REATO DI ABUSO D’UFFICIO: modifiche della disciplina mediante decretazione d’urgenza.
CORTE COSTITUZIONALE 25 novembre 2021 – 18 gennaio 2022 N. 8 SENTENZA
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Reati e pene - Modifiche, mediante decreto-legge, alla disciplina del
reato di abuso d'ufficio - Sostituzione delle parole "di norme di
legge o di regolamento," con quelle "di specifiche regole di
condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza
di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'" -
Denunciata violazione dei principi in tema di decretazione
d'urgenza - Non fondatezza della questione.
- Decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni,
nella legge 11 settembre 2020, n. 120, art. 23, comma 1,
modificativo dell'art. 323 del codice penale.
- Costituzione, artt. 3, 77 e 97.
(GU n.3 del 19-1-2022 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giancarlo CORAGGIO;
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo'
ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA,
Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 23, comma
1, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la
semplificazione e l'innovazione digitale), convertito, con
modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, promosso dal
Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catanzaro
nel procedimento penale a carico di M. V. e altri, con ordinanza del
6 novembre 2020, iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2021 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima
serie speciale, dell'anno 2021.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 novembre 2021 il Giudice
relatore Franco Modugno;
deliberato nella camera di consiglio del 25 novembre 2021.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 6 novembre 2020, il Giudice dell'udienza
preliminare del Tribunale ordinario di Catanzaro ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 77 e 97 della Costituzione, questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 1, del decreto-legge
16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e
l'innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge
11 settembre 2020, n. 120, recante modifiche all'art. 323 del codice
penale, in tema di abuso d'ufficio.
1.1.- Il giudice a quo riferisce di essere investito della
richiesta di rinvio a giudizio di cinque persone, ritenute
responsabili di plurime condotte di abuso d'ufficio.
Secondo la prospettazione accusatoria, tre degli imputati - in
qualita' di membri della commissione esaminatrice nominata
nell'ambito della procedura concorsuale indetta da un'azienda
ospedaliera, per il conferimento di incarichi di dirigente medico -
avrebbero indebitamente favorito gli altri due coimputati, garantendo
loro dapprima l'ammissione alla procedura, sebbene privi del
richiesto titolo di specializzazione, e successivamente la
collocazione in posizione utile nella graduatoria finale, approvata
il 9 gennaio 2017, tramite l'attribuzione di un punteggio maggiore
rispetto a quello riconosciuto ad altri candidati in possesso di
titoli equipollenti o addirittura superiori.
Dalle indagini espletate sarebbe emerso che le indicate
irregolarita' erano state poste in essere al dichiarato fine di
assicurare l'assunzione dei due candidati, perche' gia' conosciuti
dalla dirigenza. Vario personale medico aveva riferito, in
particolare, degli ottimi rapporti intercorrenti tra i candidati
favoriti e uno dei membri della commissione esaminatrice, il quale,
in piu' occasioni, aveva manifestato la sua intenzione «di
stabilizzare ed internalizzare» i candidati stessi, i quali gia'
prestavano servizio con la struttura ospedaliera in regime di
convenzione.
Sulla base di tali elementi, il pubblico ministero aveva
contestato agli imputati plurime condotte di abuso d'ufficio,
addebitando loro l'intenzionale violazione del dovere di
imparzialita' e buon andamento della pubblica amministrazione (art.
97 Cost.), anche in tema di procedure ad evidenza pubblica (art. 35,
comma 3, lettera a, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165,
recante «Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche»), nonche' di specifiche norme di
rango regolamentare in materia di requisiti per la partecipazione
alle pubbliche selezioni e di attribuzione dei punteggi (l'art. 8 del
d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, «Regolamento recante norme sull'accesso
agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalita' di
svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di
assunzione nei pubblici impieghi», e l'art. 11 del d.P.R. 10 dicembre
1997, n. 483, «Regolamento recante la disciplina concorsuale per il
personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale»).
1.2.- Fissata l'udienza preliminare, era intervenuto, nelle more,
l'art. 23, comma 1, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, che ha
riscritto in senso limitativo la fattispecie incriminatrice.
La citata disposizione ha, infatti, modificato la previgente
formulazione dell'art. 323 cod. pen. (a tenore della quale «[s]alvo
che il fatto non costituisca un piu' grave reato, il pubblico
ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento
delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di
regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un
interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi
prescritti, intenzionalmente procura a se' o ad altri un ingiusto
vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto e'
punito con la reclusione da uno a quattro anni»), sostituendo la
locuzione «di norme di legge o di regolamento» con l'altra «di
specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da
atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di
discrezionalita'».
In questo modo - osserva il rimettente - la novella legislativa
ha ristretto la fattispecie, operando un'abolitio criminis parziale
su tre distinti fronti: rispetto all'oggetto, la violazione commessa
dal soggetto pubblico deve riguardare un regola di condotta (e non,
ad esempio, una regola organizzativa); rispetto alla fonte, la regola
violata deve essere specifica ed espressamente prevista da una legge
o da un atto avente forza di legge, con esclusione delle norme
regolamentari; rispetto al contenuto, la regola violata non deve
lasciare spazi di discrezionalita'.
1.3.- Il giudice a quo dubita, peraltro, della legittimita'
costituzionale dell'intervento, sia sotto l'aspetto procedurale, con
riguardo alla sua attuazione mediante decreto-legge, sia per il suo
contenuto sostanziale.
Le questioni sarebbero rilevanti nel giudizio principale.
Alla luce della previgente formulazione dell'art. 323 cod. pen. e
degli elementi raccolti, gli imputati avrebbero dovuto essere
rinviati a giudizio, in quanto le violazioni di norme legislative e
regolamentari loro ascritte risultavano senz'altro idonee a integrare
il delitto di abuso d'ufficio: e cio' - in base a costante
giurisprudenza - anche per quel che attiene alla contestata
inosservanza dei principi di imparzialita' e buon andamento della
pubblica amministrazione, sanciti dall'art. 97 Cost., il quale, nella
sua componente immediatamente precettiva, impone a ogni pubblico
ufficiale di non usare il potere che la legge gli conferisce per
compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi, ovvero
per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare
ingiusti danni.
La norma censurata avrebbe, per converso, operato una sostanziale
depenalizzazione delle condotte in esame. Venuta meno la possibilita'
di ritenere integrato l'abuso d'ufficio dalla violazione di norme
regolamentari, neppure la violazione delle residue norme di rango
legislativo e costituzionale potrebbe ritenersi idonea a realizzare
il delitto, trattandosi di disposizioni recanti principi ai quali
deve uniformarsi l'azione amministrativa, e non gia' di regole di
condotta dalle quali non residuino margini di discrezionalita'. A
seguito della novella, pertanto, il giudizio dovrebbe essere definito
nell'udienza preliminare con sentenza di non luogo a procedere
perche' il fatto non e' piu' previsto come reato.
1.4.- Riguardo alla non manifesta infondatezza delle questioni,
la norma denunciata violerebbe anzitutto - secondo il rimettente -
l'art. 77 Cost., in quanto completamente estranea alla materia
disciplinata dalle altre disposizioni del d.l. n. 76 del 2020 e
«assolutamente avulsa dalle ragioni giustificatrici della normativa
adottata in via d'urgenza dal Governo».
