CORTE COSTITUZIONALE 9 febbraio – 11 marzo 2021 SENTENZA N. 35
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Elezioni - Norme del d.lgs. n. 235 del 2012 (c.d. "legge Severino") - Sospensione di diritto dalla carica di consigliere regionale conseguente alla sentenza di condanna in primo grado per i reati di cui agli artt. 314 e 478 cod. pen. - Valutazione, da parte del giudice, della proporzionalita' tra il fatto oggetto di condanna e la sospensione - Omessa previsione - Denunciata violazione del principio di leale collaborazione, nonche' dei limiti convenzionali alle restrizioni dell'elettorato passivo - Non fondatezza delle questioni. - Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, art. 8, comma 1, lettera a). - Costituzione, artt. 117 e 122; Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 3.
(GU n.11 del 17-3-2021 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giancarlo CORAGGIO;
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo'
ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano
PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN
GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 8, comma 1,
lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo
unico delle disposizioni in materia di incandidabilita' e di divieto
di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze
definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo
1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), promosso dal
Tribunale ordinario di Genova nel procedimento vertente tra M. R. e
il Presidente del Consiglio dei ministri, con ordinanza del 27
dicembre 2019, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2020 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima
serie speciale, dell'anno 2020.
Visti l'atto di costituzione di M. R., nonche' l'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udita nell'udienza pubblica del 27 gennaio 2021 la Giudice
relatrice Daria de Pretis;
uditi l'avvocato Gerolamo Taccogna per M. R., in collegamento da
remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte
del 30 ottobre 2020 e l'avvocato dello Stato Marco Corsini per il
Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 9 febbraio 2021.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 27 dicembre 2019, iscritta al n. 64 del
registro ordinanze 2020, il Tribunale ordinario di Genova ha
sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 8 del
decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle
disposizioni in materia di incandidabilita' e di divieto di ricoprire
cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di
condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63,
della legge 6 novembre 2012, n. 190).
1.1.- Il rimettente descrive la controversia oggetto del processo
principale nei seguenti termini.
Con decreto del 5 luglio 2019, il Presidente del Consiglio dei
ministri ha accertato nei confronti di M. R., ai sensi dell'art. 8,
comma 4, del d.lgs. n. 235 del 2012, la sospensione di diritto dalla
sua carica di consigliere regionale della Regione Liguria, in
conseguenza della sentenza con la quale il 30 maggio 2019 il
Tribunale ordinario di Genova lo ha condannato in primo grado alla
pena complessiva di 3 anni, 2 mesi e 15 giorni di reclusione per i
reati di cui all'art. 478 (falsita' ideologica commessa da pubblici
ufficiali in atti pubblici) e all'art. 314 (peculato) del codice
penale.
I fatti di reato per i quali e' intervenuta la condanna non
definitiva di M. R., analoghi ad altri addebitati a diversi
consiglieri regionali nel contesto di una prassi diffusa, consistono
nell'avere speso per finalita' extraistituzionali i contributi
economici destinati al funzionamento dei gruppi consiliari regionali,
per una spesa di euro 138,20 personalmente imputabile al condannato,
e nell'avere falsamente attestato nei rendiconti annuali, in qualita'
di capogruppo, la veridicita' e l'inerenza di spese dichiarate da
altri consiglieri regionali, per alcune decine di migliaia di euro.
Con ricorso presentato al Tribunale di Genova nelle forme del
processo sommario di cognizione, ex art. 22 del decreto legislativo
1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di
procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei
procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della
legge 18 giugno 2009, n. 69), M. R. ha impugnato il decreto di
sospensione chiedendone la disapplicazione «o per difetto di
legittimo presupposto normativo o per entita' sproporzionata del
provvedimento», previa rimessione degli atti a questa Corte per la
declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 8 del d.lgs.
n. 235 del 2012.
Lo stesso ricorrente ha contestualmente presentato istanza ex
art. 700 del codice di procedura civile per ottenere in via
cautelare, sulla base delle stesse ragioni esposte a sostegno della
domanda di merito, la riammissione immediata nel Consiglio regionale
della Liguria. L'ordinanza non fa menzione dell'esito di tale
istanza.
1.1.1.- Il rimettente ritiene rilevanti e non manifestamente
infondate due delle questioni di illegittimita' costituzionale
proposte nel giudizio a quo.
Alla stregua della prima eccezione, diretta a una pronuncia
ablativa, l'art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, nel prevedere che la
sospensione di diritto a seguito di condanna non definitiva per
determinati reati si applichi anche ai consiglieri regionali,
violerebbe gli artt. 117 e 122 della Costituzione, invadendo la sfera
di competenza legislativa regionale, «ovvero» comprimendo tale
competenza nell'esercizio di una potesta' legislativa statale
incidente in materia regionale «in difetto di ogni coordinamento e
collaborazione».
Alla stregua della seconda, diretta a una pronuncia additiva, il
citato art. 8, nella parte in cui non contempla un vincolo di
necessaria proporzionalita' in concreto tra fatto accertato in sede
penale e le conseguenze automatiche previste dalla legge, violerebbe
i principi posti dall'art. 3 del Protocollo addizionale alla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, in quanto
tale norma convenzionale esigerebbe, secondo l'interpretazione della
Corte europea dei diritti dell'uomo, una deliberazione bilanciata,
individualizzata e giudiziaria di ogni forma di perdita
dell'elettorato attivo e passivo.
1.2.- Passando all'esposizione delle censure, il rimettente
prende le mosse da quella che si incentra sulla mancata previsione di
un vaglio di proporzionalita' tra i fatti oggetto della condanna e la
sospensione dalla carica elettiva.
La norma censurata sarebbe connotata da un rigido automatismo
applicativo, che fa seguire la sospensione alla condanna per
determinati reati senza considerare l'esigenza di una connessione
concreta tra i fatti accertati e la carica esercitata, ben potendo
trattarsi, come nella specie, di fatti risalenti nel tempo e seguiti
«da condotta difforme nell'esercizio della medesima carica, oppure
generati da una occasione [...] non piu' attuale, oppure seguiti da
una nuova elezione a una carica diversa».
I titoli di reato per i quali sono previste la sospensione e la
successiva decadenza dalla carica sarebbero gravi solo per la pena
edittale, in quanto a essi potrebbero corrispondere fatti di diversa
gravita', sicche' le anzidette misure troverebbero applicazione anche
per condotte di lieve entita'. Cio' metterebbe in evidenza l'assoluta
insensibilita' della norma censurata alla gravita' del fatto, acuita
dalla circostanza che a reati come il peculato, anche se di lieve
entita', e' inapplicabile la causa di non punibilita' ex «art.
133-bis» (recte: art. 131-bis) cod. pen. Sarebbero dunque
assoggettati alla misura sospensiva anche gli autori di condotte di
minima offensivita', nonostante possano ricoprire cariche politiche
di notevole rilievo e, per ipotesi, ottenute con larghissimo consenso
di un elettorato consapevole della pendenza del procedimento penale o
della condanna.
La natura cautelare della sospensione opererebbe poi sulla base
di una presunzione legale assoluta di pericolosita', nonostante tale
istituto sia escluso, in ossequio ai principi costituzionali,
dall'ambito di applicazione sia delle misure cautelari sia delle
misure di sicurezza.
Tale rigido automatismo contrasterebbe con l'art. 3 Prot. addiz.
