie
incriminatrice ferma», si veda contestata una circostanza aggravante
quale la recidiva - e che pertanto potra' accedere al rito abbreviato
in virtu' di tale modifica fattuale -, e l'imputato nei cui confronti
muti la sola qualificazione giuridica del fatto contestato - il quale
vedra' stravolta la propria prospettiva sanzionatoria, senza poter
rivedere le proprie scelte in tema di rito.
Infine, occorrerebbe considerare che il mutamento del nomen iuris
del fatto contestato potrebbe essere dovuto a una iniziativa, assunta
durante il dibattimento, dallo stesso pubblico ministero, il quale a
tal fine avrebbe a propria disposizione lo strumento della modifica
della imputazione ai sensi dell'art. 516 cod. proc. pen. In tal caso,
tuttavia, l'imputato verrebbe rimesso in termini per la scelta del
rito alternativo, mentre laddove fosse il giudice ad operare tale
mutamento, la scelta in parola sarebbe ormai preclusa. Con
conseguente ulteriore profilo di irragionevole disparita' di
trattamento tra situazioni omogenee.
2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile ed
infondata.
L'Avvocatura generale dello Stato riconosce, anzitutto, che
l'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata
dell'art. 521, comma 1, cod. proc. pen. imporrebbe al giudice, prima
della deliberazione della sentenza, di instaurare il contraddittorio
con le parti, in primis con l'imputato, in ordine alla
riqualificazione giuridica del fatto. Tale interlocuzione sarebbe
peraltro tesa unicamente a consentire lo svolgimento di ulteriori
argomenti difensivi, non gia' a permettere alla difesa una
rivalutazione delle scelte relative al rito ormai gia' compiute,
secondo quanto gia' ritenuto da questa Corte con la sentenza n. 103
del 2010, che aveva ritenuto non sindacabile la scelta discrezionale
compiuta dal legislatore in ordine alla diversita' di disciplina tra
immutatio iuris e facti, contenuta nel primo e nel secondo comma
dell'art. 521 cod. proc. pen.
La soluzione auspicata dal rimettente, d'altra parte, svilirebbe
la natura stessa del rito abbreviato, consentendo all'imputato di
accedere ai benefici da esso derivanti (e segnatamente alla riduzione
di un terzo della pena) anche all'esito di un lungo e articolato
dibattimento, con conseguente frustrazione della funzione premiale e
deflattiva del rito in parola.
Ne' coglierebbero nel segno i parallelismi invocati dal
rimettente tra le ipotesi di nuove contestazioni del pubblico
ministero e la riqualificazione in iure dell'imputazione operata dal
giudice, rispetto alla quale «l'imputato ha avuto la possibilita' di
esperire in dibattimento ogni mezzo di difesa in relazione ad un
fatto contestato che e' rimasto immutato nei suoi elementi
costitutivi».
Infine, la diversa qualificazione giuridica adottata dal giudice
di primo grado potrebbe comunque essere oggetto di gravame da parte
dell'imputato.
Nessuna violazione del diritto di difesa potrebbe dunque
profilarsi in riferimento alla norma censurata, anche in ragione
della prevedibile diversa qualificazione giuridica di fatti tra loro
affini, come - nel caso di specie - gli atti persecutori e i
maltrattamenti in famiglia.
3.- L'imputato nel giudizio a quo non si e' costituito avanti a
questa Corte.
Considerato in diritto
1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario
di Torre Annunziata, in composizione monocratica, ha sollevato
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 521 del codice di
procedura penale, «nella parte in cui non prevede la facolta'
dell'imputato, allorquando sia invitato dal giudice del dibattimento
ad instaurare il contraddittorio sulla riqualificazione giuridica del
fatto, di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio
abbreviato relativamente al fatto diversamente qualificato dal
giudice in esito al giudizio», in riferimento agli artt. 3, 24 e 111
della Costituzione.
2.- Le questioni sono inammissibili, per non essersi l'ordinanza
di rimessione adeguatamente confrontata con gli argomenti contrari
alla riqualificazione giuridica del fatto contestato nel giudizio a
quo, riqualificazione dalla quale dipende la rilevanza delle
questioni prospettate.