Il citato decreto-legge, adottato a seguito dell'emergenza
epidemiologica da COVID-19 che ha coinvolto il Paese, e' stato,
infatti, motivato - per quanto si legge nel preambolo - con la
ritenuta «straordinaria necessita' e urgenza di realizzare
un'accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso
la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e
di edilizia, operando senza pregiudizio per i presidi di legalita'»,
nonche' con l'esigenza, ritenuta anch'essa indifferibile, «di
introdurre misure di semplificazione procedimentale e di sostegno e
diffusione dell'amministrazione digitale, nonche' interventi di
semplificazione in materia di responsabilita' del personale delle
amministrazioni, nonche' di adottare misure di semplificazione in
materia di attivita' imprenditoriale, di ambiente e di green economy,
al fine di fronteggiare le ricadute economiche conseguenti
all'emergenza epidemiologica da Covid-19».
In questa prospettiva, il decreto contiene, da un lato,
molteplici disposizioni volte a semplificare le procedure
amministrative in materia di contratti pubblici, edilizia,
organizzazione del sistema universitario e del Corpo nazionale dei
Vigili del fuoco, nonche' le procedure in materia di attivita' di
impresa, ambiente e green economy; dall'altro, misure volte al
sostegno e alla diffusione dell'amministrazione digitale.
Sarebbe quindi evidente la completa disomogeneita' della norma
denunciata, per contenuto e finalita', rispetto al resto del corpo
normativo in cui e' inserita, non potendo ravvisarsi alcun nesso di
strumentalita' tra la modifica, in senso fortemente restrittivo, del
delitto di abuso d'ufficio e l'esigenza di semplificare le procedure
amministrative in vista del rilancio economico del Paese.
Una tale incisiva riforma della figura criminosa, implicante
delicate scelte di natura politico-criminale, avrebbe richiesto un
adeguato dibattito parlamentare, possibile ove si fossero seguite le
ordinarie procedure di formazione della legge. La riforma non
apparirebbe diretta a fronteggiare specifici eventi eccezionali, ma a
delimitare "a regime" la responsabilita' penale dei funzionari
pubblici in relazione all'attivita' svolta, sicche' avrebbe potuto
formare oggetto del normale esercizio del potere di iniziativa
legislativa.
Al riguardo, il rimettente ricorda come la giurisprudenza di
questa Corte abbia individuato, tra gli indici alla stregua dei quali
verificare la carenza del requisito della straordinarieta' del caso
di necessita' e urgenza, proprio la «evidente estraneita'» della
norma censurata rispetto alla materia disciplinata da altre
disposizioni del decreto-legge che la contiene (sono citate le
sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007). L'inserimento di norme
eterogenee rispetto all'oggetto e alla finalita' del decreto spezza,
infatti, il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal
Governo dell'urgenza di provvedere e i provvedimenti provvisori con
forza di legge adottati.
1.5.- Ove pure, peraltro, si ritenesse la disposizione censurata
omogenea rispetto al contenuto e alla ratio del decreto-legge, essa
si porrebbe egualmente in contrasto con l'art. 77 Cost. per difetto
del presupposto della straordinaria necessita' ed urgenza.
Rispetto a una depenalizzazione, infatti, l'eccezionale urgenza
di provvedere, atta a legittimare la procedura per decreto, «non
[potrebbe] essere realisticamente postulata se non in ipotesi
residuali», nella specie palesemente insussistenti, «tenuto conto dei
fisiologici tempi di svolgimento di qualsivoglia procedimento penale
e della totale assenza di incidenza di singole vicende penali sul
piano della semplificazione amministrativa».
Risulterebbe emblematica, in tal senso, l'assoluta assenza, nel
preambolo del decreto-legge, di una motivazione riguardo alla
straordinaria necessita' che rendeva urgente, in quel momento, la
riscrittura del delitto di abuso d'ufficio.
1.6.- Sul piano dei contenuti, poi, la disposizione censurata si
porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost.
Il reato di abuso d'ufficio e' volto, infatti, a tutela
dell'interesse, costituzionalmente garantito, al buon andamento,
all'imparzialita' e alla trasparenza della pubblica amministrazione:
il che renderebbe palese la contraddizione tra la finalita' che ha
ispirato il decreto-legge - semplificare l'azione amministrativa
«operando senza pregiudizio per i presidi di legalita'», come
indicato nel preambolo - e la norma denunciata.
L'aver ancorato il fatto tipico alla violazione «di specifiche
regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti
aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di
discrezionalita'» farebbe si' che l'abuso, per assumere rilievo
penale, debba risolversi nell'inosservanza di una norma legislativa
che prefiguri un'attivita' amministrativa vincolata «nell'an, nel
quid e nel quomodo». Una simile indicazione, solo all'apparenza
diretta a specificare in modo piu' tassativo la condotta punita,
snaturerebbe, in realta', la fattispecie incriminatrice,
trasformandola «in un reato legislativamente "impossibile"».
Per un verso, infatti, l'inosservanza di un vincolo di condotta
integrerebbe, gia' di per se', un diverso reato (omissione di atti
d'ufficio in caso di condotta omissiva, falso conseguente al
compimento di un atto in difetto dei presupposti, ovvero un diverso
abuso d'autorita' specificamente previsto): il che renderebbe
inoperante il delitto in esame, stante la clausola di sussidiarieta'
con cui l'art. 323 cod. pen. esordisce («salvo che il fatto non
costituisca un piu' grave reato»).
Per altro verso, poi, i casi nei quali la legge determina «il se,
il cosa e il come» di una condotta imposta a un agente pubblico
sarebbero non solo estremamente rari, ma atterrebbero, altresi', «ad
una sfera minuta dell'attivita' amministrativa». In pratica, dunque,
il legislatore avrebbe riservato la rilevanza penale ad una casistica
«improbabile e del tutto marginale», lasciando prive di risposta
punitiva le condotte, ben piu' gravi, di coloro che, detenendo il
potere di decidere discrezionalmente, si trovano in una condizione
privilegiata per abusarne.
La scelta di privare di rilevanza penale ogni forma di esercizio
della discrezionalita' amministrativa comporterebbe la violazione del
principio di eguaglianza, risolvendosi nell'attribuzione all'agente
pubblico di un potere dispositivo assoluto e sottratto al vaglio
giudiziale. In questo modo, la disposizione censurata avrebbe,
equiparando il pubblico funzionario a un privato, posto sullo stesso
piano situazioni affatto diverse: il potere discrezionale attribuito
al primo e la facolta' di disposizione riconosciuta al secondo
rispetto alla cosa di cui sia proprietario, con ulteriore vulnus al
principio di legalita' dell'azione amministrativa.
1.7.- Il rimettente rileva, da ultimo, come le questioni debbano
ritenersi ammissibili, ancorche' il loro accoglimento determini la
caducazione della norma abrogatrice e, di conseguenza, la
reviviscenza della precedente disciplina, con effetti in malam
partem.
Ad avviso del giudice a quo, la giurisprudenza di questa Corte,
sin dalla sentenza n. 148 del 1983, avrebbe chiarito che gli effetti
in malam partem di una pronuncia di illegittimita' costituzionale non
precludono l'esame nel merito della normativa censurata, fermo
restando il divieto per la Corte stessa, in virtu' della riserva di
legge prevista dall'art. 25, secondo comma, Cost., di «configurare
nuove norme penali» (e' citata la sentenza n. 394 del 2006): ipotesi
che non verrebbe in rilievo nella specie, in quanto l'eventuale
decisione di accoglimento si limiterebbe a rimuovere gli ostacoli
all'applicazione di una disciplina stabilita dal legislatore. Il
controllo di legittimita' costituzionale non potrebbe, infatti,
soffrire limitazioni, e gli effetti delle sentenze di accoglimento
nel processo principale dovrebbero essere valutati dal giudice
secondo i principi generali sulla successione nel tempo delle leggi
penali.