CEDU, dal cui contenuto precettivo, come interpretato dalla Corte
europea dei diritti dell'uomo, discenderebbe l'esistenza di un
diritto fondamentale di elettorato attivo e passivo.
In particolare, diverse pronunce della Corte EDU (sono citate le
sentenze 27 aprile 2010, grande camera, Tănase contro Moldavia; 8
aprile 2010, Frodl contro Austria; 5 aprile 2007, Kavakçi contro
Turchia; 15 giugno 2006, Lykourezos contro Grecia; 6 ottobre 2005,
grande camera, Hirst contro Regno Unito, n. 2) avrebbero affermato la
necessita' che le eventuali limitazioni al diritto degli eletti di
rivestire le loro cariche derivino solo da un processo decisorio
individualizzato, di natura tendenzialmente giurisdizionale, che si
fondi su un concreto collegamento tra il fatto commesso e
l'impossibilita' di ricoprire la carica elettiva (nozione,
quest'ultima, in cui sarebbe ricompresa anche quella di consigliere
regionale prevista dall'ordinamento italiano).
Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata, pur diretta
al condivisibile intento di garantire la qualita' morale degli
eletti, non risponderebbe a tali requisiti, facendo dipendere
l'adozione della misura dall'astratta valutazione del legislatore.
Infine, sulla valutazione di non manifesta infondatezza della
questione non inciderebbe la possibilita' di impugnare giudizialmente
il provvedimento di sospensione, in quanto la mancanza di parametri
decisionali non consentirebbe al giudice adito di raggiungere un
«esito adeguatore» in assenza dell'auspicato intervento correttivo
del Giudice delle leggi.
1.2.1.- Quanto all'altra questione, il giudice a quo - pur
prendendo atto della giurisprudenza costituzionale che riconduce la
disciplina su incandidabilita', sospensione e decadenza alla materia
dell'ordine pubblico e sicurezza, di competenza statale «ex art. 117
comma 2 lettera e) della Costituzione» - censura l'art. 8 del d.lgs.
n. 235 del 2012 per la sua significativa incidenza sull'ordinamento
regionale, comportante la necessita' di adottare una procedura di
leale consultazione con le regioni, in ossequio al principio
affermato da questa Corte con la sentenza n. 251 del 2016. Secondo il
rimettente, il previo coinvolgimento delle regioni sarebbe stato qui
ancora piu' necessario, potendo incidere l'intervento legislativo sul
loro stesso vertice politico.
2.- Con atto depositato il 24 giugno 2020, si e' costituito in
giudizio M. R., ricorrente nel processo principale, che ha concluso
perche' l'art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 «all'occorrenza
unitamente all'art. 1, commi 63 e 64, della l. n. 190/2012» sia
dichiarato costituzionalmente illegittimo.
2.1.- In premessa, M. R. riassume i fatti che hanno portato alla
sua condanna penale e lo svolgimento del giudizio a quo, ricordando
che l'istanza cautelare di riammissione nel Consiglio regionale della
Liguria, presentata contestualmente al ricorso di merito, e' stata
dapprima respinta, per difetto del solo periculum in mora, e poi
accolta in sede di reclamo.
2.2.- Sulla prima questione, riguardante il lamentato contrasto
della norma censurata con gli artt. 117 e 122 Cost., in rapporto al
principio di leale collaborazione, il ricorrente nel processo
principale osserva che, pur prevedendo l'art. 122 Cost. le sole
ipotesi dell'ineleggibilita' e dell'incompatibilita', si potrebbe
ricondurre ad esso anche l'incandidabilita' per mancanza dei
requisiti soggettivi di accesso alla carica, sussistendo dunque in
materia uno spazio di potesta' legislativa regionale, al quale si
sovrapporrebbe in modo inestricabile la sfera della potesta'
legislativa statale in materia di ordine pubblico.
Tale inestricabile intreccio di competenze imporrebbe un
coinvolgimento delle regioni, secondo quanto affermato dalla sentenza
n. 251 del 2016. La mancata previsione di tale coinvolgimento nelle
norme di delega renderebbe costituzionalmente illegittima la legge
delega e, in via derivata, il decreto delegato. Quest'ultimo sarebbe
peraltro costituzionalmente illegittimo anche «in via autonoma», in
quanto le regioni avrebbero potuto essere comunque coinvolte nel suo
processo formativo anche in assenza di una previsione in tal senso
della legge delega. In ogni caso, si sostiene che questa Corte
potrebbe sollevare davanti a se' la questione su di essa.
2.3.- Sulla seconda questione, riguardante il lamentato contrasto
con l'art. 3 Prot. addiz. CEDU, «in relazione all'art. 117 Cost.»,
oltre che «con gli artt. 1, 3, 24, 51 e 97 Cost.», M. R. osserva che,
alla luce dell'interpretazione data a tale norma convenzionale dalla
Corte EDU, le limitazioni del diritto di elettorato passivo devono
corrispondere a un fine compatibile con il principio democratico ed
essere proporzionate al suo perseguimento. Di conseguenza, sia
l'incandidabilita' che la sospensione dalla carica elettiva,
ancorche' prive di carattere sanzionatorio, non potrebbero discendere
automaticamente da una sentenza di condanna non definitiva, essendo
necessaria una procedura, amministrativa o giurisdizionale, ma dotata
di adeguate garanzie di contraddittorio e imparzialita', per valutare
in concreto, secondo le circostanze del caso specifico, l'eventuale
pericolo «rappresentato dall'eletto-condannato per la funzione
amministrativa affidata all'organo pubblico del quale egli fa parte».
Il caso concreto sarebbe emblematico della mancanza di
proporzionalita' della misura, in quanto adottata sulla base di una
valutazione compiuta in astratto dal legislatore, e della necessita'
di una valutazione specifica che, a fronte della qualificazione come
peculato di condotte anche molto differenti tra loro, sola
consentirebbe di apprezzare l'obiettiva gravita' del reato e la sua
idoneita' a giustificare la compressione del diritto di elettorato
passivo.
La mancanza di proporzionalita' della misura si collegherebbe
anche al lungo tempo trascorso tra i fatti sanzionati in sede penale,
risalenti al 2010, e l'adozione della misura. Dovrebbe inoltre essere
considerata la rinnovata legittimazione democratica dell'interessato,
rieletto nelle elezioni regionali del 2015, per apprezzare
l'incidenza della misura sospensiva sulla volonta' popolare e
l'eventuale pregiudizio all'immagine della regione.
2.4.- Un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale
dell'art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 deriverebbe dall'equiparazione
in esso operata delle cariche di presidente della regione e di
consigliere regionale, nonostante l'evidente diversita' tra le due
posizioni quanto alla possibilita' di influenzare l'attivita'
legislativa e amministrativa regionale. Sarebbero violati di
conseguenza sia il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., sia
l'art. 51 Cost. e ancora l'art. 3 Prot. addiz. CEDU, sempre per la
manifesta sproporzione della misura.
2.5.- L'art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 contrasterebbe altresi'
con il principio di buon andamento ex art. 97 Cost., in quanto
l'automatismo applicativo impedirebbe di valutare in concreto il
vulnus che la sospensione cautelare puo' arrecare all'azione
amministrativa regionale. In subordine, la violazione dell'art. 97
Cost. - oltre che del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. e
dell'art. 3 Prot. addiz. CEDU - deriverebbe dall'omessa previsione
della possibilita' per la pubblica amministrazione di revocare la
sospensione (e' citata al riguardo la sentenza n. 184 del 1994, sul
regime di sospensione automatica dal servizio dei dipendenti pubblici
condannati in via non definitiva per i medesimi reati).