2.1.- L'imputato e' chiamato a rispondere del delitto di atti
persecutori di cui all'art. 612-bis, primo e secondo comma, del
codice penale. In esito al dibattimento, il rimettente ritiene di
dover riqualificare i fatti contestati - immutati nella loro
materialita' - nella diversa e piu' grave fattispecie di
maltrattamenti in famiglia, di cui all'art. 572 cod. pen. Avendo
prospettato alla difesa dell'imputato tale possibile
riqualificazione, e avendo il difensore chiesto - a fronte di tale
modifica in iure - di essere ammesso al rito abbreviato, il
rimettente solleva le questioni di legittimita' costituzionale sopra
indicate, aventi ad oggetto la disposizione del codice di procedura
penale - l'art. 521, comma 1 - che consente al giudice di dare al
fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata
nell'imputazione, nella parte in cui non prevede la possibilita' per
l'imputato di richiedere il giudizio abbreviato relativamente al
fatto cosi' come diversamente qualificato.
La riqualificazione - da atti persecutori aggravati a
maltrattamenti in famiglia - dei fatti contestati all'imputato
costituisce dunque il presupposto logico che condiziona
l'applicazione nel giudizio a quo della disposizione, della cui
legittimita' costituzionale il giudice dubita.
2.2.- Tale riqualificazione riposa sul rilievo, svolto con
ricchezza di argomenti dall'ordinanza di rimessione, che le condotte
- moleste, minacciose, ingiuriose e violente - contestate
all'imputato siano state commesse nel quadro di una relazione
affettiva stabile tra l'imputato e la persona offesa, pur nella
riconosciuta assenza di convivenza.
Secondo quanto riferisce il rimettente, dall'istruttoria
dibattimentale e' emersa l'esistenza di un rapporto affettivo tra i
due, dipanatosi in un arco temporale di circa quattro mesi, nel corso
del quale - in particolare - la donna era solita frequentare la casa
ove l'uomo viveva con la madre e la sorella, e nella quale lei stessa
talvolta si tratteneva.
Il pubblico ministero aveva qualificato le condotte contestate
all'imputato come atti persecutori ai sensi dell'art. 612-bis cod.
pen., con l'aggravante prevista dal secondo comma di tale
disposizione, che prevede l'aumento della pena quando il fatto sia
commesso, tra l'altro, «da persona che e' o e' stata legata da
relazione affettiva alla persona offesa».
Ritiene invece il rimettente che la stabilita' della relazione
affettiva, desunta in particolare dall'assidua frequentazione da
parte della persona offesa della famiglia dell'imputato, imponga di
riqualificare le condotte come maltrattamenti in famiglia ai sensi
dell'art. 572, primo comma, cod. pen.: disposizione, quest'ultima,
applicabile a chiunque «maltratta», per la parte che qui rileva, «una
persona della famiglia o comunque convivente». Cio' in quanto il
sintagma «una persona [...] comunque convivente» andrebbe letto come
riferito a un «contesto affettivo protetto», caratterizzato da
«legami affettivi forti e stabili, tali da rendere particolarmente
difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi
e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire». In
tale ipotesi, dunque, il piu' grave delitto di maltrattamenti in
famiglia assorbirebbe l'ipotesi aggravata di atti persecutori di cui
all'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che verrebbe dunque ad
abbracciare le sole ipotesi di relazioni affettive non caratterizzate
(o non piu' caratterizzate) da una «attuale condivisione di spazi e
progetti di vita che condizionano fortemente la capacita' di reagire
della vittima».
Questa lettura troverebbe conforto, osserva il rimettente, in
varie pronunce della Corte di cassazione, che hanno ricondotto allo
spettro applicativo dell'art. 572 cod. pen. fatti commessi
nell'ambito di relazioni caratterizzate dalla «condivisione di
progetti di vita», e hanno affermato il principio secondo cui l'art.