2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o
non fondate.
2.1.- L'Avvocatura dello Stato osserva che la norma censurata ha
certamente circoscritto la sfera di operativita' della norma
incriminatrice dell'abuso d'ufficio, stabilendo che l'abuso possa
essere integrato solo dalla violazione di regole di condotta poste da
fonti primarie in modo specifico ed espresso, nonche', soprattutto,
escludendo che possa venire in rilievo l'attivita' amministrativa
anche solo in minima parte discrezionale; mentre e' rimasta
inalterata la condotta alternativa concernente l'inosservanza
dell'obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di
un prossimo congiunto, o negli altri casi prescritti.
L'obiettivo perseguito e' il medesimo che il legislatore si era
proposto di raggiungere in precedenza attraverso la modifica
dell'art. 323 cod. pen. operata dalla legge 16 luglio 1997, n. 234
(Modifica dell'art. 323 del codice penale, in materia di abuso
d'ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura
penale), che aveva introdotto nella formula descrittiva dell'illecito
la locuzione «in violazione di norme di legge o di regolamento», con
l'intento di rendere piu' selettiva la fattispecie incriminatrice.
Nell'interpretare il novellato art. 323 cod. pen., tuttavia, un
consolidato orientamento giurisprudenziale ha ritenuto che il
requisito della violazione di legge potesse essere integrato anche
dall'inosservanza dei principi costituzionali di imparzialita' e buon
andamento della pubblica amministrazione, di cui all'art. 97 Cost.,
finendo cosi' per dare rilievo anche alla violazione di principi
generali, per loro natura indeterminati, e quindi per vanificare
l'intento del legislatore dell'epoca.
La ratio del d.l. n. 76 del 2020, nella parte relativa alla
modifica del delitto di abuso d'ufficio, sarebbe dunque quella di
sottrarre definitivamente al sindacato penale le condotte dei
soggetti pubblici che non implichino la violazione di leggi
specifiche e ben determinate.
2.2.- Cio' premesso, l'Avvocatura generale dello Stato eccepisce
l'inammissibilita' delle questioni per inadeguatezza della
motivazione sulla rilevanza.
Il giudice a quo si sarebbe limitato ad affermare che, per i
fatti oggetto del giudizio principale, rispetto ai quali gli esiti
investigativi avrebbero imposto il rinvio a giudizio, la modifica
normativa censurata imporrebbe invece il proscioglimento degli
imputati perche' il fatto non costituisce piu' reato, essendo stata
contestata la violazione di norme di principio e regolamentari, e non
di regole di condotte poste da fonti primarie da cui non residuino
margini di discrezionalita'.
Il rimettente avrebbe omesso pero' di verificare l'eventuale
perdurante riconducibilita' dei fatti in contestazione al paradigma
punitivo dell'abuso d'ufficio, sotto il profilo dell'inosservanza, da
parte degli imputati, di un obbligo di astensione in presenza di un
conflitto di interessi. Dall'ordinanza di rimessione traspaiono,
infatti, gli ottimi rapporti intercorrenti tra i due candidati e uno
dei membri della commissione esaminatrice, il quale avrebbe
manifestato senza remore e in piu' occasioni il proprio intento «di
stabilizzare ed internalizzare» i candidati stessi.
Una simile verifica avrebbe consentito, considerata la fase in
cui versa il procedimento - destinata, tra l'altro, proprio alla
precisazione e all'integrazione della contestazione -, una eventuale
modifica dell'imputazione e l'emissione del decreto che dispone il
giudizio, con conseguente irrilevanza delle questioni.
2.3.- Anche a ritenere integrato il requisito della rilevanza, le
questioni risulterebbero, comunque sia, inammissibili, quanto a
quelle sollevate in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., e non
fondata, quanto a quella sollevata in riferimento all'art. 77 Cost.
Riguardo ai primi due parametri, il giudice a quo invoca,
infatti, una pronuncia ablativa della modifica normativa, che avrebbe
come effetto la reviviscenza della precedente norma incriminatrice
dell'abuso d'ufficio, che assegna rilevanza penale a un maggior
numero di condotte. Una simile pronuncia risulterebbe, tuttavia,
preclusa alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte,
secondo cui l'adozione di pronunce con effetti in malam partem in
materia penale trova ostacolo nel principio della riserva di legge
sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., il quale, rimettendo al
legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni
loro applicabili, impedisce alla Corte, sia di creare nuove
fattispecie o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia
di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti,
comunque sia, alla punibilita'.
Ne' varrebbero in senso contrario le sentenze n. 394 del 2006 e
n. 148 del 1983, citate dal rimettente, trattandosi di pronunce
concernenti il distinto tema dell'ammissibilita' del sindacato di
legittimita' costituzionale sulle cosiddette norme penali di favore:
qualifica che non spetterebbe alla norma censurata.
Rileva, altresi', l'Avvocatura dello Stato che, con la sentenza
n. 447 del 1998, questa Corte si e' gia' specificamente espressa nel
senso dell'inammissibilita' di analoghe questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 323 cod. pen., come sostituito dall'art. 1
della legge n. 234 del 1997, sollevate in riferimento ai medesimi
parametri.
2.4.- Non fondata risulterebbe, infine, la questione sollevata in
riferimento all'art. 77 Cost., non potendosi ritenere carenti ne' il
requisito dell'omogeneita' della norma censurata rispetto alle altre
disposizioni del d.l. n. 76 del 2020, ne' quello della straordinaria
necessita' e urgenza di provvedere alla modifica normativa in esame.
Il nesso tra la modifica della disciplina dell'abuso d'ufficio e
l'emergenza epidemiologica da COVID-19 sarebbe costituito, infatti,
dall'idea che la ripresa del Paese possa essere agevolata da una piu'
chiara delimitazione delle responsabilita', sia sul fronte contabile,
sia su quello penale. Con particolare riguardo a quest'ultimo,
l'obiettivo e' stato, in specie, quello di circoscrivere l'area
dell'abuso d'ufficio penalmente rilevante, in modo da rasserenare gli
amministratori pubblici, chiamati a lavorare per facilitare la
ripresa del Paese.
In tale ottica, l'intervento realizzato, diretto ad elidere la
"paura della firma", risulterebbe non solo connesso alle altre
materie disciplinate dall'indicato decreto-legge e volte piu'
propriamente alla semplificazione delle procedure, ma anche connotato
dalla straordinaria necessita' e urgenza, proprio per consentire agli
amministratori pubblici di agire subito, senza il timore di incorrere
in denunce per abuso d'ufficio, specie in un periodo caratterizzato
dal susseguirsi di normative non sempre di agevole e immediata
comprensione.
Considerato in diritto
1.- Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario
di Catanzaro dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 23,
comma 1, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per
la semplificazione e l'innovazione digitale), convertito, con
modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, che ha
modificato la disciplina del reato di abuso d'ufficio, sostituendo,
nell'art. 323 del codice penale, la locuzione - riferita alla
violazione integrativa del reato - «di norme di legge o di
regolamento» con l'altra, piu' restrittiva, «di specifiche regole di
condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di
legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'».
I dubbi del rimettente attengono, sia al procedimento di
produzione della norma, e segnatamente alla scelta di introdurla
mediante decretazione d'urgenza, sia ai suoi contenuti.