3.- Con atto depositato il 7 luglio 2020 e' intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per
l'inammissibilita' o, in subordine, per l'infondatezza delle
questioni.
3.1.- L'interveniente ha eccepito l'inammissibilita' di tutte le
questioni per genericita' nell'identificazione delle norme censurate.
Il rimettente avrebbe omesso di dedurre censure «"puntiformi" e
mirate» sull'art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, operando
«genericissimi rinvii» al testo del d.lgs. n. 235 del 2012 nella sua
integralita'.
Una specifica inammissibilita' investirebbe poi la questione
concernente la violazione del principio di leale collaborazione, per
genericita' del parametro invocato, nonche' per il tenore dubitativo
della questione stessa. In ogni caso, il fugace riferimento all'art.
117, secondo comma, lettera e), Cost., risulterebbe erroneo, per
l'estraneita' alla materia della norma censurata.
3.2.- Nel merito, non sussisterebbe la violazione del principio
di leale collaborazione, in quanto la norma censurata, che si colloca
nell'ambito di una disciplina unitaria dei requisiti di assunzione e
di mantenimento delle cariche di pubblico amministratore, dovrebbe
essere ricondotta alla competenza esclusiva statale ex art. 117,
secondo comma, lettera h), Cost., perseguendo obiettivi di
salvaguardia dell'ordine pubblico e della sicurezza, di tutela della
libera determinazione degli organi elettivi e di buon andamento e
trasparenza della pubblica amministrazione.
3.2.1.- Non sarebbero violati neppure i principi di tutela
dell'eletto ricavabili dall'art. 3 Prot. addiz. CEDU, «per il tramite
dell'art. 117 primo comma della Costituzione».
La norma perseguirebbe infatti un fine legittimo, da
identificare, come visto, nella tutela dell'ordine pubblico e della
sicurezza, integranti beni di rango costituzionale. La misura sarebbe
proporzionata per la temporaneita' dei suoi effetti, destinati a
cessare decorsi diciotto mesi dalla condanna, salvo conferma in
appello entro tale termine della sentenza di primo grado, nel quale
caso la sospensione e' protratta di dodici mesi. Inoltre, non sarebbe
essenziale prevedere una decisione giudiziale sulla meritevolezza in
concreto della sospensione, essendo sufficiente che la valutazione
compiuta ex ante dal legislatore sia l'esito di un ragionevole
bilanciamento tra il fine perseguito e la compressione del diritto di
elettorato passivo.
L'interveniente richiama la giurisprudenza costituzionale che -
con riferimento all'analoga fattispecie disciplinata all'art. 11,
comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, ispirato dalla
stessa ratio - ha qualificato la sospensione come una misura
cautelare posta a tutela oggettiva del buon andamento e della
legalita' della pubblica amministrazione, la cui adeguatezza non va
commisurata alla gravita' del fatto commesso, ma alle esigenze
cautelari perseguite, in relazione alla possibile lesione
dell'interesse pubblico causata dalla permanenza dell'eletto
nell'organo elettivo (sono citate le sentenze n. 36 del 2019, n. 236
del 2015 e n. 206 del 1999).
La ragionevolezza e la proporzionalita' della misura sarebbero
confermate anche dal suo collegamento a condanne per reati di
particolare gravita' o compiuti contro la pubblica amministrazione,
quindi direttamente connessi alle funzioni che il sospeso e' chiamato
ad assumere.
4.- Nella memoria depositata in prossimita' dell'udienza, M. R.
ha insistito nelle conclusioni gia' formulate, ribadendo le ragioni
esposte nell'atto di costituzione e replicando alle deduzioni
difensive svolte dal Presidente del Consiglio dei ministri.
4.1.- In particolare l'eccezione di genericita' delle questioni
non sarebbe fondata, essendo esattamente individuata nell'art. 8 del
d.lgs. n. 235 del 2012 la norma sospettata d'incostituzionalita',
solo per sintesi menzionata dal rimettente, talvolta, come «legge
Severino».
Neppure mancherebbe l'evocazione dei parametri violati, in quanto
l'ordinanza di rimessione li indica, nell'un caso, nell'art. 3 Prot.
addiz. CEDU e, nell'altro, nel principio di leale collaborazione tra
lo Stato e le regioni, per la forte sovrapposizione sulla materia di
competenza regionale ex art. 122 Cost.
Inoltre, il richiamo fatto dal rimettente alla lettera e) del
secondo comma dell'art. 117 Cost. si dovrebbe intendere palesemente
riferito alla lettera h) dello stesso secondo comma, relativa alla
materia dell'ordine pubblico.
4.2.- Quanto alla violazione del citato art. 3 Prot. addiz. CEDU,
M. R. osserva che le pronunce della Corte richiamate
dall'interveniente non sarebbero pertinenti, perche' espressive di
principi non contestati, giacche' in questa sede alla Corte e'
chiesto di affermare che il bilanciamento fra gli interessi in gioco
avvenga mediante una valutazione caso per caso di tutte le
circostanze concrete, come imposto dalla giurisprudenza della Corte
EDU.
4.3.- Quanto alla violazione del principio di leale
collaborazione, il fatto che la norma censurata miri alla tutela
dell'ordine pubblico non eliminerebbe la sua incidenza su materie di
competenza regionale, alla luce dell'art. 122 Cost., per l'effetto
immediato e diretto della sospensione sulla permanenza in carica dei
titolari di uffici apicali del governo regionale. L'esigenza di
unitarieta' di disciplina in tutto il territorio nazionale non
escluderebbe la necessaria osservanza del principio di leale
collaborazione, tramite intesa, in fase di formazione del decreto
delegato.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale ordinario di Genova dubita della legittimita'
costituzionale dell'art. 8 del decreto legislativo 31 dicembre 2012,
n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita'
e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a
sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma
dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190),
ossia della cosiddetta "legge Severino".
Le questioni sono sorte nel corso di un giudizio con cui M. R. ha
impugnato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di
accertamento nei suoi confronti, ai sensi dell'art. 8, comma 4, del
d.lgs. n. 235 del 2012, dell'avvenuta sospensione di diritto dalla
carica di consigliere regionale della Regione Liguria.
La sospensione e' conseguita alla sentenza di condanna in primo
grado dello stesso M. R. alla pena complessiva di 3 anni, 2 mesi e 15
giorni di reclusione, irrogata dal Tribunale di Genova per i reati di
cui agli artt. 314 e 478 del codice penale.
I fatti di reato per i quali e' intervenuta la condanna
consistono nell'avere speso per finalita' extraistituzionali i
contributi economici destinati al funzionamento dei gruppi consiliari
regionali, per una spesa di euro 138,20 personalmente imputabile al
condannato, e nell'avere falsamente attestato nei rendiconti annuali,
in qualita' di capogruppo, la veridicita' e l'inerenza di spese
dichiarate da altri consiglieri regionali, per alcune decine di
migliaia di euro.
1.1.- In primo luogo, va rilevata l'inammissibilita' delle
ulteriori questioni prospettate nell'atto di costituzione in giudizio
del ricorrente nel processo principale, in quanto diverse da quelle
proposte nell'ordinanza di rimessione, sia per l'oggetto, che investe
disposizioni ulteriori rispetto a quelle censurate dal giudice a quo
(art. 1, commi 63 e 64, della legge 6 novembre 2012, n. 190, recante
«Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e
dell'illegalita' nella pubblica amministrazione»; art. 7 del d.lgs.
n. 235 del 2012), sia per i parametri invocati (artt. 1, 3, 24, 51 e
97 della Costituzione).