572 cod. pen. «e' applicabile non solo ai nuclei familiari fondati
sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la
consuetudine dei rapporti creati, implichi l'insorgenza di vincoli
affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici
della famiglia o della convivenza abituale». Pertanto, il delitto
sarebbe configurabile «anche quando manchi una stabile convivenza e
sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero
fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita
basato sulla reciproca solidarieta' ed assistenza» (Corte di
cassazione, sezione sesta penale, sentenza 7 febbraio-9 maggio 2019,
n. 19922, nonche' - nello stesso senso - sezione sesta penale,
sentenza 18 marzo-15 luglio 2014, n. 31121 e, pur escludendo nel caso
di specie il reato de quo, sezione sesta penale, sentenza 7 maggio-27
maggio 2013, n. 22915. Si vedano altresi', in epoca successiva
all'ordinanza di rimessione, sezione sesta penale, sentenza 21
ottobre-1° dicembre 2020, n. 34086, concernente una coppia che, pur
non convivendo, pagava congiuntamente un appartamento utilizzato come
base per incontri clandestini; sezione sesta penale, sentenza 6
novembre 2019-11 febbraio 2020, n. 5457, relativa a una coppia non
convivente, la cui relazione durava da appena due mesi).
2.3.- Tuttavia, tale orientamento risale, come correttamente
osserva il rimettente, ad epoca antecedente alla introduzione
dell'art. 612-bis cod. pen., e si e' formato in larga misura con
riferimento a ipotesi concrete caratterizzate dal venir meno di una
preesistente convivenza (la sentenza n. 19922 del 2019 sopra citata
concerneva, ad esempio, una coppia che aveva convissuto per circa
dieci anni; e parimenti concernono ex conviventi Corte di cassazione,
sezione sesta penale, sentenza 3 novembre-22 dicembre 2020, n. 37077;
sezione terza penale, sentenza 12 giugno-28 ottobre 2019, n. 43701;
sezione sesta penale, sentenza 13 dicembre 2017-24 gennaio 2018, n.
3356), specie quando dalla convivenza siano nati anche dei figli (ex
aliis Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 6 ottobre
2020-4 febbraio 2021, n. 4424; sezione sesta penale, sentenza 28
settembre-20 novembre 2017, n. 52723; sezione sesta penale, sentenza
20 aprile-22 maggio 2017, n. 25498).
Non a caso, una recente sentenza della Corte di cassazione -
invero successiva all'ordinanza di rimessione - ha escluso il delitto
di maltrattamenti in famiglia in un'ipotesi assai simile a quella
oggetto del processo a quo, caratterizzata da una relazione
«instaurata da non molto tempo» e da una "coabitazione" consistita
soltanto «nella permanenza anche per due o tre giorni consecutivi
nella casa dell'uomo, ove la donna si recava, talvolta anche con la
propria figlia» (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza
23 novembre 2020-25 gennaio 2021, n. 2911).
2.4.- La giurisprudenza di legittimita', considerata alla luce
dei casi di volta di volta esaminati, fornisce dunque indicazioni
assai meno univoche di quanto appaia dall'ordinanza di rimessione
circa la possibilita' di sussumere entro la figura legale descritta
dall'art. 572 cod. pen., e non in quella di cui all'art. 612-bis,
secondo comma, cod. pen., condotte abusive poste in essere nel
contesto di una relazione affettiva con le caratteristiche illustrate
nell'ordinanza di rimessione, ove si da' atto in particolare
dell'assenza di convivenza (presente o passata) tra i due
protagonisti della vicenda.
Ma, soprattutto, nel procedere alla qualificazione giuridica dei
fatti accertati in giudizio il rimettente omette di confrontarsi con
il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale,
dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello
di fonti primarie dall'art. 14 delle Preleggi nonche' -
implicitamente - dall'art. 1 cod. pen., e fondato a livello
costituzionale sul principio di legalita' di cui all'art. 25, secondo
comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza
n. 447 del 1998).
Il divieto di analogia non consente di riferire la norma
incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi
possibili significati letterali, e costituisce cosi' un limite
insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del
giudice di fronte al testo legislativo. E cio' in quanto, nella
prospettiva culturale nel cui seno e' germogliato lo stesso principio
di legalita' in materia penale, e' il testo della legge - non gia' la
sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza - che
deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le
conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicche' non e'
tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il
linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale
delle espressioni utilizzate dal legislatore. Cio' vale non solo per
il nostro, ma anche per altri ordinamenti ispirati alla medesima
prospettiva, come dimostra la giurisprudenza del Tribunale
costituzionale federale tedesco, secondo cui in materia penale «il
possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo
della sua legittima interpretazione da parte del giudice» (BVerfGE
73, 206, (235); in senso conforme, piu' recentemente, BVerfGE 130, 1
(43); 126, 170 (197); 105, 135 (157); 92, 1 (12)).
Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici
da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri
corollari del principio di legalita' in materia penale sancito
dall'art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di
legge e del principio di determinatezza della legge penale (su
quest'ultimo profilo, si vedano in particolare le sentenze n. 96 del
1981 e n. 34 del 1995, nonche', con riferimento alle sanzioni
amministrative di carattere punitivo, n. 121 del 2018): corollari
posti a tutela sia del principio "ordinamentale" della separazione
dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del
compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e
irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonche' - evidentemente - tra
le diverse figure di reato; sia della garanzia "soggettiva",
riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilita' delle
conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue
libere scelte d'azione (sentenza n. 364 del 1988).
E' evidente infatti che la ratio della riserva assoluta di legge
in materia penale, che assegna alla sola legge e agli atti aventi
forza di legge il compito di stabilire quali siano le condotte
costituenti reato, sul presupposto che una simile decisione -
destinata potenzialmente a ripercuotersi in maniera drammatica sul
diritto «inviolabile» (art. 13 Cost.) alla liberta' personale dei
destinatari della norma penale - spetti soltanto ai rappresentanti
eletti a suffragio universale dall'intera collettivita' nazionale
(sentenze n. 230 del 2012, n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989),
verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di
applicare pene al di la' dei casi espressamente previsti dalla legge.
Per altro verso, il divieto di applicazione analogica delle norme
incriminatrici da parte del giudice costituisce l'ovvio pendant
dell'imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare
norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della
chiarezza e dell'intellegibilita' dei termini impiegati» (sentenza n.
96 del 1981). Tale imperativo mira anch'esso a «evitare che, in
contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la
riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un
ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra
il lecito e l'illecito» (sentenza n. 327 del 2008), nonche' quelli
tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira
altresi' ad assicurare al destinatario della norma «una percezione
sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di
illiceita' penale della propria condotta (cosi', ancora, la sentenza
n. 327 del 2008, nonche' la sentenza n. 5 del 2004). Tanto che
proprio rispetto al mandato costituzionale di determinatezza della
norma incriminatrice questa Corte ha recentemente rammentato che
«l'ausilio interpretativo del giudice penale non e' che un posterius
incaricato di scrutare nelle eventuali zone d'ombra, individuando il
significato corretto della disposizione nell'arco delle sole opzioni
che il testo autorizza e che la persona puo' raffigurarsi leggendolo»
(sentenza n. 115 del 2018). La garanzia soggettiva che la
determinatezza della legge penale mira ad assicurare sarebbe, in
effetti, anch'essa svuotata, laddove al giudice penale fosse
consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da
quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura.
E dunque, il pur comprensibile intento, sotteso all'indirizzo
giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una piu'
intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime
di condotte abusive nell'ambito di rapporti affettivi dai quali esse
hanno difficolta' a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con
l'interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione
teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti
alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque [...]
convivente» con l'autore del reato; requisiti che circoscrivono - per
quanto qui rileva - l'ambito delle relazioni nelle quali le condotte
debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente
rilevanti ai sensi dell'art. 572 cod. pen.
Il divieto di analogia in malam partem impone, piu' in
particolare, di chiarire se davvero possa sostenersi che la
sussistenza di una relazione, come quella che risulta intercorsa tra
imputato e persona offesa nel processo a quo, consenta di qualificare
quest'ultima come persona (gia') appartenente alla medesima
"famiglia" dell'imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo
dipanatosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze
non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro possa gia'
considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di questa
espressione, come una ipotesi di "convivenza".
In difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art.
572 cod. pen. in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis, secondo
comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di
condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva»
all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione
analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una
interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e
sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal
rimettente, ma comunque preclusa dall'art. 25, secondo comma, Cost.
2.5.- Il mancato confronto con le implicazioni del divieto
costituzionale di applicazione analogica della legge penale in malam
partem in relazione al caso di specie comporta dunque una lacuna
motivazionale sulla rilevanza delle questioni prospettate, che ne
determina l'inammissibilita' (da ultimo, sentenza n. 57 del 2021).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 521 del codice di procedura penale,
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione,
dal Tribunale ordinario di Torre Annunziata, in composizione
monocratica, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Francesco VIGANO', Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2021.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