Sotto il primo profilo, la norma censurata violerebbe l'art. 77
della Costituzione, perche' del tutto estranea, in assunto, alla
materia disciplinata dalle altre disposizioni del d.l. n. 76 del 2020
e avulsa dalle ragioni giustificatrici della normativa adottata in
via d'urgenza dal Governo, legate alla ritenuta necessita' di
introdurre misure di semplificazione amministrativa e di rilancio
economico del Paese, per far fronte alle ricadute economiche
conseguenti all'emergenza epidemiologica da COVID-19.
Anche a voler diversamente opinare sul punto, peraltro,
difetterebbe, comunque sia, il presupposto della straordinaria
necessita' ed urgenza: presupposto che, rispetto a interventi di
(parziale) depenalizzazione - quale quello realizzato dalla norma
censurata -, sarebbe ravvisabile solo in casi residuali, nella specie
insussistenti, tenuto conto dei tempi di svolgimento dei processi
penali e dell'assenza di ricadute delle singole vicende penali sul
piano della semplificazione amministrativa.
Quanto, poi, ai contenuti, la norma denunciata si porrebbe in
contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., giacche', alla luce della
modifica da essa operata, l'abuso, per assumere rilievo penale,
dovrebbe risolversi nell'inosservanza di una norma legislativa che
preveda una attivita' amministrativa vincolata «nell'an, nel quid e
nel quomodo»: il che renderebbe pressoche' impossibile la
configurabilita' del reato, posto a presidio del buon andamento,
dell'imparzialita' e della trasparenza della pubblica
amministrazione. I casi di attivita' amministrativa integralmente
vincolata sarebbero, infatti, estremamente rari e atterrebbero,
comunque sia, a una sfera minuta dell'agere della pubblica
amministrazione. Il legislatore avrebbe, dunque, circoscritto la
rilevanza penale a una casistica del tutto marginale,
quantitativamente e qualitativamente, lasciando prive di risposta
punitiva le condotte, ben piu' gravi, di coloro che, detenendo il
potere di decidere discrezionalmente, si trovano in una condizione
privilegiata per abusarne.
Ne risulterebbe violato il principio di eguaglianza, giacche',
privando di rilievo penale ogni forma di esercizio di
discrezionalita' amministrativa, la norma denunciata attribuirebbe
all'agente pubblico un potere dispositivo assoluto e sottratto al
vaglio giudiziale, con il risultato di equiparare situazioni affatto
diverse: il potere discrezionale attribuito al pubblico
amministratore e la facolta' di disposizione della propria cosa
riconosciuta al proprietario privato.
2.- Per meglio affrontare le questioni, e' necessario ricostruire
preliminarmente la genesi della disposizione sottoposta a scrutinio,
ripercorrendo, in sintesi, la travagliata vicenda normativa e
giurisprudenziale che si colloca alle sue spalle.
La figura criminosa dell'abuso d'ufficio, assolvendo una funzione
"di chiusura" del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro
la pubblica amministrazione, rappresenta, infatti, il punto saliente
di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice
penale sull'attivita' amministrativa: tematica percorsa da una
perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un
controllo a tutto tondo, atto a fungere da freno alla mala gestio
della cosa pubblica, e l'esigenza di evitare un'ingerenza pervasiva
del giudice penale sull'operato dei pubblici amministratori, lesiva
della sfera di autonomia ad essi spettante.
Al tempo stesso, si tratta di fattispecie caratterizzata da
congeniti margini di elasticita', generatori di persistenti problemi
di compatibilita' con il principio di determinatezza.
Di tutto cio' e' testimonianza la tormentata parabola storica
della figura.
2.1.- Nel disegno originario del codice penale del 1930, l'abuso
d'ufficio era descritto all'art. 323 con formula semplice, ma, in
pari tempo, estremamente comprensiva: veniva, infatti, punito il
pubblico ufficiale che, «abusando dei poteri inerenti alle sue
funzioni, commette[sse], per recare ad altri un danno o per
procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da
una particolare disposizione di legge».
Le criticita' di una ipotesi criminosa cosi' congegnata
rimanevano, peraltro, attutite dal fatto che essa era chiamata a
recitare un ruolo marginale nel sistema. Si trattava, infatti, di una
figura sussidiaria e blandamente punita, stretta, com'era, tra le due
fattispecie delittuose cui risultava allora precipuamente affidato il
controllo di legalita' sull'attivita' amministrativa: il peculato per
distrazione e l'interesse privato in atti d'ufficio (artt. 314 e 324
cod. pen.). Figure anch'esse, peraltro, dai contorni assai labili,
che permettevano alla magistratura penale penetranti incursioni sulle
scelte della pubblica amministrazione.
2.2.- Lo scenario mutava con la riforma operata dalla legge 26
aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici
ufficiali contro la pubblica amministrazione), la quale, onde
arginare tale temperie, estromise dalla fattispecie del peculato la
forma per distrazione e abrogo' il reato di interesse privato in atti
d'ufficio.
Di riflesso, pero', la riforma riscrisse l'art. 323 cod. pen.,
nella prospettiva di far refluire nell'abuso d'ufficio una parte
delle condotte gia' colpite dalle fattispecie abrogate, con un filtro
- almeno negli intenti - di maggiore selettivita'. A questo fine, si
prevedeva che l'abuso d'ufficio - esteso anche agli incaricati di
pubblico servizio - dovesse essere finalizzato ad un vantaggio,
proprio od altrui, «ingiusto», o a un danno altrui del pari
«ingiusto», con la previsione di un sensibile aumento della pena,
qualora il vantaggio fosse di natura patrimoniale.
I risultati non furono, tuttavia, quelli sperati. L'abuso
d'ufficio acquistava di colpo una centralita' applicativa in
precedenza ignota, non accompagnata, pero', da un reale incremento di
determinatezza della fattispecie tipica, la quale restava incentrata
su una condotta in se' vaga - quale quella di «abusa[re]
del[l]'ufficio» - senza che il requisito dell'ingiustizia del
vantaggio o del danno, oggetto del dolo specifico, si rivelasse
capace di delimitare adeguatamente i confini del tipo.
Il rivisitato art. 323 cod. pen. divenne, cosi', il nuovo
strumento per un penetrante sindacato della magistratura penale
sull'operato dei pubblici funzionari, adombrando il costante spettro
dell'avvio di indagini in loro danno.
2.3.- A distanza di pochi anni, il legislatore corse quindi ai
ripari, riscrivendo una seconda volta la norma incriminatrice con
l'art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell'art. 323
del codice penale, in materia di abuso d'ufficio, e degli articoli
289, 416 e 555 del codice di procedura penale).
Dismesso il generico riferimento all'abuso dell'ufficio (che
resta solo nella rubrica dell'art. 323 cod. pen.), la condotta tipica
viene individuata nella «violazione di norme di legge o di
regolamento», ovvero, in alternativa, nella omessa astensione «in
presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli
altri casi prescritti». La fattispecie si trasforma, altresi', in
reato di evento, essendo richiesta, ai fini del suo perfezionamento,
l'effettiva verificazione dell'ingiusto danno o dell'ingiusto
vantaggio patrimoniale (il vantaggio non patrimoniale perde
rilevanza); evento che deve essere oggetto di dolo intenzionale.
Nel risagomare la figura, il legislatore del 1997 aveva agito con
il trasparente intento di renderne piu' nitidi i confini, impedendo,
in specie, un sindacato del giudice penale sull'esercizio della
discrezionalita' amministrativa. Il riferimento alla «violazione di
norme di legge o di regolamento», evocando uno dei vizi tipici
dell'atto amministrativo, doveva servire infatti a metter fuori, a
contrario, l'eccesso di potere, non menzionato.