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'oggetto del
giudizio di costituzionalita' in via incidentale e' limitato alle
norme e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, mentre
non possono essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste
fissati, ulteriori questioni o profili di costituzionalita' dedotti
dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal
giudice a quo (come nella specie), sia che siano diretti ad ampliare
o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex
plurimis, sentenze n. 35 del 2017, n. 203 del 2016, n. 56 del 2015,
n. 271 del 2011 e n. 86 del 2008).
1.2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha preliminarmente
eccepito l'inammissibilita' di tutte le questioni sollevate dal
giudice a quo, per genericita' nell'identificazione delle norme
censurate. Pur affermando di dubitare della legittimita'
costituzionale dell'art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, il rimettente
avrebbe omesso di dedurre censure «"puntiformi" e mirate» su tale
disposizione e operato invece «genericissimi rinvii» al testo del
d.lgs. n. 235 del 2012 nella sua integralita', cosi' manifestando
l'intento di «colpire l'impianto della c.d. "Legge Severino",
costantemente richiamata nell'ordinanza».
L'eccezione non e' fondata.
Nella motivazione dell'ordinanza di rimessione e' indicato con
chiarezza l'art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 come oggetto delle
questioni, mentre gli sparsi e generici richiami alla "legge
Severino" nella sua interezza sono diretti a sottolineare che la
disposizione censurata rispecchia nel suo specifico contenuto
l'impianto complessivo del d.lgs. n. 235 del 2012.
1.2.1.- L'oggetto delle questioni proposte va comunque
circoscritto alla lettera a) del comma 1 dell'art. 8 del d.lgs. n.
235 del 2012, perche' questa e' la disposizione che, prevedendo la
sospensione di coloro che hanno riportato una sentenza di condanna
non definitiva per uno dei delitti indicati all'art. 7, comma 1,
lettere a), b) e c), dello stesso d.lgs. n. 235 del 2012, deve essere
applicata nel giudizio a quo, relativo a un provvedimento di
sospensione dalla carica di un consigliere regionale condannato in
primo grado (anche) per il delitto di peculato, compreso nell'elenco
di cui al citato art. 7, comma 1, lettera c).
1.3.- Il petitum delle questioni, ancorche' non indicato nel
dispositivo dell'ordinanza di rimessione, e' ricavabile dal tenore
della motivazione, la' dove, nel sintetizzare il contenuto delle due
questioni di legittimita' costituzionale ritenute non manifestamente
infondate, il giudice a quo osserva che l'una - che invoca gli artt.
117 e 122 Cost. e il principio di leale collaborazione, la cui
violazione e' declinata come «difetto di ogni coordinamento e
collaborazione» tra lo Stato e le regioni - tende «alla cancellazione
integrale del fondamento normativo dell'istituto adottato in
concreto», attraverso «una pronuncia soppressiva», mentre l'altra -
con cui e' dedotta la violazione dell'art. 3 del Protocollo
addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo
1952, in tema di elettorato passivo - e' diretta «alla introduzione
di un potere di vaglio necessario minimo della proporzione tra il
fatto ritenuto e l'effetto sull'elettorato passivo», attraverso «una
pronuncia additiva».
Se ne desume che le questioni sono collegate da un rapporto di
logica subordinazione, in quanto l'addizione normativa e' richiesta
per il caso in cui non fosse accolta la domanda, prospettata come
prima, di «pronuncia soppressiva» (id est, totalmente ablativa). Cio'
che non osta all'ammissibilita' delle questioni, alla luce del
costante orientamento di questa Corte secondo cui «ben puo' [...] il
giudice rimettente prospettare in termini gradatamente sequenziali, e
quindi subordinati, i possibili esiti dello scrutinio di
costituzionalita' pur senza una formale e testuale qualificazione di
ciascuna conclusione rispettivamente come "principale" e
"subordinata" (sentenze n. 127 del 2017 e n. 280 del 2011)» (sentenza
n. 175 del 2018; nello stesso senso, sentenza n. 36 del 2019).
2.- Occorre dunque esaminare prioritariamente la questione
principale.
Con essa, il giudice a quo lamenta che la disposizione censurata
- pur incidendo su una «materia almeno estremamente affine» a quella
dell'eleggibilita' e dell'incompatibilita' dei consiglieri regionali,
attribuita alla potesta' delle regioni dall'art. 122, primo comma,
Cost. - sia stata adottata senza il previo raccordo con le regioni in
sede di Conferenza unificata, in violazione del principio di leale
collaborazione.
Non appartiene al thema decidendum, invece, la censura di
invasione della sfera di competenza regionale ex art. 122 Cost,
anch'essa dedotta dal ricorrente nel giudizio principale, ma non
condivisa dal rimettente, che ne critica la fondatezza, richiamando
la tesi secondo cui la disciplina della sospensione dalle cariche
elettive regionali non si inquadra negli istituti dell'eleggibilita'
e dell'incompatibilita', bensi' in quello dell'incandidabilita',
riconducibile alla diversa materia dell'ordine pubblico e sicurezza,
di competenza esclusiva dello Stato.
2.1.- L'eccezione del Presidente del Consiglio dei ministri di
inammissibilita' della questione per erronea e generica indicazione
del parametro invocato, nonche' per il suo tenore dubitativo, non e'
fondata.
L'ordinanza di rimessione, nonostante l'apparente tenore
dubitativo che ne caratterizza gli snodi, offre esplicite ragioni a
sostegno della censura e assume come propri i motivi esposti dal
ricorrente nel giudizio principale.
Si deve ritenere inoltre che, nell'invocare un parametro del
tutto inconferente, quale l'art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost., il giudice a quo sia semplicemente incorso in un lapsus
calami, essendo palese che esso intendeva richiamare la lettera h)
dello stesso secondo comma dell'art. 117 Cost., come dimostra
l'esplicito riferimento, nello stesso contesto motivazionale, alla
materia «ordine pubblico e sicurezza» ivi prevista.
D'altra parte, nei termini in cui la questione e' sollevata, la
censura non investe la norma costituzionale che fonda la competenza
esclusiva dello Stato, ma fa valere la lesione del principio di leale
collaborazione, in base al quale, nella prospettazione del
rimettente, l'intervento del legislatore statale, pur assunto
nell'esercizio dell'indicata competenza in funzione della disciplina
unitaria della sospensione dalle cariche regionali, non potrebbe
incidere su materie di competenza regionale senza un coinvolgimento
delle regioni. In questi termini la questione e' posta con
sufficiente chiarezza dal rimettente, che dall'assenza di tale
coinvolgimento fa derivare la violazione del principio di leale
collaborazione, assolvendo cosi' all'onere di indicare, a pena di
inammissibilita', il parametro alla cui stregua questa Corte e'
chiamata a valutare la questione.
2.2.- Nel merito, la questione non e' fondata.
Come visto, secondo il rimettente la disposizione censurata, pur
espressione della competenza statale esclusiva in materia di «ordine
pubblico e sicurezza», inciderebbe anche su una materia di competenza
regionale, sicche' il legislatore delegato avrebbe potuto adottarla
solo dopo aver previamente coinvolto le regioni.
A sostegno dell'assunto il giudice a quo evoca la sentenza n. 251
del 2016, con cui questa Corte ha affermato che, quantunque il
principio di leale collaborazione non si imponga al procedimento
legislativo, «[l]a' dove [...] il legislatore delegato si accinge a
riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali,
inestricabilmente connesse, sorge la necessita' del ricorso
all'intesa», la quale «si impone quale cardine della leale
collaborazione anche quando l'attuazione delle disposizioni dettate
dal legislatore statale e' rimessa a decreti legislativi adottati dal
Governo sulla base dell'art. 76 Cost.», che finiscono «con l'essere
attratti nelle procedure di leale collaborazione, in vista del pieno
rispetto del riparto costituzionale delle competenze».
Nel richiamare tale precedente il giudice a quo omette tuttavia
di verificare se la disposizione statale censurata, che esso stesso
riconduce a un titolo di competenza esclusiva dello Stato, incida
effettivamente su ambiti materiali nei quali concorrono competenze
statali e regionali legate da un intreccio inestricabile, non
risolubile tramite un criterio di prevalenza di una materia sulle
altre. Solo in un'ipotesi di questo tipo, infatti, «deve trovare
applicazione il principio generale, costantemente ribadito dalla
giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 140 del 2015),
secondo il quale in ambiti caratterizzati da una pluralita' di
competenze [...] e, qualora risulti impossibile comporre il concorso
di competenze statali e regionali, tramite un criterio di prevalenza,
non e' costituzionalmente illegittimo l'intervento del legislatore
statale, purche' agisca nel rispetto del principio di leale
collaborazione che deve in ogni caso permeare di se' i rapporti tra
lo Stato e il sistema delle autonomie (ex plurimis, sentenze n. 44
del 2014, n. 237 del 2009, n. 168 e n. 50 del 2008) e che puo'
ritenersi congruamente attuato mediante la previsione dell'intesa»
(sentenza n. 1 del 2016). Impostazione, questa, sulla cui linea si
pone la stessa evocata sentenza n. 251 del 2016, che, nel considerare
applicabili le procedure di leale collaborazione all'iter di
formazione dei decreti delegati nel caso di incidenza dell'intervento
legislativo su competenze statali e regionali inestricabilmente
connesse, la condiziona all'impossibilita' di operare una
«valutazione circa la prevalenza di una materia su tutte le altre»,
poiche' solo ricorrendo questo presupposto la concorrenza di
competenze rende necessario addivenire a un'intesa.
2.2.1.- Occupandosi della disciplina che si e' succeduta nel
tempo in tema di incandidabilita' alle cariche elettive, di decadenza
di diritto da esse a seguito di condanna definitiva per determinati
reati, nonche' di sospensione automatica in caso di condanna non
definitiva (istituto che viene qui specificamente in rilievo), questa
Corte ha piu' volte affermato che si tratta di misure «dirette "ad
assicurare la salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, la
tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon
andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche allo scopo
di fronteggiare una situazione di grave emergenza nazionale
coinvolgente gli interessi dell'intera collettivita'" (sentenze n.
352 del 2008 e n. 288 del 1993)» (sentenza n. 118 del 2013, in
relazione all'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, recante
«Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo
mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosita'
sociale», i cui contenuti risultano attualmente trasfusi, per la
parte che interessa, negli artt. 7 e 8 del d.lgs. n. 235 del 2012).
In ragione di questa sua finalita', il «nucleo essenziale» della
disciplina qui segnatamente in esame e' stato ricondotto all'ambito
della materia «ordine pubblico e sicurezza», di competenza
legislativa statale esclusiva ex art. 117, secondo comma, lettera h),
Cost. (sentenza n. 118 del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 218
del 1993 e n. 407 del 1992, ancora in relazione all'art. 15 della
legge n. 55 del 1990), materia che, come questa Corte ha
sottolineato, presenta carattere prevalente pur quando essa
interferisca con la competenza regionale ex art. 122, primo comma,
Cost. (sentenze n. 36 del 2019 e n. 118 del 2013).
Infatti, anche ritenendo che quest'ultima competenza «comprenda
la disciplina delle decadenze connesse alla sopravvenienza delle
cause di ineleggibilita' dopo l'assunzione del mandato, come pure la
disciplina delle ipotesi di sospensione automatica dalla carica
collegate, in funzione cautelare e preventiva, alle cause di
decadenza», resta «dirimente il rilievo che le ragioni che stanno
[...] alla base della prevista sospensione di diritto [...] ascrivono
comunque il nucleo essenziale della disciplina, sulla base del
criterio della prevalenza, alla gia' indicata materia di competenza
statale esclusiva "ordine pubblico e sicurezza"» (sentenza n. 118 del
2013). Ne' contrasta con la riconduzione della sospensione in esame a
questa materia la circostanza che si tratti della disciplina delle
condizioni per la permanenza in carica di un eletto, giacche' in
questo caso e' proprio attraverso la previsione di requisiti di
onorabilita' degli eletti che si perviene all'obiettivo di garantire,
attraverso l'integrita' del processo democratico, nonche' la
trasparenza e la tutela dell'immagine dell'amministrazione, l'ordine
pubblico e la sicurezza.
In conclusione si deve dunque escludere che, nel caso della
sospensione automatica disciplinata dal censurato art. 8, comma 1,
lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, si versi in un'ipotesi di
intreccio inestricabile di materie, di competenza statale e
regionale, non risolvibile con il criterio della prevalenza e, di
conseguenza, che sia stato violato il principio di leale
collaborazione per mancato coinvolgimento delle regioni nella
formazione del decreto legislativo in cui la disposizione contestata
e' contenuta.
3.- Con la seconda questione - che, come visto, si pone in
rapporto di logica subordinazione rispetto alla prima - l'art. 8,
comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 e' censurato nella
parte in cui prevede l'applicazione della misura cautelare della
sospensione come automatica conseguenza della condanna penale non
definitiva per determinati reati e preclude cosi' al giudice chiamato
a pronunciarsi sul provvedimento sospensivo di valutare in concreto
la proporzionalita' «tra i fatti oggetto di condanna» e la stessa
sospensione.
Sarebbe pertanto violato l'art. 3 Prot. add. CEDU, alla cui
stregua, sotto la rubrica «Diritto a libere elezioni», «[l]e Alte
Parti contraenti si impegnano a organizzare, a intervalli
ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali
da assicurare la libera espressione dell'opinione del popolo sulla
scelta del corpo legislativo». Ad avviso del rimettente, la
disposizione convenzionale, come interpretata dalla Corte EDU,
consentirebbe di limitare il diritto di elettorato passivo solo a
condizione che le eventuali restrizioni derivino «da un "processo
decisorio individualizzato" [...] tendenzialmente di natura
giurisdizionale», perche' solo in questo modo sarebbe possibile
valutare la proporzionalita' della misura e verificare l'esistenza di
un collegamento tra il fatto commesso e l'impossibilita' di ricoprire
la carica elettiva.
3.1.- Sebbene il rimettente invochi l'art. 3 Prot. addiz. CEDU,
omettendo di richiamare esplicitamente l'art. 117, primo comma,
Cost., e' in riferimento a tale ultima previsione - rispetto alla
quale la citata norma convenzionale funge da parametro interposto
(sentenze n. 348 e n. 349 del 2007) - che la censura puo' e deve
intendersi effettivamente proposta. Secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte, infatti, la questione di legittimita'
costituzionale deve essere scrutinata avendo riguardo anche ai
parametri costituzionali non formalmente evocati ma desumibili in
modo univoco dall'ordinanza di rimessione, qualora tale atto faccia a
essi chiaro, sia pure implicito, riferimento mediante il richiamo ai
principi da questi enunciati (ex plurimis, sentenze n. 5 del 2021, n.