Le intenzioni del legislatore hanno dovuto, pero', fare i conti
con le soluzioni della giurisprudenza, la quale, dopo una fase
iniziale di ossequio allo spirito della novella, e' virata verso
interpretazioni estensive degli elementi di fattispecie, atte a
travalicare i rigidi paletti che la novella legislativa aveva inteso
fissare e a riaprire ampi scenari di controllo del giudice penale
sull'attivita' amministrativa discrezionale.
Per quanto qui piu' interessa, e' venuto infatti a consolidarsi,
da un lato, nella giurisprudenza di legittimita', l'indirizzo in
forza del quale la «violazione di norme di legge», rilevante come
abuso d'ufficio, puo' essere integrata anche dall'inosservanza del
generalissimo principio di imparzialita' della pubblica
amministrazione, enunciato dall'art. 97 Cost.: principio che -
secondo la Corte di cassazione - nella parte in cui vieta al pubblico
funzionario di operare ingiustificati favoritismi o intenzionali
vessazioni, esprimerebbe una precisa regola di comportamento di
immediata applicazione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione
sesta penale, sentenza 21 febbraio 2019-23 maggio 2019, n. 22871;
Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 12 giugno 2018-29
ottobre 2018, n. 49549; Corte di cassazione, sezione seconda penale,
sentenza 27 ottobre 2015-20 novembre 2015, n. 46096).
Dall'altro lato, poi, si e' assistito al recupero nell'area di
rilevanza penale degli atti viziati da eccesso di potere, nella forma
dello sviamento. Con soluzione ermeneutica avallata dalle sezioni
unite, la Corte di cassazione ha ritenuto, infatti, che la violazione
di legge cui fa riferimento l'art. 323 cod. pen. ricorra non solo
quando la condotta del pubblico funzionario si ponga in contrasto con
le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando sia
volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello
per il quale il potere e' attribuito, dando luogo appunto a un vizio
di sviamento: vizio che integrerebbe la violazione di legge, perche'
sta a significare che la potesta' non e' stata esercitata secondo lo
schema normativo che legittima l'attribuzione (Corte di cassazione,
sezioni unite penali, sentenza 29 settembre 2011-10 gennaio 2012, n.
155).
Si e' venuta a creare, in questo modo, una situazione che
riecheggia, per molti versi, quella registratasi all'indomani della
legge n. 86 del 1990 e alla quale la successiva legge n. 234 del 1997
aveva inteso por rimedio. Cio', peraltro, in presenza di un
inasprimento della pena edittale del reato, che, gia' fissata da tale
ultima legge nella reclusione da sei mesi a tre anni, e' stata
elevata dall'art. 1, comma 75, lettera p), della legge 6 novembre
2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell'illegalita' nella pubblica amministrazione) alla
reclusione da uno a quattro anni.
2.4.- La vicenda ora descritta non e' rimasta, tuttavia, priva di
ricadute.
Per opinione ampiamente diffusa, deve individuarsi, infatti,
proprio in tale stato di cose una delle principali cause della sempre
maggiore diffusione del fenomeno che si e' soliti designare come
"burocrazia difensiva" (o "amministrazione difensiva"). I pubblici
funzionari si astengono, cioe', dall'assumere decisioni che pur
riterrebbero utili per il perseguimento dell'interesse pubblico,
preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su
prassi consolidate e anelastiche), o piu' spesso restare inerti, per
il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta "paura
della firma").
A questi fini, poco conta l'enorme divario, che pure si e'
registrato sul piano statistico, tra la mole dei procedimenti per
abuso d'ufficio promossi e l'esiguo numero delle condanne definitive
pronunciate in esito ad essi. Il solo rischio, ubiquo e indefinito,
del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali,
umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso
comporta, basta a generare un "effetto di raffreddamento", che induce
il funzionario ad imboccare la via per se' piu' rassicurante.
Tutto cio', peraltro, con significativi riflessi negativi in
termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell'azione
amministrativa, specie nei procedimenti piu' delicati.
2.5.- Benche' l'esigenza di contrastare la "burocrazia difensiva"
e suoi guasti, agendo sulle cause del fenomeno, fosse gia' da tempo
avvertita, la scelta di porre mano all'intervento e' maturata solo a
seguito dell'emergenza pandemica da COVID-19, nell'ambito di un
eterogeneo provvedimento d'urgenza volto a dare nuovo slancio
all'economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata chiusura
delle attivita' produttive disposta nella prima fase acuta
dell'emergenza. Si allude al d.l. n. 76 del 2020, correntemente noto
come "decreto semplificazioni".
Il provvedimento si occupa, in un apposito capo (il Capo IV del
Titolo II), intitolato «[r]esponsabilita'», delle due principali
fonti di "timore" per il pubblico amministratore (e, dunque, dei suoi
"atteggiamenti difensivistici"): la responsabilita' erariale e la
responsabilita' penale. Entrambe vengono fatte oggetto di modifiche
limitative e all'insegna della maggiore tipizzazione.
Quanto alla responsabilita' penale, l'art. 23 del decreto-legge
in esame - norma oggi censurata, rimasta invariata all'esito della
conversione operata dalla legge n. 120 del 2020 - ridefinisce per la
terza volta, nel suo unico comma, il perimetro applicativo del
delitto di abuso d'ufficio: nell'occasione, pero', senza riscrivere
per intero la disposizione del codice penale, ma incidendo in modo
"mirato" sulla prima delle due condotte tipiche, rappresentata dalla
«violazione di norme di legge o di regolamento» (mentre quella
alternativa dell'inosservanza di un obbligo di astensione resta
invariata). La modifica consiste, in specie, nella sostituzione della
locuzione «di norme di legge o di regolamento» con l'altra «di
specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da
atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di
discrezionalita'».
In negativo, dunque, la recente novella estromette il riferimento
ai regolamenti; in positivo, richiede che la violazione abbia ad
oggetto regole specifiche previste in modo espresso da fonti primarie
e che non lascino al funzionario pubblico spazi di discrezionalita'.
Particolarmente su questo secondo versante, risulta trasparente
l'intento di sbarrare la strada alle interpretazioni
giurisprudenziali che avevano dilatato la sfera di operativita' della
norma introdotta dalla legge n. 234 del 1997: la puntualizzazione che
l'abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche mira ad
impedire che si sussuma nell'ambito della condotta tipica anche
l'inosservanza di norme di principio, quale l'art. 97 Cost.;
richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e
tali da non lasciare «margini di discrezionalita'» si vuol negare
rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere.
Si e', dunque, al cospetto di una modifica di segno restrittivo
dell'area di rilevanza penale - specie nel raffronto con la "norma
vivente" disegnata dalle ricordate interpretazioni giurisprudenziali
- con conseguenti effetti di abolitio criminis parziale, operanti,
come tali, ai sensi dell'art. 2, secondo comma, cod. pen., anche in
rapporto ai fatti anteriormente commessi (quali quelli oggetto del
giudizio a quo).
Della legittimita' costituzionale di un simile intervento dubita,
tuttavia, l'odierno rimettente, ponendo in discussione, sul piano
costituzionale, sia la scelta di attuarlo tramite provvedimento
d'urgenza, sia la correttezza, dal punto di vista sostanziale, delle
soluzioni concretamente adottate.
3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in
giudizio per mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito
l'inammissibilita' delle questioni, innanzitutto per inadeguatezza
della motivazione sulla rilevanza.