227 del 2010, n. 170 del 2008, n. 26 del 2003, n. 69 del 1999 e n. 99
del 1997).
Questo e' quanto accade nel caso in esame, in cui il giudice a
quo, pur avendo formalmente indicato solo l'art. 3 Prot. addiz. CEDU,
mostra di avere censurato l'art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs.
n. 235 del 2012 con univoco, ancorche' implicito, riferimento
all'art. 117, primo comma, Cost., come e' agevole desumere dal tenore
complessivo dell'ordinanza di rimessione, in cui si sottolinea la
necessita' costituzionale che l'ordinamento nazionale osservi la
citata norma convenzionale, e come e' del resto significativamente
confermato dal fatto che lo stesso Presidente del Consiglio dei
ministri intervenuto in giudizio ha impostato la sua difesa
richiamando testualmente l'art. 117, primo comma, Cost., e dunque
assumendone anch'esso come pacifica l'evocazione.
3.2.- Nel merito, nemmeno la seconda questione e' fondata.
3.2.1.- I termini in cui e' prospettata impongono un preliminare
riferimento all'interpretazione dell'art. 3 Prot. addiz. CEDU ad
opera dalla Corte EDU e ai principi dalla stessa formulati sulla
portata generale della garanzia in esso prevista e sulle limitazioni
che gli Stati possono introdurre in ragione della particolare natura
del diritto di elettorato, in specie di quello passivo.
In via generale, la Corte di Strasburgo ha affermato che la
disposizione contenuta nell'art. 3 Prot. addiz. CEDU, pur formulata
in termini di impegno degli Stati contraenti «a organizzare elezioni
[...] in condizioni tali da assicurare la libera espressione
dell'opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo», deve
essere interpretata - alla luce dei lavori preparatori e nel quadro
della Convenzione considerata nel suo insieme - nel senso che essa
garantisce diritti soggettivi, comprendenti il diritto di voto (che
ne rappresenta l'aspetto "attivo") e il diritto di presentarsi alle
elezioni (costituente l'aspetto "passivo") (ex plurimis, Corte
europea dei diritti dell'uomo, grande camera, sentenza 6 ottobre
2005, Hirst contro Regno Unito, n. 2, paragrafi 56 e 57; sentenza 2
marzo 1987, Mathieu-Mohin e Clearfayt contro Belgio, paragrafi da 46
a 51).
Ha precisato ancora che il diritto di presentarsi alle elezioni
copre anche il periodo post-elettorale, convertendosi nel diritto di
esercitare il mandato come membro del corpo legislativo (Corte EDU,
sentenza 24 maggio 2016, Paunović and Milivojević contro Serbia,
paragrafo 58), e che quest'ultima nozione, a sua volta, deve essere
interpretata alla luce della struttura costituzionale del singolo
Stato (Corte EDU, sentenza Mathieu-Mohin e Clearfayt contro Belgio,
paragrafo 53), includendo in particolare, per quanto riguarda il
nostro Paese, i consigli regionali, in quanto dotati di attribuzioni
e di poteri sufficientemente ampi da essere qualificabili come
elementi del corpo legislativo dello Stato nel suo complesso (Corte
EDU, sentenza 1° luglio 2004, Vito Sante Santoro contro Italia,
paragrafo 52).
Quanto alle limitazioni apportabili dal legislatore nazionale ai
diritti di elettorato attivo e passivo, la Corte EDU ha precisato che
si tratta di diritti non assoluti, che possono essere fatti oggetto
di «limitazioni implicite», rispetto alle quali gli Stati contraenti
godono di un ampio margine di valutazione, in ragione, tra l'altro,
delle peculiarita' storiche, politiche e culturali di ciascun
ordinamento (ex plurimis, Corte EDU, sentenza 15 giugno 2006,
Lykourezos contro Grecia, paragrafo 51; sentenza Hirst contro Regno
Unito, n. 2, paragrafi 61 e 62; sentenza Mathieu-Mohin e Clearfayt
contro Belgio, paragrafo 52).
Il carattere «implicito» delle limitazioni ammissibili consente
agli Stati contraenti di introdurre misure restrittive di tali
diritti anche per finalita' non incluse in elenchi precisi, come
quelle enumerate agli articoli da 8 a 11 della CEDU, purche' nelle
particolari circostanze del caso concreto sia dimostrata la
compatibilita' del fine perseguito con il principio del primato della
legge e con gli obiettivi generali della Convenzione. Per la stessa
ragione, nel vagliare la compatibilita' delle possibili limitazioni
con le garanzie assicurate dalla Convenzione, la Corte EDU non
applica i test tradizionali usati nella verifica del rispetto degli
stessi articoli da 8 a 11 della Convenzione, basati sui criteri della
necessita' o dell'urgente bisogno sociale, ma fa riferimento a
criteri diversi e specifici. In base ad essi, in particolare: le
limitazioni del diritto di voto e del diritto di candidarsi non
devono violarne la sostanza, ne' privarli di effettivita'; le
restrizioni devono perseguire un fine legittimo, compatibile con il
principio del primato della legge e con gli obiettivi generali della
CEDU, e segnatamente con la protezione dell'indipendenza dello Stato,
dell'ordine democratico e della sicurezza nazionale; i mezzi
impiegati non devono essere sproporzionati (ex plurimis, Corte EDU,
grande camera, sentenza 27 aprile 2010, Tănase contro Moldavia,
paragrafo 161; sentenza 6 novembre 2009, Etxeberria e altri contro
Spagna, paragrafo 47; sentenza 5 aprile 2007, Kavakçi contro Turchia,
paragrafo 41; sentenza Lykourezos contro Grecia, paragrafo 52;
sentenza Vito Sante Santoro contro Italia, paragrafo 54; sentenza
Hirst contro Regno Unito, n. 2, paragrafo 62).
Quanto in particolare alle restrizioni al diritto di voto nel suo
aspetto "passivo", il controllo della Corte EDU e' poi ancora piu'
prudente, sul dichiarato presupposto che al legislatore nazionale
deve essere riconosciuto il potere di disciplinare il diritto di
presentarsi alle elezioni, circondandolo di cautele rigorose, anche
piu' stringenti di quelle predisposte per il diritto di elettorato
attivo (Corte EDU, grande camera, sentenza 16 marzo 2006, Ždanoka
contro Lettonia, paragrafo 115; sentenza Hirst contro Regno Unito, n.
2, paragrafi da 57 a 62). In questa ipotesi viene infatti in gioco la
peculiare esigenza di garantire stabilita' ed effettivita' di un
sistema democratico nel quadro del concetto, del quale la stessa
Corte ha riconosciuto la legittimita', di «democrazia capace di
difendere se stessa» (Corte EDU, sentenza Ždanoka contro Lettonia,
paragrafo 100).