Il giudice a quo ha reputato le questioni rilevanti sull'assunto
che le modifiche operate dalla norma censurata - sopravvenuta dopo la
fissazione dell'udienza preliminare - imporrebbero il proscioglimento
degli imputati nel giudizio principale, i quali avrebbero dovuto
essere invece rinviati a giudizio in base al precedente testo
dell'art. 323 cod. pen. Agli imputati e' contestato, infatti, di aver
favorito, quali membri della commissione esaminatrice di un concorso
pubblico, due candidati (imputati anch'essi, si puo' supporre quali
concorrenti extranei), in violazione sia del generale principio di
imparzialita' posto dall'art. 97 Cost., sia di una norma di legge che
ribadisce il principio con riguardo alle procedure di reclutamento
del personale (art. 35, comma 3, lettera a, del decreto legislativo
30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»), sia,
infine, di talune norme regolamentari in tema di attribuzione dei
punteggi e di valutazione dei titoli. Nessuna di tali violazioni
rileverebbe piu' alla luce della nuova configurazione delle
fattispecie: non quella delle norme regolamentari, ormai estromessa
dal campo applicativo dell'incriminazione; ma nemmeno quella delle
residue norme di rango legislativo e costituzionale, trattandosi di
disposizioni recanti principi generali, e non gia' di specifiche
regole di condotta dalle quali non residuino margini di
discrezionalita'.
Tale ragionamento - in se' del tutto plausibile - non sarebbe
pero', secondo l'Avvocatura dello Stato, sufficiente, avendo il
rimettente omesso di verificare se le condotte ascritte agli
imputati, non piu' rilevanti come violazione di legge, restino
tuttavia inquadrabili nell'altra modalita' di realizzazione del reato
- non incisa dalla novella - costituita dalla mancata astensione «in
presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli
altri casi prescritti». Verifica, questa, in assunto tanto piu'
necessaria a fronte del fatto che la stessa ordinanza di rimessione
ha posto in evidenza gli ottimi rapporti intercorrenti tra i
candidati favoriti e uno dei membri della commissione, il quale
avrebbe manifestato ripetutamente il proprio intento di «stabilizzare
ed internalizzare» i candidati stessi: donde un possibile conflitto
d'interessi.
L'eccezione non e' fondata.
A prescindere da ogni possibile dubbio sul fatto che le
esternazioni cui allude l'Avvocatura dello Stato bastino ad integrare
un «caso prescritto» di astensione, vale osservare che si tratta di
esternazioni ascrivibili, secondo l'ordinanza di rimessione, a uno
solo dei membri della commissione esaminatrice, e non agli altri.
A tutto pure concedere, peraltro, il passaggio dall'una all'altra
modalita' di realizzazione del reato richiederebbe - come la stessa
Avvocatura dello Stato riconosce - una modifica dell'imputazione (per
diversita' del fatto): modifica che il pubblico ministero non risulta
aver operato. Il giudice a quo dovrebbe, quindi, eventualmente
sollecitarla, restituendo gli atti al pubblico ministero ove questi
non aderisse al suo invito (cio', in ossequio al meccanismo delineato
dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 20
dicembre 2007-1° febbraio 2008, n. 5307, riguardo al controllo del
giudice sull'imputazione nell'udienza preliminare). Ottica nella
quale le questioni risulterebbero, comunque sia, rilevanti, incidendo
sull'esercizio della funzione giurisdizionale.
4.- Di ben maggiore consistenza e' un altro profilo di
inammissibilita', connesso al petitum, anch'esso oggetto di eccezione
da parte dell'Avvocatura dello Stato.
Il giudice a quo invoca, infatti, una pronuncia ablativa della
modifica operata dalla norma censurata, che avrebbe come effetto la
reviviscenza della precedente norma incriminatrice dell'abuso
d'ufficio, dal perimetro applicativo piu' vasto. Si tratta, dunque,
inequivocabilmente, della richiesta di una sentenza in malam partem
in materia penale.
Viene di conseguenza in rilievo il costante indirizzo di questa
Corte, secondo cui l'adozione di pronunce con effetti in malam partem
in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio
della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., il
quale, rimettendo al «soggetto-Parlamento» (sentenza n. 5 del 2014),
che incarna la rappresentanza politica della Nazione (sentenza n. 394
del 2006), le scelte di politica criminale (con i relativi delicati
bilanciamenti di diritti e interessi contrapposti), impedisce alla
Corte, sia di creare nuove fattispecie o di estendere quelle
esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla
risposta punitiva o su aspetti inerenti, comunque sia, alla
punibilita' (ex plurimis, sentenze n. 17 del 2021, n. 37 del 2019, n.
46 del 2014, n. 324 del 2008, n. 394 del 2006 e n. 161 del 2004;
ordinanze n. 219 del 2020, n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007).
A questo riguardo, e' necessario tuttavia distinguere - come fa,
del resto, la stessa Avvocatura dello Stato - la questione che
investe il procedimento di produzione della norma da quelle intese a
denunciare vizi sostanziali, attinenti, cioe', a quanto la norma
dispone.
5.- Per quel che riguarda la questione sollevata in riferimento
all'art. 77 Cost. - che assume carattere pregiudiziale, proprio
perche' concernente il corretto esercizio della funzione normativa
primaria (ex plurimis, sentenze n. 115 del 2020, n. 288 e n. 247 del
2019) - questa Corte ha avuto modo, in effetti, di chiarire che la
preclusione delle pronunce in malam partem non viene in
considerazione quando si discuta di vizi formali o di incompetenza,
relativi, cioe', al procedimento di formazione dell'atto legislativo
e alla legittimazione dell'organo che lo ha adottato.
Se l'esclusione delle pronunce in malam partem mira a
salvaguardare il monopolio del «soggetto-Parlamento» sulle scelte di
criminalizzazione, sarebbe illogico che detta preclusione possa
scaturire da interventi normativi operati da soggetti non
legittimati, i quali pretendano di "neutralizzare" le scelte
effettuate da chi detiene quel monopolio - quale il Governo, che si
serva dello strumento del decreto legislativo senza il supporto della
legge di delegazione (sentenze n. 189 del 2019 e n. 5 del 2014), o le
Regioni, che legiferino indebitamente in materia penale, loro
preclusa (sentenza n. 46 del 2014) -; ovvero che possa derivare da
interventi normativi operati senza il rispetto del corretto iter
procedurale, che pure assume una specifica valenza garantistica nella
cornice della riserva di legge, connessa al fatto che il procedimento
legislativo «implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le
forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure
indirettamente, con la pubblica opinione» (sentenza n. 230 del 2012),
consentendo, cosi', alle une e all'altra un apporto critico alle
«scelte di criminalizzazione adottate dalla maggioranza» (sentenza n.
487 del 1989).
Cio' vale anche e specificamente per le norme penali introdotte
mediante decreto-legge.
Questa Corte ha, infatti, scrutinato nel merito, malgrado i
possibili effetti in malam partem conseguenti al loro accoglimento,
non solo questioni volte a censurare l'inserimento in sede di
conversione di norme penali "intruse", prive cioe' di ogni
collegamento logico-giuridico con il testo originario del
decreto-legge convertito (sentenza n. 32 del 2014) (operazione che
menoma indebitamente il dibattito parlamentare, comprimendolo
all'interno dei tempi contingentati correlati alla breve "vita
provvisoria" dell'atto normativo del Governo); ma anche, e prima
ancora, questioni intese - come l'odierna - a denunciare la carenza
dei presupposti di straordinaria necessita' ed urgenza, ai quali e'
subordinata l'eccezionale legittimazione del Governo ad adottare atti
con forza di legge in assenza di delegazione parlamentare (sentenza
n. 330 del 1996; ordinanze n. 90 del 1997 e n. 432 del 1996, tutte in
tema di depenalizzazione mediante decreto-legge di reati in materia
di inquinamento delle acque).