A tale riconosciuta possibilita' per gli Stati contraenti di
imporre in questi casi requisiti piu' stringenti corrisponde dunque
in sostanza, nella valutazione della Corte di Strasburgo ex art. 3
Prot. addiz. CEDU, una minore severita' nel sindacato sulla
proporzionalita' dei mezzi impiegati nella limitazione, nel senso
che, mentre quando si tratti del diritto di elettorato attivo la
verifica consiste normalmente in un'approfondita valutazione della
proporzionalita' delle previsioni che escludono una persona o un
certo gruppo di persone, quella operata sulle limitazioni al diritto
di elettorato passivo e' mantenuta nei limiti dell'accertamento della
non arbitrarieta' delle misure nazionali che privano un individuo
dell'eleggibilita' (ex plurimis, Corte EDU, sentenza Etxeberria e
altri contro Spagna, paragrafo 49; sentenza Ždanoka contro Lettonia,
paragrafo 115).
3.2.2.- Cio' premesso, si puo' passare all'esame della specifica
violazione dell'art. 3 Prot. addiz. CEDU lamentata dal rimettente.
Secondo il giudice a quo, l'art. 8, comma 1, lettera a), del
d.lgs. n. 235 del 2012, precludendo al giudice di valutare in
concreto, secondo il criterio della proporzionalita', la gravita' del
fatto accertato penalmente rispetto all'esigenza perseguita con la
sospensione, si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza della
Corte di Strasburgo, secondo cui le limitazioni di qualsiasi tipo al
diritto di voto dovrebbero conseguire a un "processo decisorio
individualizzato", e piu' precisamente a un provvedimento
giurisdizionale personalizzato, idoneo a garantire una verifica sulla
proporzionalita' della misura e la sussistenza di un effettivo
collegamento tra essa e i fatti a causa dei quali essa e' applicata.
Al riguardo occorre tuttavia osservare che, nei termini indicati
dal rimettente, la Corte di Strasburgo si e' espressa soltanto in una
isolata pronuncia (Corte EDU, sentenza 8 aprile 2010, Frodl contro
Austria, paragrafi 34 e 35), a fronte della quale si e' consolidato
invece un diverso orientamento della grande camera della stessa
Corte, che riconosce la possibilita' che sia il legislatore a
determinare nel dettaglio lo scopo e le condizioni di una misura
restrittiva, e che, in questo caso, sia lasciato ai giudici solo il
compito di verificare se un determinato soggetto appartenga o meno
alla categoria o al gruppo contemplato nella previsione di cui si
tratta, con esclusione di apprezzamenti giurisdizionali sulla
proporzionalita' della singola misura (Corte EDU, sentenza 22 maggio
2012, grande camera, Scoppola contro Italia, n. 3, paragrafi da 97 a
102, dove si confuta l'interpretazione assunta in Frodl contro
Austria; sentenza Ždanoka contro Lettonia, paragrafi da 112 a 115 e
125).
Nei suoi sviluppi piu' recenti e compiuti, dunque, la
giurisprudenza della Corte EDU non postula affatto la necessita' che
l'applicazione in concreto delle misure restrittive del diritto di
voto avvenga attraverso un provvedimento giurisdizionale, come
sostiene il rimettente, e afferma invece che gli Stati contraenti
possono scegliere se affidare alla giurisdizione la valutazione del
carattere proporzionale della misura o se "incorporare" tali
apprezzamenti nel testo delle loro leggi, con la precisa definizione,
direttamente in esse, delle circostanze in cui la misura stessa puo'
essere applicata. In questo secondo caso, il legislatore puo'
bilanciare a priori gli interessi in gioco, con il limite del divieto
di introdurre restrizioni generali e indiscriminate. Spettera' poi in
ogni caso alla Corte EDU di stabilire se, in una determinata ipotesi,
il risultato sia stato raggiunto, se il limite sia stato rispettato e
se, in generale, la soluzione regolativa prescelta ovvero, nell'altro
caso, la decisione giudiziale siano conformi all'art. 3 Prot. addiz.
CEDU (Corte EDU, sentenza Scoppola contro Italia, n. 3, paragrafo
102).
Alla luce di quanto esposto si deve pertanto escludere che la
disposizione censurata contrasti con l'art. 3 Prot. addiz. CEDU solo
perche' non affida ai giudici nazionali il potere di individualizzare
pienamente la sua applicazione alla luce della specifica situazione
di un soggetto e delle circostanze particolari del caso concreto
(Corte EDU, sentenza Ždanoka contro Lettonia, paragrafo 125). Essa
costituisce invero legittimo esercizio, da parte dell'ordinamento
nazionale, del margine di apprezzamento che la Convenzione lascia
agli Stati nella disciplina della materia, in ragione del fatto che
le particolari condizioni di sviluppo storico, di diversita'
culturale e di pensiero politico che caratterizzano le singole
esperienze nazionali modellano, per ciascuna, una sua propria visione
democratica (Corte EDU, sentenza Scoppola contro Italia, n. 3,
paragrafo 102). La soluzione adottata in concreto nell'ordinamento
nazionale, di individuare legislativamente le condizioni per
l'applicazione della restrizione e di riservare ai giudici solo la
verifica della loro sussistenza - in particolare se un determinato
soggetto appartenga alla categoria o al gruppo contemplato nella
previsione legislativa - senza apprezzamenti da operare nel caso
specifico, non risulta priva di ragioni, attese la portata e la
delicatezza, anche in termini di conseguenze politiche, del giudizio
sulla permanenza in carica degli eletti, cosi' come, nelle altre
ipotesi disciplinate nella medesima normativa del 2012, sulla loro
candidabilita'. Si tratta in ogni caso di una scelta legislativa che
supera agevolmente il controllo di non arbitrarieta', stante che la
prevista restrizione del diritto di elettorato passivo non presenta
portata ne' generalizzata ne' indiscriminata, essendo circoscritta a
una precisa e alquanto limitata categoria di soggetti, costituita da
coloro che hanno subito condanne per determinati tipi di reati - la
cui individuazione ad opera del legislatore resta comunque estranea
alle censure del rimettente - particolarmente gravi o di specifico
rilievo in funzione dell'attitudine a incidere sull'immagine e
l'onorabilita' della pubblica amministrazione, come si dira'
appresso.
Nella sua sostanza, infine, la scelta operata con il censurato
art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 si pone in
linea con le finalita' che, secondo la stessa giurisprudenza della
Corte EDU, possono legittimare misure di questo tipo, come quella di
proteggere l'integrita' del processo democratico mediante
l'esclusione dalla partecipazione all'attivita' degli organi
rappresentativi di individui che possono pregiudicarne il corretto
funzionamento (Corte EDU, sentenza Ždanoka contro Lettonia, paragrafo
122).
3.2.3.- Si deve ancora escludere che la norma censurata contrasti
con l'art. 3 Prot. addiz. CEDU sotto il diverso - e in parte
concorrente - profilo della mancata previsione in essa di un
collegamento tra la sospensione e i fatti oggetto della condanna
penale, tenuto conto della loro gravita' nonche' della loro
connessione con la carica esercitata al momento della sospensione.
Cio' che piu' precisamente il giudice a quo lamenta e' il carattere
potenzialmente sproporzionato della misura, derivante dalla
presunzione assoluta di pericolo operata dalla norma, pericolo che
potrebbe in concreto non sussistere, «come ad esempio nel caso in cui
l'illecito fosse relativo ad una carica pregressa e mutata, con
impossibilita' nella nuova carica di reiterare la condotta».