6.- Se pure dunque ammissibile, la questione in esame non e',
pero', fondata.
6.1.- Per costante giurisprudenza di questa Corte, la
preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessita' e
l'urgenza di provvedere tramite l'utilizzazione di uno strumento
eccezionale, quale il decreto-legge, costituisce un requisito di
validita' dell'adozione di tale atto, la cui mancanza configura un
vizio di legittimita' costituzionale del medesimo, che non e' sanato
dalla legge di conversione, la quale, ove intervenga, risulta a sua
volta inficiata da un vizio in procedendo (ex plurimis, sentenze n.
149 del 2020, n. 10 del 2015, n. 93 del 2011, n. 128 del 2008, n. 171
del 2007 e n. 29 del 1995).
Il sindacato resta, tuttavia, circoscritto alle ipotesi di
"mancanza evidente" dei presupposti in discorso o di manifesta
irragionevolezza o arbitrarieta' della loro valutazione (ex plurimis,
sentenze n. 186 del 2020, n. 288 e n. 97 del 2019, n. 137, n. 99 e n.
5 del 2018, n. 236 e n. 170 del 2017): cio', al fine di evitare la
sovrapposizione tra la valutazione politica del Governo e delle
Camere (in sede di conversione) e il controllo di legittimita'
costituzionale (sentenze n. 186 del 2020, n. 93 del 2011, n. 83 del
2010 e n. 171 del 2007). L'espressione, usata dall'art. 77 Cost., per
indicare i presupposti della decretazione d'urgenza e' connotata,
infatti, da un «largo margine di elasticita'» (sentenza n. 5 del
2018), onde consentire al Governo di apprezzare la loro esistenza con
riguardo a una pluralita' di situazioni per le quali non sono
configurabili rigidi parametri (sentenze 137 del 2018 e n. 171 del
2007).
Questa Corte ha chiarito, per altro verso, che l'omogeneita'
costituisce un requisito del decreto-legge sin dalla sua origine,
poiche' «l'inserimento di norme eterogenee all'oggetto o alla
finalita' del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la
valutazione fatta dal Governo dell'urgenza del provvedere ed "i
provvedimenti provvisori con forza di legge", di cui alla norma
costituzionale citata» (sentenze n. 149 del 2020 e n. 22 del 2012).
Il riconoscimento dell'esistenza dei presupposti fattuali, di cui
all'art. 77, secondo comma, Cost., resta, dunque, collegato ad una
intrinseca coerenza delle norme contenute nel decreto-legge, o dal
punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale
e finalistico. L'urgente necessita' del provvedere puo' riguardare,
cioe', una pluralita' di norme accomunate o dalla natura unitaria
delle fattispecie disciplinate, ovvero dall'intento di fronteggiare
una situazione straordinaria complessa e variegata, che richiede
interventi oggettivamente eterogenei, in quanto afferenti a materie
diverse, ma indirizzati tutti all'unico scopo di approntare
urgentemente rimedi a tale situazione (tra le altre, sentenza n. 149
del 2020, n. 137 del 2018, n. 170 del 2017, n. 244 del 2016 e n. 22
del 2012).
Per i decreti-legge ab origine a contenuto plurimo, quel che
rileva e' dunque il profilo teleologico, ossia l'osservanza della
ratio dominante l'intervento normativo d'urgenza (sentenze n. 213 del
2021, n. 170 e n. 16 del 2017, e n. 287 del 2016). Anche su tale
fronte, il sindacato di questa Corte resta, peraltro, circoscritto ai
casi in cui la rottura del nesso tra la situazione di necessita' ed
urgenza che il Governo mira a fronteggiare e la singola disposizione
del decreto-legge risulti evidente, cosi' da connotare quest'ultima
come «totalmente "estranea"» o addirittura «intrusa», analogamente a
quanto avviene con riguardo alle norme aggiunte dalla legge di
conversione (sentenza n. 213 del 2021).
6.2.- Alla luce dei principi ora ricordati, le censure del
giudice rimettente non possono essere condivise.
Non si puo' ritenere, anzitutto, come egli opina, che la norma
censurata sia «eccentrica ed assolutamente avulsa», per materia e
finalita', rispetto al decreto-legge in cui e' inserita.
Come emerge dal preambolo, dai lavori preparatori e dalle
dichiarazioni ufficiali che ne hanno accompagnato l'approvazione, il
d.l. n. 76 del 2020 reca un complesso di norme eterogenee accomunate
dall'obiettivo di promuovere la ripresa economica del Paese dopo il
blocco delle attivita' produttive che ha caratterizzato la prima fase
dell'emergenza pandemica. In quest'ottica, il provvedimento
interviene in molteplici ambiti: semplificazioni di vario ordine per
le imprese e per la pubblica amministrazione, diffusione
dell'amministrazione digitale, ma anche responsabilita' degli
amministratori pubblici.
Quanto a quest'ultima, e segnatamente alla responsabilita' penale
per abuso d'ufficio, e' ben vero che di essa non si fa alcuna
menzione nel titolo del provvedimento (che parla esclusivamente di
«[m]isure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitale»),
mentre nel preambolo il tema e' richiamato in modo cursorio ed
ambiguo (con il secco riferimento alla ritenuta «straordinaria
necessita' e urgenza di introdurre», tra gli altri, «interventi di
semplificazione in materia di responsabilita' del personale delle
amministrazioni»). Ne' molto piu' prodiga di indicazioni e' la
relazione al disegno di legge di conversione A.S.1883, laddove la
modifica dell'art. 323 cod. pen. viene giustificata con la mera
esigenza «di definire in maniera piu' compiuta la condotta rilevante
ai fini del reato di abuso di ufficio», senza alcuna precisazione
riguardo al collegamento dell'intervento con gli obiettivi di fondo
del provvedimento d'urgenza.
Tale collegamento e' individuabile - anche alla luce del
convincimento espresso dal Presidente del Consiglio dei ministri nel
presentare il decreto - nell'idea che la ripresa del Paese possa
essere facilitata da una piu' puntuale delimitazione delle
responsabilita'. "Paura della firma" e "burocrazia difensiva",
indotte dal timore di un'imputazione per abuso d'ufficio, si
tradurrebbero, in quanto fonte di inefficienza e immobilismo, in un
ostacolo al rilancio economico, che richiede, al contrario, una
pubblica amministrazione dinamica ed efficiente.
In questa prospettiva, la modifica volta a restringere, meglio
definendola, la sfera applicativa del reato dell'abuso d'ufficio
(specie in rapporto alla precedente "norma vivente" di matrice
giurisprudenziale) non e' neppure una "monade" isolata. Come gia' si
e' accennato, infatti, la norma censurata si abbina, nell'ambito di
dell'apposito capo del "decreto semplificazioni" dedicato alle
«[r]esponsabilita'» (il Capo IV del Titolo II), a disposizioni volte
a "tranquillizzare" i pubblici amministratori rispetto all'altro
rischio che accompagna il loro operato: vale a dire la
responsabilita' erariale.
In conclusione, non puo' dunque sostenersi che la norma censurata
sia palesemente estranea alla traiettoria finalistica portante del
decreto.
6.3.- Neppure, poi, puo' ritenersi, come pure assume il
rimettente, che rispetto alla norma in esame si versi, comunque sia,
in un caso di evidente mancanza del presupposto della straordinaria
necessita' ed urgenza.
Al riguardo, non puo' condividersi, nella sua assolutezza,
l'affermazione del giudice a quo, stando alla quale sarebbe, in linea
generale, «opinabile, se non addirittura impossibile», che la
depenalizzazione parziale di una figura criminosa rivesta caratteri
di straordinaria necessita' ed urgenza. Si tratta, infatti, di
assunto apodittico e non sorretto da adeguata base logica, il quale
trova smentita nella citata sentenza n. 330 del 1996, con cui questa
Corte nego' che fosse censurabile per difetto dei presupposti della
decretazione d'urgenza la depenalizzazione di alcuni reati in materia
di inquinamento delle acque.
Cio' premesso, deve osservarsi come l'intervento normativo oggi
in discussione rifletta due convinzioni, per quanto si e' visto,
entrambe diffuse: a) che il "rischio penale" e, in specie, quello
legato alla scarsa puntualita' e alla potenziale eccessiva ampiezza
dei confini applicativi dell'abuso d'ufficio, rappresenti uno dei
motori della "burocrazia difensiva"; b) che quest'ultima costituisca
a propria volta un freno e un fattore di inefficienza dell'attivita'
della pubblica amministrazione.
E' ben vero che l'esigenza di contrastare tali fenomeni,
incidendo sulle relative cause - e, in particolare, per quel che qui
rileva, ridefinendo la portata del precetto dell'art. 323 cod. pen.
-, non nasce con l'emergenza epidemiologica, ma si connette
all'epifania, ben anteriore, degli indirizzi giurisprudenziali che
hanno dilatato la sfera applicativa dell'incriminazione, attraendovi,
tanto la violazione dell'art. 97 Cost., quanto lo sviamento di
potere. Ma, se la necessita' della riforma trae origine da quegli
indirizzi, e' pero' l'esigenza di far "ripartire" celermente il Paese
dopo il prolungato blocco imposto per fronteggiare la pandemia che -
nella valutazione del Governo (e del Parlamento, in sede di
conversione) - ha impresso ad essa i connotati della straordinarieta'
e dell'urgenza. Valutazione, questa, che non puo' considerarsi
manifestamente irragionevole o arbitraria.
7.- Il discorso e' diverso per le questioni sollevate in
riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., intese a censurare i contenuti
della norma. Riguardo ad esse, resta, infatti, pienamente operante la
ricordata preclusione delle sentenze in malam partem in materia
penale, cui consegue, come eccepito dall'Avvocatura dello Stato,
l'inammissibilita' delle questioni stesse.
Onde superare l'ostacolo, il rimettente invoca decisioni di
questa Corte (in specie, le sentenze n. 394 del 2006 e n. 148 del
1983) che hanno ammesso la sindacabilita' in malam partem delle
cosiddette norme penali di favore: qualifica che tuttavia non compete
alla norma oggi in esame.
Come questa Corte ha chiarito (sentenza n. 394 del 2006; in senso
conforme, tra le altre, sentenza n. 155 del 2019, n. 57 del 2009 e n.
324 del 2008; ordinanza n. 413 del 2008), per norme penali di favore
debbono intendersi quelle che stabiliscano, per determinati soggetti
o ipotesi, un trattamento penalistico piu' favorevole di quello che
risulterebbe dall'applicazione di norme generali o comuni compresenti
nell'ordinamento. L'effetto in malam partem conseguente alla
dichiarazione di illegittimita' costituzionale di tali norme non
vulnera la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione,
rappresentando una conseguenza dell'automatica riespansione della
norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso
gia' oggetto di ingiustificata disciplina derogatoria.
La qualificazione come norma penale di favore non puo' essere
fatta, di contro, discendere, come nel caso di specie, dal raffronto
tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima
con effetti di restringimento dell'area di rilevanza penale. In tal
caso, la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far
riespandere una norma tuttora presente nell'ordinamento, ma a
ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di
criminalizzazione non piu' attuale: operazione preclusa alla Corte
(sulla inammissibilita' delle questioni volte a conseguire il
ripristino di norme incriminatrici abrogate o di discipline penali
sfavorevoli, ex plurimis, sentenze n. 37 del 2019, n. 57 del 2009 e
n. 324 del 2008; ordinanze n. 282 del 2019, n. 413 del 2008 e n. 175
del 2001).
Questa Corte ha gia' applicato, peraltro, i ricordati principi
all'evoluzione legislativa dell'abuso d'ufficio, dichiarando
inammissibili, con la sentenza n. 447 del 1998, questioni analoghe a
quelle ora in esame, sollevate in riferimento ai medesimi parametri
(artt. 3 e 97 Cost.), aventi ad oggetto l'art. 323 cod. pen., come
riformulato - anche allora in senso restrittivo - dalla legge n. 234
del 1997.
Nell'occasione, si e' posto in evidenza come una censura di
illegittimita' costituzionale non possa basarsi sul pregiudizio che
la formulazione, in assunto troppo restrittiva, di una norma
incriminatrice, recherebbe a valori di rilievo costituzionale, quali,
nella specie, l'imparzialita' e il buon andamento della pubblica
amministrazione. Le esigenze costituzionali di tutela non si
esauriscono, infatti, nella tutela penale, ben potendo essere
soddisfatte con altri precetti e sanzioni: l'incriminazione
costituisce anzi un'extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando,
nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per
l'assenza o l'inadeguatezza di altri mezzi di tutela (sentenza n. 447
del 1998; in senso analogo, con riferimento all'abrogazione del reato
di ingiuria, sentenza n. 37 del 2019; si vedano pure la sentenza n.
273 del 2010 e l'ordinanza n. 317 del 1996).
Si e' rilevato, altresi', nella medesima occasione, che, in linea
di principio, neppure puo' tradursi in una questione di legittimita'
costituzionale della norma incriminatrice il rilievo che altre
condotte, diverse da quelle individuate come fatti di reato dal
legislatore, avrebbero dovuto essere a loro volta incriminate per
ragioni di parita' di trattamento o in nome di esigenze di
ragionevolezza. «La mancanza della base legale - costituzionalmente
necessaria - dell'incriminazione, cioe' della scelta legislativa di
considerare certe condotte come penalmente perseguibili, preclude
radicalmente la possibilita' di prospettare una estensione ad esse
delle fattispecie incriminatrici attraverso una pronuncia di
illegittimita' costituzionale» (sentenza n. 447 del 1998).
In altre parole, ove pure, in ipotesi, la norma incriminatrice
(non qualificabile come norma penale di favore) determinasse
intollerabili disparita' di trattamento o esiti irragionevoli, il
riequilibrio potrebbe essere operato dalla Corte solo "verso il
basso" (ossia in bonam partem): non gia' in malam partem, e in
particolare tramite interventi dilatativi del perimetro di rilevanza
penale (sulla inammissibilita' di questioni in malam partem basate
sulla denuncia di violazione dell'art. 3 Cost., ex plurimis, sentenza
n. 411 del 1995; ordinanze n. 437 del 2006 e n. 580 del 2000).
8.- Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione
sollevata in riferimento all'art. 77 Cost., logicamente
pregiudiziale, deve essere dichiarata non fondata, mentre quelle
sollevate in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. debbono essere
dichiarate inammissibili.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 23, comma 1, del decreto-legge 16 luglio
2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione
digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre
2020, n. 120, sollevata, in riferimento all'art. 77 della
Costituzione, dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale
ordinario di Catanzaro con l'ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 23, comma 1, del d.l. n. 76 del 2020, come
convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., dal
Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catanzaro
con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25 novembre 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 18 gennaio 2022.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