Secondo il costante orientamento di questa Corte - che si colloca
nel solco tracciato da sentenze su analoghe disposizioni previgenti -
le misure dell'incandidabilita', della decadenza e della sospensione
dalle cariche elettive previste nel d.lgs. n. 235 del 2012, ancorche'
collegate alla commissione di un illecito, non hanno carattere
sanzionatorio e rappresentano solo conseguenze del venir meno di un
requisito soggettivo per l'accesso alle cariche pubbliche
considerate. La sospensione dalla carica, in particolare, «risponde
ad esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica
amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio» e
costituisce, per la sua natura provvisoria, «misura sicuramente
cautelare» (ex plurimis, sentenze n. 276 del 2016 e n. 236 del 2015).
Il legislatore ha infatti considerato che la permanenza in carica di
chi sia stato condannato anche in via non definitiva per determinati
reati che offendono la pubblica amministrazione - come il peculato,
per il quale e' stato condannato il ricorrente nel giudizio
principale - puo' comunque incidere sugli interessi costituzionali
protetti dall'art. 97, secondo comma, Cost., che affida al
legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che
siano garantiti il buon andamento e l'imparzialita'
dell'amministrazione, e dall'art. 54, secondo comma, Cost., che
impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche il dovere di
adempierle con disciplina ed onore (sentenza n. 36 del 2019, resa
sull'art. 11, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 235 del 2012, ma con
argomenti estensibili all'analoga misura prevista dalla norma qui
censurata).
Se questo e' il fine perseguito dal legislatore - la cui
legittimita' non e' dubitabile, come visto, ai sensi dell'art. 3
Prot. addiz. CEDU - la modalita' prescelta per realizzarlo non e' in
contrasto con il criterio della proporzionalita', costituendo invece
il frutto di un ragionevole bilanciamento tra gli interessi che
vengono in gioco nella disciplina dei requisiti per l'accesso e il
mantenimento delle cariche in questione, e quindi tra il diritto di
elettorato passivo, da un lato, e il buon andamento e l'imparzialita'
dell'amministrazione, dall'altro.
Come gia' osservato, la sospensione cautelare in esame non trova
applicazione generalizzata e indifferenziata, ma e' riservata a una
platea delimitata di soggetti, costituita dai condannati in via non
definitiva per reati direttamente connessi alle funzioni che
sarebbero chiamati ad assumere, perche' di particolare gravita' (ex
art. 7, comma 1, lettere a e b, del d.lgs. n. 235 del 2012) o perche'
commessi contro la pubblica amministrazione (ex art. 7, comma 1,
lettera c, del d.lgs. n. 235 del 2012). In ordine a tali reati le
esigenze di tutela del buon andamento e della legalita' della
pubblica amministrazione, anche sotto il profilo della perdita di
immagine degli apparati pubblici, sono di immediata evidenza e non
richiedono indagini o apprezzamenti ulteriori rispetto a quelli
operati dal legislatore.
In secondo luogo, si tratta di una misura caratterizzata da una
strutturale provvisorieta' e dalla gradualita' nel tempo dei propri
effetti, in attesa che l'accertamento penale si consolidi nel
giudicato, determinando la decadenza dalla carica (art. 8, comma 6,
del d.lgs. n. 235 del 2012). La sospensione, infatti, cessa di
diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi, salvo che entro
questo termine la sentenza di condanna sia confermata in appello, nel
quale caso decorre un ulteriore periodo di sospensione di dodici mesi
(art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 235 del 2012). Come questa Corte ha
gia' osservato con riguardo all'analoga previsione dell'art. 11,
comma 4, del d.lgs. n. 235 del 2012 (sentenza n. 36 del 2019, punto
4.1. del Considerato in diritto), la disciplina richiamata e' il
risultato di un ulteriore bilanciamento delle descritte esigenze di
tutela della pubblica amministrazione, da un lato, e dell'eletto
condannato, dall'altro, diretto a temperare gli effetti automatici
della sentenza di condanna non definitiva in ragione del trascorrere
del tempo e della progressiva stabilizzazione della stessa pronuncia,
con l'obiettivo di evitare un'eccessiva compressione del diritto di
elettorato passivo.
Inoltre, le esigenze cautelari che la sospensione mira ad
assicurare non vanno identificate nel pericolo di reiterazione del
reato, come erroneamente ritiene il giudice a quo, ma, come visto,
nella mera possibilita' che la permanenza dell'eletto nell'organo
elettivo determini una lesione dell'interesse pubblico tutelato. La
misura non assolve invero a funzioni sanzionatorie o di cautela
penale, ma e' semplicemente diretta a garantire l'oggettiva
onorabilita' di chi riveste la carica pubblica di cui si tratta,
sicche' nei suoi riguardi - come questa Corte ha piu' volte affermato
- se un'esigenza di proporzionalita' e' prospettabile, questa non e'
rispetto al reato commesso (e, si deve precisare qui, al pericolo
della sua reiterazione, di cui la norma censurata non si occupa), ma
rispetto all'esigenza cautelare perseguita (ex plurimis, sentenze n.
276 del 2016 e n. 25 del 2002, quest'ultima sull'analoga sospensione
gia' prevista dall'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, recante
«Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo
mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosita'
sociale»), in una logica che prescinde dalla gravita' del fatto di
reato e dalla pena in concreto irrogata.
Se percio' il collegamento tra sospensione e condanna e' operato
all'esclusivo scopo di realizzare le esigenze cautelari costituenti
il fine legittimo della misura, la sospensione non dipende dalla
concreta gravita' dei fatti per i quali vi e' stata condanna, ma solo
da quest'ultima, che costituisce l'oggettivo presupposto perche' si
produca l'effetto ulteriore e distinto previsto dalla norma,
destinato a operare in modo autonomo ed "esterno" rispetto all'azione
pubblica di repressione penale (sentenza n. 276 del 2016). Ne', per
le medesime ragioni, rileva che il fatto di reato accertato abbia una
qualche incidenza, anche temporale, sull'esercizio del mandato.
Esaminata da questo angolo visuale, la sospensione dalla carica,
rigorosamente circoscritta nel tempo e destinata a cessare
immediatamente nel caso di sopravvenuti non luogo a procedere,
proscioglimento o assoluzione dell'eletto, non puo' essere
considerata inadeguata o eccedente rispetto al fine perseguito.
3.2.4.- In conclusione, anche tenuto conto dell'ampio margine di
apprezzamento riconosciuto al legislatore nazionale nella disciplina
del diritto di elettorato passivo, si deve ritenere che la concreta
regolazione della misura della sospensione cautelare contenuta nella
norma censurata operi - per la platea delimitata di soggetti ai quali
si applica, per la temporaneita' e la gradualita' dei suoi effetti,
per la legittimita' dei suoi fini e per la sua adeguatezza rispetto
alle specifiche esigenze cautelari perseguite - un non irragionevole
bilanciamento degli interessi in gioco e in ogni caso non presenti
sintomi di arbitrarieta' tali da determinarne il contrasto con l'art.
3 Prot. addiz. CEDU come interpretato dalla Corte EDU.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 8, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre
2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di
incandidabilita' e di divieto di ricoprire cariche elettive e di
Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non
colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre
2012, n. 190), sollevate dal Tribunale ordinario di Genova, in
riferimento agli artt. 117 e 122 della Costituzione e al principio di
leale collaborazione, nonche' in riferimento all'art. 117, primo
comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 3 del Protocollo
addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo
1952, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 febbraio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Daria de PRETIS, Redattrice
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2021.
Il Cancelliere
F.to: Filomena PERRONE
